Considerazioni inventate (ma non troppo) sul ruolo dell'intellettuale. E sulle occasioni che gli intellettuali perdono sempre più spesso
Quando ci siamo messi sul treno per Foggia noi non lo sapevamo mica, di essere dei Lanzichenecchi. Cioè, io ho usato la maiuscola perché mi sono andato a leggere qualcosa su ‘sti tipi ed ho scoperto che hanno fatto cose di un certo livello, qui in Italia. Cose orribili a dire il vero. Me lo ha spiegato Roby, che era con noi in vagone e che queste cose le sa.
Per inciso, Roby è quello che cià più tatuaggi di tutti noi messi assieme, ma è anche quello saputo. Lui è fatto così, curioso come un furetto in tana e oggi ci ha chiamati spiegandoci che la parola è tedesca e viene da “terra”. In poche parole erano soldati tedeschi di quando la Germania stava sotto ad uno che si chiamava Carlo V. Erano pagati per menare come matti ma prima facevano i contadini.
Il treno per Roma e le “bestie” in vagone
Roby mi ha detto che non andavano molto per il sottile e che moltissimi di loro erano bestie che fecero vedere quanto fossero bestie prendendo Roma. Ecco, al “bestie” mi sono incuriosito e mi sono andato a rileggere il pezzo che parlava di noi. Per qualche inspiegabile ragione nota solo a lui quel tizio che ha scritto di noi, in noi ci ha visto roba sufficiente per evocare degli uomini talmente poco umani da essere ricordati come animali.
E lo ha fatto perché pare ci abbia sentiti parlare e visti fare cose che in realtà non sono molto da bestie. Non è tanto perché noi mica ammazziamo gente e violentiamo donne. No, noi abbiamo una onesta venerazione per la figa e per le serate, qualcuno di noi venera altre tane e alle serate in millemila preferisce il pub.
A tutti ci piace il mare, a qualcuno piace Instagram ed a moltissimi di noi non piace sapere robe da vecchi. Sono abbastanza certo che Proust sia importante ma che non sia l’unità di misura di un essere umano. E fate un applauso ai miei congiuntivi, please.
Il gran casino di decidere e di capire dove viviamo
Quando ci chiedono di votare ci prende male: a molti di noi noi sembra tutto un gran casino. Magari dovremmo scavare di più nelle pieghe di quelle parole che dicono come, dove e quando le cose andranno meglio. Però noi del meglio e del peggio del mondo non sappiamo quasi nulla fin quando non li incontriamo. A scuola ce li disegnano un po’ così, il meglio ed il peggio. Ma non sempre ci fanno capire che quelli sono esempi per vivere e non ingombri per chiudere un programma.
Tuttavia sì, sono abbastanza sicuro che non essere parte attiva del posto dove vivi non è sufficiente a qualificare quella persona come una “bestia”. Neanche in iperbole o metafora. Ah sì, dimenticavo, come lo ha dimenticato coso là, il signor Alain Elkann: moltissimi di noi parlano così perché amano riconoscersi in un linguaggio comune. Ma non sono proprio proprio scimmie da compatire col sussiego di chi legge Proust.
E soprattutto non sono così grulli da trovare proprio quel capitolo, “Sodoma e Gomorra”, per contrappuntare l’incontro con un gruppo di persone diverse da te in modo da tirarci fuori l’articolo figo.
La casella sempre piena dei “cattivi”
Insomma, io non lo so spiegare bene bene, ma il senso è questo: davvero è così facile? E’ davvero così semplice mettere una persona o un gruppo in casella dei “cattivi” solo dopo aver annusato una piccolissima parte della loro vita ed averci spremuto via un giudizio?
Pochi chilometri in treno assieme, un dresscode diverso, i nostri cappellini, i tatuaggi e la parlesia sparata alta e sei già nella colonna della società dove abita la roba calda e marrò? Certo, quando fai un incontro da cui adocchi la liana per scrivere una cosa figa ed hai gli strumenti per fare ironia poi la faccenda esce stemperata, in un certo modo.
Ma io non la vedo così: io penso che se uno è abbastanza intelligente da essere ironico deve per forza saperlo, quel fatto “sciallo”. Che cioè l’ironia è un upgrade di cattiveria quando la usi per disegnare una categoria esattamente come esiste nel tuo pregiudizio e non come vive nel mondo. Ho letto, oh sì, e come se ho letto: “Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica. Mentre facevo quello, i ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone, assolutamente incuranti di chi stava attorno”.
Le parolacce ed il “linguaggio senza inibizioni”
“Parlavano di calcio, di giocatori, di partite, di squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni”.
Il tipo li ha studiati, ha preso appunti su di noi e sul fatto che si parlava a voce alta e di cose che evidentemente nella sua scala di valori stanno tra uno scemo ed un soprammobile. Li ha lasciati scivolar via come il colaticcio nei tombini dopo un temporale, i suoi giudizi. Cioè come una cosa vera, liquida e necessaria.
A molti – leggo – è sembrato un campione di civiltà, a moltissimi un buffone con la puzza sotto il naso. A me è sembrato un vecchio che ha perso un’occasione importante. Quella di usare la cultura e i libri come un ponte e non come un muro. Ecco, lo vedi che a furia di parlare di lui mi viene da parlare come lui?
Parlare per immagini furbe. “A un certo punto, poco dopo Benevento, mentre erano sempre seduti o quasi sdraiati ai loro posti, ammassando nei vari cestini per la carta straccia lattine di Coca Cola o tè freddo, uno di loro ha detto: ‘Non è che dobbiamo stare soli di sera. Andiamo a cercare ragazze nei night’”. Ecco, il tipo è bravo, perché ha fatto vincere il concetto di “ammassare” roba su quell’altro.
Quello per cui la “roba” erano lattine di Coca e Thè, non pipette da crack o bocce di Jack Daniels. Poi che la stessa era nei cestini. Cioè dove doveva stare, dove la mettono le persone che non sono bestie ma che la patente di bestie se la meritano a prescindere perché è lo spunto che conta, non la realtà.
Indifferenti davanti all’indifferenza
E poi quella parolaccia così frivola, una vera esca per aprire scenari zozzissimi e scostumati, “nigth”. Ma chi cacchio ci è andato mai in un night e soprattutto chi la usa ancora, ‘sta parola? Mi sono incazzato e non poco, ma poi ho letto altro ed ho capito. “Loro erano totalmente indifferenti a me, alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente, un altro mondo. Io mi sono domandato se era il caso (se fosse amigo, se fosse) di iniziare a parlare col mio vicino, ma non l’ho fatto”.
“Lui era la maggioranza, uno nessuno centomila, io ero inesistente. Qualcuno che usava carta e penna, che leggeva giornali in inglese e poi un libro in francese con la giacca e i pantaloni lunghi”.
Capito? Di noi non ha scritto una persona cattiva, ma una persona sola, un uomo che ha pensato che non fosse possibile dialogare con noi non perché noi si fosse noi, ma perché lui era così. Un uomo a metà strada esatta della distanza fra saltare uno steccato basso e parlare o andare a cercar legna per alzarlo ancora di più, quello steccato.
E da dentro il suo terreno parlare solo lui. Non di quanto sia difficile capirci, ma di quanto sia duro capire se stessi. E dopo averlo fatto scendere dal treno e correre a casa. A vedere un lanzichenecco. Allo specchio.
(Foto di copertina © DepositPhotos.com)