La corsa di Pietro Vittorelli contro il giudizio, persa malgrado la Giustizia

L'ex abate di Montecassino se ne è andato da uomo innocente di quello che gli è stato contestato, ed attribuito da troppi "saccenti"

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Non me lo ricordo bene, se Pietro Vittorelli fosse o meno uno con cui si parlava bene. Non me lo ricordo perché con lui non ci parlavo più molto spesso. L’ultima volta è stato quando è venuta a mancare sua madre, quella che ha raggiunto oggi. Troppa distanza, quella misurata non solo dalle diverse strade delle nostre vite, ma anche dal peso di quello che gli era successo poco prima che si inabissasse nel suo dolore e che ha proseguito a roderlo fino alla fine. Dolore di uomo malato e presule caduto. Solo che poi quando il presule si rialza finisce come nei romanzi: non te lo scrivono mai. Che l’uomo non ce la fa, a rimettersi in piedi, cammina stanco ancora per un po’ e si addormenta nella quiete di un nulla che sostituisce il troppo.

Quando la vita ci mette i cocci davanti

Pietro Vittorelli il giorno dell’ordinazione abbaziale (Foto © Archivio IchnusaPapers)

E il troppo non è solo quando la vita ti mette i cocci giusto davanti alle ginocchia. No, il troppo è quando, spazzati via quei cocci, restano i segni. Quelli e chi non la smette di spargere sale sui labbri delle ferite. E fanno male, tanto male che alla fine cedi e la tua Croce ti schiaccia.

Non c’è da girarci intorno: il mondo oggi si divide tra coloro che giudicano a prescindere dal giudizio dell’uomo e coloro che non sanno giudicare.

Perché sanno che è il dubbio a muovere il mondo, dove la nostra fallacità ci accompagna tutti ma dove siamo aquile nel segnare quella degli altri e talpe nello sbirciare anche solo per un attimo la nostra.

In punto di Diritto: innocente

Pietro Vittorelli

Come avvenne quando la Giustizia umana lo chiamò in tribunale accusandolo di avere messo le mani nelle casse con le offerte dei cristiani che s’erano tolti di tasca quei soldi offrendoli alla chiesa attraverso il 5 x 1000 sulla Dichiarazione dei Redditi. Lui tacque: mai una parola per non condizionare chi lo doveva giudicare, dopotutto il Sinedrio è una tappa per chi aspira a salire sul Golgotha. Rimase in silenzio e lasciò giudicare, senza mai protestare nemmeno quando quel giudizio si dilatava e diveniva tortura. Silenzio. Pure il giorno dello scorso maggio in cui i suoi giudici dovettero ammettere che si, non aveva rubato e non aveva dilapidato: né soldi delle offerte né altri. Innocente. (Leggi qui: Il silenzioso calvario di dom Pietro Vittorelli).

E se in punto di Diritto quel che ti si contestava si è rivelato del tutto infondato resta da fare solo una cosa, in un mondo che non vuole essere perfetto ma che aspiri ad essere probo. Prendere l’immagine di un uomo di cui si è fatto strame e metterci dentro un pezzetto della nostra capacità di ammettere che sì: abbiamo sbagliato. Che a sbagliare sono stati tutti quelli che hanno seguito l’usta, tutti quelli che nel fango ci hanno piantato un arbusto di livore preconcetto.

E tutti quelli che hanno disegnato un quadro sghembo, attaccando con la colla del qualunquismo debolezza a crimine, opinabilità di un momento con certezza di un costrutto. Non è stato facile, sapere che alla fine tutto si sarebbe chiarito ed attendere che tutto si chiarisse mentre in moltissimi non volevano chiarezza ma un Capro. Perché ci sono volte in cui disegnare una scena è più conveniente che studiarla.

Giudicare senza sapere, sempre e comunque

(Foto: Bruno Weltmann © DepositPhotos)

Ci sono volte in cui ficcare a forza un uomo nella formina di ciò che di lui si sperava fosse è più gratificante che smussare quegli angoli ed attendere una cosa serena. Una cosa che in Italia passi per il lento incedere della Procedura il cui inizio non è mai prova provata di colpevolezza, ma solo segnale che qualcuno tra le Istituzioni sta cercando una prova provata. Poi però non la trova a maturazione di dibattimento, unico luogo dove matura e diviene sentenza l’elemento a carico.

Non ce n’è, e l’articolo 530 comma I del Cpp è dovuto diventare un lavacro tardivo troppo piccolo per contenere quelle lacrime. Ma già, dimenticavamo, i preti di rango alto non piangono, semmai lo fanno per quel che hanno perso tra le cose grevi e materiali del mondo.

Noi, in parte congrua ma non totale, diamo la patente di crapula a tutto quello che vorremmo fosse stato nostro, questo è il guaio.

Le frustate aggiuntive ad un cuore malato

Dom Pietro Vittorelli con la barba ed il bastone (Foto © IchnusaPapers)

No, loro non piangono per un cuore malato che magari si è preso le frustate aggiuntive che non meritava. E neanche stanno sereni, senza empatia ma con regola etica di neutralità. Chi di noi è forte al punto da dire a qualcun altro che non è degno? Chi, tra noi, può essere così alto da far diventare la morale spiccia ascensore per ergersi a giudice anche quando i giudici veri hanno detto che giudizio non regge? Quante accidenti di volte, in circostanze risibili, quella frase sulla pietra e i peccati l’abbiamo scritta, usata a chiosa, pensata, postata, messa a guardiania delle nostre piccinerie ma senza mai saperla applicare davvero?

In giurisprudenza c’è una cosa che si chiama nesso eziologico, è quello tra la causa che ha scatenato un crimine e l’effetto che in quel crimine si sostanzia. Ci sono altri nessi eziologici, più difficili da provare “per tabulas”, come dicono quelli studiati ma immanenti, forti in sospetto. E laceranti.

Foto © Alberto Ceccon

Sono quelli per cui chiunque abbia amato Pietro Vittorelli in vita oggi che è morto si chiede, perplesso e svuotato, se non ci sia stato un nesso causa-effetto tra la croce che ha portato e la morte che lo ha colto. Non lo sappiamo, ma anche il solo supporlo è nota gigante in uno spartito cupo che dovremmo leggere tutti.

Come memento e come bussola futura. Perché c’è chi ha giudicato con la distratta indole beota di un paese polarizzato, chi ha fatto il suo dovere lavorativo ma mettendoci forse un po’ troppo “pepe manettaro” e chi ha invocato subito la mannaia dell’ostracismo.

Arriva la Legge, ma è troppo tardi

Ma non erano tutti, erano sì, in tanti. C’è stato chi è rimasto stupito, chi si è chiesto cose fosse successo e sì, chi per un attimo ha ceduto alla tentazione di tracannare un calice accusatorio senza attendere la coppa della verifica. Ed ha continuato a salutare Pietro, abbracciare Pietro, chiedere di Pietro. Arrivando a capire che comunque sarebbe andata lì c’era un uomo da leggere e non un mostro da rinchiudere a guardia di quello che molti di noi sono davvero.

Poi è arrivata la Legge, che non fa Giustizia mai allo stesso modo con cui aveva insinuato che Giustizia non c’era. Non si equalizzano mai, quei due valori, e Montecassino è diventata simbolo di un passato da cancellare e non di un presente da recuperare. E quando la Legge ha detto che il 191mo abate era mondo allora il mondo che doveva accoglierlo si è fatto piccolo. Troppo piccolo per starci, troppo misero per camminarci. Troppo ingiusto per viverci.

E un uomo ha detto basta alle strade in cui c’era ancora chi lo chiamava Pietro senza arrossire. E che oggi, con orgoglio e magone, lo saluta chiamandolo dom Pietro.