Giulia, le altre e i nodi al pettine di quello che siamo diventati

Il femminicidio come "abitudine" di un sistema che alleva bruti e che li riconosce solo quando è già troppo tardi

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Difficile, sul serio. Quando succedono orrori come quello che ha privato Giulia Cecchettin della vita ed in una maniera così misera è difficile raccogliere le idee. Siamo esseri umani e le nostre reazioni sono ancora per buona parte sotto scacco di una bilancia emotiva che tende a cercare compensazioni, più che cause.

Se ammazzi una giovane in quel modo e con quei presunti moventi, la propensione è tutta al numero di sofferenze che a te che lo avresti fatto devono per forza toccare. O quanto meno che augurarti a mazzi è lecito, liberatorio, sacrale.

Il momento secondo, quello che ci salva, non è da tempo più in basso nel podio delle nostre reazioni, ormai va in sincrono. E’ quello cioè per cui, di fronte alla serialità smargiassa con cui le donne vengono ammazzate dagli uomini, porta dritto al campo largo di approccio. E lì inizia il difficile. Perché da un lato hai un orrore che sembra partorito dalle nicchie di aberrazione della società, dall’altro però hai la collegialità di quell’orrore, decine di morti. Perciò capisci che additare una stortura è liberatorio, comodo e vigliacco.

La società che è innesco, non teatro

E non puoi non chiederti se la società sia a suo modo e per sue parti definite innesco, e non teatro neutro di quegli scempi. C’è un guaio ulteriore che è tutto italiano: da noi il sapere specialistico non sta quasi mai a traino della parte di sistema che dovremmo limare, cambiare e predisporre agli scatti di civiltà. Abbiamo aiuti risicati per metterci allo specchio e un Piano Marshall per mettere alla berlina il sistema, ma senza mai capire quale sia la rotella che non gira.

Da noi più che in altri posti le cose prima succedono e poi, in un’orgia social-mediatco-tecnico-politica, le affrontiamo come tema complesso. Lo facciamo in maniera umorale in esordio, con il sangue agli occhi di chi è padre, madre e si immedesima in quegli Inferni. Poi lo facciamo in maniera vagamente sistemica ed iniziamo a mettere sul tavolo della discussione le cause. Le cause pop della gente comune e le cause affilate della gente “sul pezzo”. Quelle serene della gente che è parte del cambiamento ce le scordiamo.

Modelli diffusi e “cultura” maschile

Foto: Lucidwaters / Can Stock Photo

E’ lecito sostenere con certezza empirica che ci sono modelli pervasivi per cui una certa cultura tutta maschile della sopraffazione esiste e in molti casi tracima nella brutalità attiva che umilia, ferisce o uccide? Di sicuro è sacro, non lecito, verificare che questo meccanismo da patriarcatosauri esista, e che sia sistemico. A quel punto bisogna arretrare e capire cosa abbia permesso a quel protocollo horror di diventare paradigma o quanto meno possibile esito. Possibile troppo spesso.

Ecco, i guai cominciano qui. Perché gli elementi che testimoniano oltre ogni ragionevole dubbio che famiglia e società sono ormai palestre barbare che allevano bulli sono fattuali. Tuttavia discernere il momento in cui quella tara sottile prende humus e, non curata, scatena il picco del crimine, è la lettura che in queste ore stiamo dando al delitto “di Barcis”.

E lì sbagliamo, sbagliamo tutti, clamorosamente. Lo facciamo perché questa società ormai ha elevato a livello di tollerabilità alcune condotte purché non sconfinino nella violenza a viso aperto, ma non è capace di eradicare il seme. C’è una sottigliezza spaventosa nell’enunciare le figure giuridiche e sociali in cui la sopraffazione va in epifania, ma a questo elenco non coincide alcun rimedio preventivo. Si chiedono leggi più severe, ma alla fine la legge è per più parte un atto finale con cui si può punire un reo, non certo evitare la reità. E’ roba tardiva.

Non ci sono sfumature di brutalità

Questa cultura vorrebbe potare solo la pianta quando ha messo frutti neri ma non sa dissodare il terreno. Tradotto? Quante volte i nostri “pargoli” sono stati difesi dopo che avevano dato un calcione ad un cane o ad un altro animale e qualcuno li aveva redarguiti? Quanti di noi hanno plasmato quel concetto beota per cui “sì, ha fatto una cazzata ma adesso si sta esagerando”?

Il concetto che pastura la violenza maschile è uno solo e non esistono sfumature, perché fa della biologia un totem e consente di saltare a pie’ pari il confronto. Passa quindi questo schifo: chi ha voglia di spiegare ad una donna che ha torto o che esiste una visione “altra” su cui raffrontarsi se anche solo un urlaccio al testosterone mette le cose a posto?

Le nostre sono tavole dove lo “zitti tutti!” di chi ha pelo sul petto è il segno di monarchi antichi e mai spodestati. Re di un regno vecchio dove nell’Italia del mille piccoli comuni l’immagine di un uomo che impugna un piatto da lavare in molti casi fa sorridere, fa perplessità o sentire il retrogusto di “fuori ordinanza”. E i media sono posti dove si commentano cose alludendo ad un lezioso e goliardeggiante “fare l’elicottero con il pisello”. E’ un’Italia brutale che tutti condannano ma che nessuno cambia, e l’appello di questi giorni per l’omicidio di Serena Mollicone a noi di questa terre lo ricorda amaramente.

I social, i maledetti social

Poi schizzi sui social e ti rappacifichi con il mondo che è stato apparecchiato proprio come vorresti tu. Con le donne oggettivizzate in canone unico e i maschi di bava pronta e buona borghesia spinta che vedono nel dresscode un’autorizzazione a procedere. E’ tutto predisposto per l’orrore, tranne il sentore che l’orrore sia evitabile prima che passibile di gogne tardive, flashmob e botte di cilicio postume.

Non sappiamo quale modello abbia avuto Filippo Turetta e non è giusto premetterlo sul caso di specie. Ma se concettualmente educhi un figlio o un cittadino alla sopraffazione, all’agonismo, alla fame di podio, quello costruirà un’immagine di sé per cui quando ritiene di aver subito un torto lui rimetterà le cose a posto.

Oppure, nel caso paradigmatico dei delitti d’impeto, maturerà una frustrazione così alta che un qualunque elemento scatenante libererà quella bestia a cui abbiamo dato tutti la nostra libbra di carne. Se chiami “fesso” chi restituisce un portafogli e furbo chi ha saputo bruciare le tappe con la scorrettezza hai fatto già mezzo lavoro. Perché in quest’ottica uno stupro è solo un mezzo più spiccio per arrivare ad un fine, senza freni inibitori. Senza “l’ingombro” dell’assenso.

Niente qualunquismo, solo consapevolezza

Le scarpe rosse simbolo della lotta alla violenza sulle donne

Meme necessario: in queste faccende di morte, faccende orribili e settate loro malgrado su uno specifico quadro, anche il qualunquismo è ciambella inutile. Chi scrive non è a corto di certe brutture e quando le ha vissute ha solo pensato ad una mannaia con cui sistemare le cose, non certo ai sistemi complessi. Ed essere cartesiani quando hai la minaccia intorno è la cosa più difficile del mondo. Ma se non si parte dal presupposto che tutti dobbiamo sentire questo ruolo come centrale – che ci appartenga infido o che sia alieno lo si debba tenere ancor più lontano – non usciremo mai dal buio. Tenebre che oggi fanno cappa nel cuore della famiglia di Giulia e delle altre.

Questo tipo di guardia alta abbisogna però di una forma di umiltà che non abbiamo più in cassaforte etica. L’abbiamo mollata quando ad esempio non abbiamo saputo concepire una scuola che riservasse anche all’educazione emotiva spazi di governo. Quando abbiamo abbandonato il valore del sapere verticale per quello veloce e d’impatto, che non lascia spazio alla formazione. O condannato il bullismo ma solo quando i bulli erano figli di altri. Oppure quando la politica dei social ci ha addestrati a concepire il mondo come un posto dove la ferma muscolarità è valore e non esantema di sconfitta. La riprova? Fa più claim l’appalto polarizzato che una certa politica ha dato al fatto che l’orrore del fatto in sé. E soprattutto le sue soluzioni.

Deboli, perciò bruti: ed “allevati”

(Foto © DepositPhotos.com)

Perché ci sono altre belve nel serraglio in cui ogni tot ficchiamo la testa. Sono bestiacce che hanno il dono del mimetismo, oppure ci sono occhi miopi che preferiscono non vederle. Chi la considera una iena quando nel campo visivo hai una tigre? Eppure il morso della iena è dieci volte più devastante.

Una di esse è la debolezza delle generazioni che alleviamo e che sta tutta proprio in quel verbaccio da stia, “allevare”. Stiamo crescendo figli con grandi muscoli, cuori perfetti e skill psicofisiche di pregio. Ma li cresciamo e basta, come capponi brutali e deboli, e consideriamo il compito assolto quando mediamente non hanno fatto cazzate e sono pronti la foto figa del diploma di laurea davanti alla facoltà. Coltissimi ma con la coscienza critica di un paracarro. E se sono dottori e sopra i 3000 al mese sono uomini fatti e finiti, punto, maledetto sia il turboedonismo che ci ammala i cuori da 40 anni. Perché ha fatto coincidere il censo con lo spessore.

Sono deboli e ciecamente reattivi: pronti ad accusare colpo ogni volta che una figura di riferimento “osi” abbandonarli, incapaci di concepire la sconfitta nella sua fisiologica medietà e naturalezza. E pronti a vivere ogni tappa della loro vita come una tragedia irrimediabile se non porta punteggio pieno alla loro visione.

Grossi bambini mai cresciuti

Loro, quella solo e soltanto loro. Una hit egotica e frignona incapace di concepire l’interazione e quel che da essa a volte discende. Cose come l’abbandono che fa male ma ci sta, la solitudine transiente, la sofferenza, la dialettica, la crescita che lacera. E la tigna nel cercare la soluzione attingendo ad un codice etico che te la fa trovare solo se continui il viaggio nel sistema in cui vivi. E non certo nell’aberrazione di un gesto criminale che il problema lo sublima in una lama o in un revenge porn.

Il guaio è che i bambini di ieri che pestavano i piedi a terra dopo un no secco al secondo gelato non sono mai cresciuti. Hanno solo preso la patente, ricevuto uno smartphone e messo su fregola da follower e muscoli bulli che fanno di un diniego un intollerabile “sfregio”. Muscoli flettendo i quali per piantare venti volte un coltello alla nuca poi le cose tornano “a posto”. Con un maschio, l’ennesimo, che ha affermato il solo se stesso concepibile, un sudario umido di sangue in fondo ad una forra ed una famiglia che non ha più lacrime.

E con un paese che si interroga serio e pignolo, ma in una stanza da cui ha rimosso gli specchi. Hai visto mai ci vedesse dentro le sue cataratte…