Reparto Chemio: la sciarpa della Roma al confine tra inferno e paradiso (di A. Tagliaferri)

Esistono reparti dove il confine tra l'inferno ed il paradiso è una linea sottilissima. Ed attraversarla è questione di un attimo. Dove bisogna controllare i sentimenti. E dove anche una temprata, come Ada Tagliaferri...

Ada Tagliaferri

Infermiera mancata con la vocazione per la pulizia, di ospedali e di anime. Un viaggio all'alba e al tramonto tra corsie e barelle

Questo inverno stenta ad arrivare. Un autunno umido e maltempo dirompente alternato a giornate calde, in cui i raggi di sole illuminano le foglie dalle tonalità disparate cadere dagli alberi.

Oggi per me la destinazione è fuori città, devo spostarmi in un’altra struttura. Arrivo e l’ospedale sembra cadere a pezzi, un casermone grigio che da l’impressione di un manicomio. Io, sincermante, non mi farei curare neanche un’unghia incarnita qui.

 

Salgo e cerco lo spogliatoio, mi hanno inviato qui per delle sostituzioni e spero vivamente siano solo momentanee. Quest’ospedale non mi piace.

Attraverso questi corridoio freddi, la pavimentazione lascia a desiderare, i finestroni che affacciano sulle montagne non mi danno sicurezza. Entro nel reparto al quale mi hanno assegnata. L’odore di disinfettante è forte e in tanti girano con le mascherine. Ne danno una anche a me. “Sai qui si fa la chemioterapia, bisogna fare attenzione. Tu stai bene vero?”. Mi chiede un infermiere calvo, glabro, talmente asettico che mi chiedo se non sia stato selezionato appositamente per questo reparto.

Certo che sto bene, non si preoccupi, non è il primo ospedale in cui lavoro, né il primo reparto che pulisco”.

Lui mi sorride, “Questo non è un “reparto”…questo può essere un girone infernale, anticamera dell’inferno o del paradiso, dove tutto può cambiare in pochi giorni, chi entra il lunedì mattina potrebbe anche non arrivare al sabato”.

Si vede da come parla, si percepisce chiaramente che tutti i capelli e i peli che non ha non fanno di lui un uomo esposto alle brutture del mondo, ma lo avvolgono in un guscio di cinismo, tanto trasparente quanto duro.

 

Entro piano, e noto le prime poltrone, qui si fa chemioterapia. Uomini, donne, ragazzi e ragazze, alcuni sfoggiano teste pelate altri invece hanno il capo coperto da cuffie e cappellini più o meno appariscenti.

Ognuno di loro è intento a fare qualcosa, chi legge, chi gioca con il cellulare e chi chiacchiera con il vicino. Tutti accomunati dallo sguardo profondo che fissa il vuoto, che rincorre la speranza.

In fondo vedo un uomo ridacchiare, e parto proprio da lui “Buongiorno, scusi il disturbo, devo pulire”.

Prego, se vuole può venire anche a casa mia, mia moglie ne sarebbe contenta”. Antonio ha un sacchetto sul fianco, senza rendermene conto lo fisso, e lui mi risponde “E’ una stomia. Se vuole sapere se sia cacca le dico che più o meno è qualcosa che il mio corpo elimina. Certo non è la migliore delle “borse” ma era l’unica alternativa. Ho avuto un cancro al colon”.

 

Antonio porta la sua borsa con indifferenza, ha un berretto della Roma in testa, il volto è emaciato, ma i suoi occhi non sono vuoti, non cercano speranza, sembra sorridano. “So che non ho più speranze, sto combattendo per la mia famiglia, mia moglie è disperata. Mia figlia ha rimandato il matrimonio e mio figlio, il piccolo, quest’anno ha la maturità. Credo che non ci sarò né in chiesa né fuori dalla scuola per festeggiare con loro. Diciamo che vogliamo crederci tutti, loro così si sentono meglio. Io pero solo che questo strazio finisca il prima possibile così da lasciarli “liberi”. Ne hanno diritto”.

 

Antonio parla con me e guarda il suo telefono, gli esce qualche imprecazione “Sto guardando una trasmissione sportiva. Questa Roma non va come dovrebbe andare. Belli i tempi del re, quando c’era Francesco era uno spettacolo!”. Lo lascio così, alle prese con gol e pronostici.

Lo ritrovo i giorni seguenti e ci scambio quattro chiacchiere. Aspetta con entusiasmo la partita della sua Roma con il CSKA Mosca. “La settimana prossima sono libero, finisco con le infusioni sabato. Starò male e poi per mercoledì poltrona e ciabatte a casa mia”.

Quasi quasi inizio a tifare la Roma anche io.

 

Il sabato arrivo con una sciarpa..un regalo per il super tifoso. Non lo trovo e chiedo a Gabriele, l’infermiere “spelato” si chiama come l’arcangelo. “Ti avevo detto che qui non è un reparto come gli altri. Non ci si può affezionare o trovare amici, solo compagni di viaggio quotidiano. Antonio purtroppo ha avuto uan crisi giovedì sera, è arrivato qua nella notte, è stato un po’ in rianimazione ma ieri è morto poco prima di pranzo. Era sereno”.

Mi accade una cosa che non mi era mai successa, scoppio in lacrime. Lì con la mia sciarpetta in mano che avevo lavato e sterilizzato per evitare di creare danni al sistema immunitario di Antonio.

Gabriele mi abbraccia, mi sento come una bambina “Non farti vedere così dagli altri. Una lacrima e qui esplode il caos”.

Non vedo l’ora di andare via, spero che lunedì non mi chiamino per un’altra sostituzione.

 

Finisco il turno, con gli occhi gonfi fisso solo il pavimento che pulisco. Vado via torno verso casa mia… la sciarpa della Roma è rimasta sul tavolo degli infermieri, con un pezzo del mio cuore e un bel sorriso di Antonio.

In meno di una settimana ho trovato un buon amico e l’ho perso.

Mi rimbomba nel cervello la frase di Gabriele “Chi entra il lunedì può non arrivare al sabato”…

Antonio ha scelto venerdì per uscire di scena e “liberare” le persone che amava. Chissà se ha portato con lui quella borsetta.