Betto Tomassi, il Diavolo Rosso di Zonderwater

La storia delle squadre di calcio formate dai prigionieri di guerra a Zonderwater, in Sudafrica. Tra loro anche il ceccanese Benedetto Tomassi. La cui storia si intreccia con quella di un 'primavera' del grande Toro. E di un maresciallo di Pontecorvo.

Marco Barzelli

Veni, vidi, scripsi

Da stasera Federico Buffa, narratore per eccellenza, racconterà al pubblico di Sky le gesta dei Diavoli di Zonderwater: la storia dei prigionieri italiani in Sudafrica che sopravvissero alla guerra grazie allo sport. Quella riportata dal 2010 nell’omonimo libro scritto da Carlo Annese, con prefazione di Gian Antonio Stella. E la provincia di Frosinone, in maniera esplicita e non, è ancora una volta come il prezzemolo. Con il maresciallo S. Caramadre, originario di Pontecorvo. Così riportato, senza nome di battesimo, nell’elenco dei prigionieri. Verrà citato da Buffa. Perché era il responsabile dei Diavoli Neri: la squadra di calcio più forte in quel di Zonderwater.

Betto Tomassi (secondo da dx) nel Ceccano del 1946 che batté 1-0 il Frosinone al Matusa

Ma c’era anche un Rosso proveniente da Ceccano: Benedetto “Betto” Tomassi, Classe 1920. Di lui, purtroppo, non parlerà Buffa. Anche se col pallone ci sapeva fare eccome. E con la formazione dei Fascisti aveva ben poco a che spartire. Lui, liberato nel 1946, fu operaio del saponificio Annunziata, impegnato nelle lotte sindacali e “Comunista di ferro” fino alla morte: sopraggiunta il primo settembre 2015, all’età di 95 anni. E negli annali del Ceccano Calcio resterà per sempre quell’uno a zero allo Stadio Matusa contro i cugini del Frosinone: era proprio il ’46, per l’esattezza il 26 gennaio. E “Betto” era in campo con i Rossoblù.    

Deportati a Zonderwater

C’era, ovviamente, un pezzo di Ciociaria tra gli oltre centomila italiani internati tra il 1941 e il 1947 a meno di cinquanta chilometri da Pretoria: la capitale amministrativa del Sudafrica. Zonderwater, “senz’acqua” in lingua afrikaans, fu un immenso campo di prigionia: il più grande allestito dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Lì finivano i connazionali catturati dagli inglesi nel Nordafrica e nell’allora Africa orientale italiana: quella colonizzata da Mussolini.

L’iniziatore del “miracolo” di Zonderwater fu il suo comandante: il colonnello Hendrik Frederik Prinsloo. Uno che in giovane età aveva vissuto sulla sua pelle il dramma del concentramento. Nella terra dei prigionieri, divisa in quattordici unità da quattro campi e forzatamente votata al lavoro nei campi e all’edilizia, creò una cittadella dello sport: calcio, boxe, scherma, atletica leggera, basket, pallavolo, tennis, lotta libere e ciclismo. Nacque anche un teatro: ampio spazio anche alle arti. E anche lì Betto Tomassi non fece mancare il suo apporto: come sarto.

Il cartello all’ingresso del campo di Zonderwater

Il magnetico Buffa, nel video promozionale, inizia a raccontare. «Zonderwater è un campo costruito in maniera precisa, come quasi tutti quelli inglesi. Ci sono quattro sezioni, che loro chiamano proprio Camp. Ognuna di queste può ospitare duemila prigionieri».

«Divise in tende da otto, anche se c’è sempre una convitata di pietra che non dorme mai: la fame. Anche perché ogni prigioniero, ogni giorno, come razione ha diritto a due fette di pane, mezzo litro di latte, un po’ di acqua, un po’ di caffè».

Qualcuno pratica sport?

«Occasionalmente, in maniera molto episodica, della carne – va avanti -. Più spesso del pesce in polvere, frutta secca e fresca. Ma solo due volte a settimana. E, quindi, ci vuole della gran fantasia. Perché la fantasia, che agli italiani di certo non manca, può aiutarti ad avere qualche privilegio. Sai cantare? Sai suonare uno strumento? O per caso giocare a calcio? Perché, se sai giocare a calcio e ci sono gli italiani, quello ti vale sempre una scodella in più».

Quella che rimediarono i Diavoli Neri, nel blocco 3, e tutti coloro che giocarono nelle altre squadre: Savoia (1), Diavoli Rossi (2), Olimpia (4), Andrea D’Oria (5), Vittoria (6), Virtus (7), Duca d’Aosta (8), Velox (9), Tevere (10), Olubra (11) e Ospedale. Perché a Zonderwater c’era un ospedale militare con oltre 1.500 posti letto: uno dei nosocomi sudafricani più grandi del tempo.  

Il tesserino di Giovanni Vaglietti (Photo: Sky)

«C’è qualcuno di voi che pratica uno sport?», chiese un tenente medico in fase di reclutamento. «Io! Io gioco a calcio. Sono una mezz’ala», rispose un giovane di Settimo Torinese. «Ah, sì? E in quale squadra giocate?», diffidò un sergente maggiore d’artiglieria. «Nel Torino», replicò. «Sì, e io sono Vittorio Pozzo!», lo canzonò il graduato citando il commissario tecnico della Nazionale campione del mondo nel 1934 e 1938. Scatenò, ovviamente, l’ilarità generale. Ma quel giovane era Giovanni Vaglietti. E, prima di arruolarsi ed essere imprigionato, giocò per davvero nelle giovanili del Toro: prossimo a diventare il Grande Torino sterminato il 4 maggio 1949 dalla tragedia di Superga.

«A me serve un centrocampista. Naturalmente per le riserve, eh!», intervenne però il maresciallo pontecorvese Caramadre. «D’accordo, comincerò da lì», così Vaglietti, in tutta risposta, sapendo il fatto suo. Fu scelto dal team manager della compagine del terzo blocco: i Diavoli Neri, chiamati così in quanto fedelissimi del Duce. E altro che riserva: Vaglietti divenne il capitano e la stella del campionato.

Una scodella per Betto

Vaglietti è il più famoso tra quelli che si salvarono a ZonderWater grazie allo sport. Quando morì il colonnello Prinsloo, nel 1966, fu anche tra i sei ex prigionieri che portarono il feretro fino al cimitero. Un altro nome altisonante è quello del livornese Araldo Caprili. Dopo la prigionia, giocò nella Juventus di Giampiero Boniperti e Carletto Parola: autore della rovesciata immortale sull’album Panini. Degni di nota, fuori dal campo di calcio, anche il pugile romano Giovanni Manca e un altro boxeur: Gino Verdinelli, la “Pantera di Velletri”. Nonché, nella scherma, Ezio Triccoli di Jesi: diventato poi un Maestro di campioni, è a lui intitolato il palazzetto dello sport della cittadina marchigiana.    

Il colonnello Hendrik Frederik Prinsloo (PH Centro Studi Salvatori)

Piace pensare che, quando chiesero se ci fosse qualcuno che praticasse sport, Betto Tomassi rispose più o meno come Vaglietti: «Io! Io gioco a calcio. Sono un’ala». Perché lui era forte sulla fascia destra. E lo dimostrò a Zonderwater: meritandosi quella famosa scodella in più. Come con i colori della compagine della sua città: entrando nell’album dei ricordi perpetui del Ceccano. Che dal 1949 divenne la gloriosa Annunziata Ceccano.

Fu fondata dall’imprenditore sorano Antonio Annunziata, che vent’anni prima aveva avviato l’iconico stabilimento rimasto aperto fino al 1997. E arrivò a disputare la IV Serie: la Serie D degli anni Cinquanta. Ma era capace di battere chiunque. Memorabili le vittorie in amichevole contro le “big”: Lazio, Bologna e Padova. Persino il Sarpsborg, vincitore della massima serie norvegese, se ne andò sconfitto da Ceccano.

Il capitano dell’Annunziata Ceccano era Romolo Battista: consigliere comunale del Pci. Lui e l’onorevole Angelo Compagnoni, appena eletto deputato con il Partito comunista e passato alla storia come il “Senatore del Popolo”, lottavano spalla a spalla. Nel luglio 1953 si battevano per avere una rappresentanza sindacale nella SAS Annunziata.

La memoria di Angelino

Per il resto è doveroso affidarsi alle parole dell’ex sindaco 1981-1985 Angelino Loffredi e dalla professoressa Lucia Fabi: coniugi a cui si deve il merito di tanta memoria storica cittadina.

Nel libro “Ceccano con gli operai del saponificio Annunziata”, scritto a quattro mani, il duo Loffredi-Fabi racconta: «Battista con l’on.  Compagnoni, deputato e segretario provinciale della CGIL, avviò   tutte   le   iniziative   necessarie   per   far   entrare   il   sindacato   in   fabbrica.  Vennero   stabiliti   contatti   ed   emersero   concrete   disponibilità.   Si   individuarono anche le persone che dovevano essere candidate alla elezione per la commissione interna».

Angelino Loffredi

«Quando ogni cosa sembrava definita la mattina del 22 luglio la direzione aziendale annunciava i licenziamenti di 11 persone: otto uomini e tre   donne.  Una vera rappresaglia! Sicuramente c’era stata una soffiata perché le persone colpite erano tutte coinvolte nell’iniziativa sindacale. Fra queste oltre a Battista anche persone che negli anni successivi caratterizzeranno la loro vita con un forte impegno politico».

Tra questi c’era anche Betto Tomassi. E il libro è dedicato all’operaio Luigi Mastrogiacomo, caduto nel 1962 in difesa dei diritti dei lavoratori. E che in città, con le differenze del caso, viene ricordato al pari dell’omonimo martire delle Fosse Ardeatine. (Leggi qui Da Luigi Mastrogiacomo a… Luigi Mastrogiacomo: storia di due martiri ceccanesi).

Betto Tomassi, salvatosi grazie allo sport, si tesserò con il Pci non appena tornato a Ceccano. Da allora in poi quasi settant’anni di militanza e passione politica. Dal Partito comunista fino ai suoi controversi “figli”: il Partito democratico della sinistra (Pds), i Democratici di Sinistra (Ds) e l’odierno Partito democratico (Pd). Lui, però, non l’aveva mai tolta la “S” di Sinistra: rendeva ancora tali le Feste dell’Unità. Nel 2012, quando l’ex primo cittadino Maurizio Cerroni si ricandidò a sindaco, lui era lì: nella storica piazza 25 Luglio, immortalato assieme a un Walter Veltroni ormai prossimo all’addio alla politica attiva. Due anni prima, in quella piazza che frequentava spesso e volentieri, lo intervistò Luigi Compagnoni: che nel 2015 fu sconfitto alle elezioni dall’ormai due volte sindaco di FdI Roberto Caligiore.

Anche Betto, prima di morire, ha assistito suo malgrado alla caduta della Stalingrado ciociara. E alla nascita della Roccaforte di Patrioti. (Leggi qui Da Stalingrado ciociara a roccaforte di patrioti).

Betto nei ricordi di Compagnoni

Luigi Compagnoni, un altro a cui si deve tanta altra memoria storica, racconta: «Nel campo di prigionia di Zonderwater arrivarono dai vari fronti di guerra in Africa anche molti ragazzi ceccanesi. Tra i 252 prigionieri Italiani morti a Zonderwater c’è, ad esempio, anche Giacinto Ferri, nativo della contrada di Colle San Paolo, appartenente al 55° Reggimento Artiglieria “Brescia”, fatto prigioniero dagli Inglesi e morto nel campo di prigionia sudafricano il 7 giugno 1942».

Lui, purtroppo, è uno di quelli che non ce l’ha fatta. Ma, grazie a quell’intervista, può parlare direttamente il Diavolo Rosso di Zonderwater: il compianto Benedetto “Betto” Tomassi. Era il 2010, l’anno in cui uscì il libro di Annese. E si cominciò a parlare così dello sport, soprattutto il calcio, voluto dal colonnello Prinsloo. In quel campo di concentramento sudafricano dove Betto volò sulla fascia destra. E, a distanza di quasi sei anni dalla sua scomparsa, resta un immenso vuoto lasciato da quel piccolo grande uomo nella comunità di Ceccano.

Compagnoni: «Betto, ma nel campo di prigionia di Zonderwater si giocava a calcio?»

«Sì, nel campo esistevano addirittura, se non ricordo male, 14 campi di calcio e si disputavano veri campionati con gironi di andata e ritorno che duravano anche mesi. Alle partite assistevano tanti prigionieri che facevano un tifo incredibile, come si fosse trattato di partite di serie A. A proposito, non ricordo i nomi, ma credo che in alcune squadre di prigionieri militassero giocatori che avevano giocato nei campionati di serie A e B. Ricordo che ci fu anche una partita tra guardie carcerarie e una rappresentativa di prigionieri che finì 10 a 0 per noi con grande disappunto per i Sudafricani».

«In effetti a Zonderwater, come si legge in un recente libro di Carlo Annese “I diavoli di Zonderwater”, oltre al calcio, nel campo di prigionia si svolsero con continuità anche altri sport come la scherma, l’atletica leggera e il ciclismo. Per la boxe ci fu un combattimento tra Gino Verdinelli di Velletri e Giovanni Manca che raccolse circa 20.000 spettatori. Oltre al calcio, Betto, hai praticato altri sport?»
Betto Tomassi, nel 1976, assieme al senatore Angelo Compagnoni

«No, oltre a giocare a calcio l’unica cosa cui ricordo di aver partecipato nel tempo libero era agli spettacoli teatrali dove si allestivano vere e proprie rappresentazioni in costume, dove davo anche una mano a cucire i vestiti di scena. Quell’esperienza mi è servita perché negli anni della prigionia. Ho lavorato come sarto e non me la sono passata male. La cosa simpatica negli spettacoli erano i personaggi femminili interpretati dagli stessi prigionieri. In particolare ricordo un Sergente di artiglieria che riscuoteva un successo fenomenale tra noi soldati che non vedevamo una donna da anni!».

«Ricordi di Giacinto Ferri morto nel giugno del 1942?»

«Ho un vago ricordo di Giacinto, ma c’erano anche altri soldati di Ceccano. Il campo di prigionia era enorme, quasi una città. Di fatto non ricordo come morì Giacinto anche se debbo dire che l’assistenza sanitaria era buona e c’erano nel campo parecchi ospedali. La maggior parte dei decessi, sembrerà strano, era dovuto ai fulmini che cadevano continuamente sul campo, soprattutto quando ancora era costituito dalle tende. Ricordo di un giovane di Anagni, Antonio Colantoni, che rimase fulminato da una saetta. A proposito di Giacinto, ricordo che aveva dei parenti a Colle San Paolo che negli anni passati ho visitato spesso».

«Hai conservato qualche foto del tuo periodo di prigionia a Zonderwater?»

«Purtroppo le foto del periodo della mia prigionia sono andate perse durante una Festa dell’Unità, quando furono utilizzate per un’iniziativa sui ricordi dei reduci di guerra. Sarei molto contento poterne tornare in possesso perché è l’unico ricordo della mia permanenza a Zonderwater».

«Un’ultima domanda. Perché in tutti questi anni non si è mai parlato delle varie prigionie dei soldati ceccanesi dispersi in tutto il mondo, dall’India all’Australia, dal Sudafrica all’Inghilterra?».

«Non lo so. Di fatto, appena tornati a Ceccano, trovammo una situazione – si può dire – ancora peggiore di quella che avevamo lasciato in prigionia. Il primo impulso fu quello di rimboccarsi le maniche e impegnarsi alla ricostruzione senza più pensare agli aspetti negativi che la prigionia aveva lasciato dentro ognuno di noi».