La Regione Lazio è finita nel 'cul de sac' del Pride. Il ritiro del Patrocinio lo ha tolto all'utero in affitto ma anche a tutti gli altri sacrosanti diritti per i quali la manifestazione si tiene. E che in queste ore sta ricevendo adesioni mondiali dalla Germania al Messico, dall'Onu al Canada ed alla Spagna. Mentre il Lazio si è tagliato fuori.
Poco da fare, in Italia il ring d’elezione è quello tra le grandi questioni etiche e il registro che la politica dà di esse quando la società le va ad esigere. Solo che c’è un dato su cui pochi riflettono, specie tra quelli che con piena ragione concettuale ma con scarsa attitudine alla medietà si indignano quando quelle questioni non vengono affrontate in un’ottica che sia solo e soltanto quella della “piena aderenza”. Spieghiamola ché la questione è complessa, delicata e ricca di sfumature: roba che agli italiani amanti del fluo piace poco.
Mentre le questioni etiche restano tali nel tempo nella loro inoppugnabile ed ovvia giustezza, la politica in uno Stato democratico è per definizione ondivaga. E non in senso negativo. Cioè è via via giocata sulle caratteristiche di chi la esercita, in alternanza, in ruoli di potere. E in Italia per fortuna non esiste il potere assoluto ed immoto, ma quello di maggioranza. Che ha un timing ma che fin quando c’è tende sempre a privilegiare la linea di chi quel potere lo ha condotto a governare. Cosa significa?
Significa che la questione del patrocinio al Gay Pride 2023 di Roma prima concesso dalla Pisana, poi tolto e poi ancora subordinato ad una “spuntatura” è un maledetto campo minato in cui squadernare bene i termini della vicenda è doveroso. Anche a costo di saltare in aria su uno tra le decine di ordigni che lo farciscono. (Leggi qui: Top e Flop, i protagonisti di martedì 6 giugno 2023).
I termini della vicenda
Incipit: la Regione Lazio a guida destra-centro e capitanata da Francesco Rocca aveva concesso il patrocinio alla manifestazione. Ragione per la quale si era presa il plauso di Pd e Forza Italia come nel meme social di Di Caprio che batte le mani a capo chino.
Se lo era preso per una scelta eticamente ovvia ma non immune da imbarazzi di ritorno. Attenzione, ché il preambolo è importante: il fatto che dal Nazareno qualcuno si sia sentito in dovere di sottolineare la giustezza della scelta della Pisana di patrocinare l’evento è la prova provata che quel patrocinio forse era molto meno ovvio, in punto di politica, di quanto non fosse nell’Iperuranio delle Idee Perfette. A quel punto si erano innestate, puntute, due questioni di quelle destinate a concimare l’Italia dei social per il solito mese d’ordinanza. Da un lato c’era la sovrapposizione imperfetta e stridula tra la scelta della Pisana e la linea dell’Esecutivo su una questione parallela ma non afferente in toto, quella del cosiddetto “utero in affitto”. Questione che con i diritti dei gay c’entra ma di stramacchio, visto che la maternità surrogata è anche faccenda delle coppie etero.
Dall’altro c’era stata la nota con cui l’organizzazione, invece di assaporare quella che tutto sommato appariva come una vittoria tonda in mensola ideologica, aveva eluso quel “garbo istituzionale” ed aveva lanciato una polpetta avvelenata.
La spunta di civiltà da governare
Preambolo due e non se ne voglia il lettore ma qui camminiamo con le Claymore in faccia: ovvio che dare assenso istituzionale ad un Gay Pride non è faccenda “di garbo”, ma di normalissima fisiologia rispetto ad un mondo dove non ci sono diversità accettate, ma dove semplicemente non esiste il concetto di diversità.
Tuttavia il mondo così com’è e non come vorremmo che fosse è fatto di una gradualità di pensiero. Tale per cui quando si mette una spunta di civiltà è più opportuno governarla con diplomazia che cavalcarla brada col furor urticante di chi “l’ha avuta vinta”. Ecco perché il portavoce del Roma Pride, Nicola Colamarino, presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli fresco di compleanno magari l’ha messa troppo ruvida. Ed essendo una persona intelligente è difficile pensare che abbia preso una cantonata, il che lascia spazio solo alla posa dell’ennesima mina su un campo che già ne aveva più di un panettone con l’uvetta.
“Siamo soddisfatti che la Regione abbia deciso di continuare a sostenere la nostra manifestazione e le nostre rivendicazioni”. Bello e innocuo, ma solo fin qui. Poi è arrivato il begattino al curaro: “Apprezziamo che abbia deciso di sottrarsi alla trappola dei pregiudizi ideologici prendendo di fatto le distanze da quanti in Parlamento vorrebbero rendere la nascita dei nostri figli e delle nostre figlie reato universale, perseguendo la gestazione per altri anche se realizzata all’estero”.
La forzatura
Colamarino ha quindi commesso due “errori”, uno di forma ed uno di sostanza. Ha “caricato” mettendo Rocca, un governatore che lo è di tutti ma che è tale in forza di un chiaro battage politico, di fronte ad una evidente dissonanza con la linea del Governo che lo ha messo in lizza per il voto che ha vinto.
Poi ha forzato sul tema mainstream, essere naturalmente gay in ogni piega della vita pubblica, condensando lo stesso sul nervo esposto della maternità surrogata. E quello dell’utero in affitto in Italia è già reato, poi lo è per tutte le coppie, la più parte delle quali è etero.
Insomma, fatta la tara di iperbole a metafora e contesto “gerarchico” è come se nel dire al garzone del meccanico che ti ha fatto lo sconto sul carburatore che è stato bravo gli si ricordasse che il suo datore di lavoro è quello che non sul carburatore, ma sui radiatori prende sempre un euro in più del dovuto. A quel punto metti il ragazzo in imbarazzo e quello magari lo sconto non te lo fa più, ecco.
Preambolo due: “sconto” è solo un termine simbolico e nessuno lo accosti all’etica della questione madre urlando che parliamo di diritti e non di concessioni, per carità di Dio altrimenti in punto di verbosità non ne usciamo più.
Il ritiro del patrocinio
A quel punto Rocca è andato all’angolo come i botoli stretti dai segugi mascelluti, ed ha morso: via il patrocinio. La firma istituzionale della Regione Lazio “non può, né potrà mai, essere utilizzata a sostegno di manifestazioni volte a promuovere comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto”. Poi però sono arrivare le valutazioni politiche di ampio respiro e si è trattato di decidere fra abboccare alla polpetta avvelenata creando un caso di sudditanza alla linea retrò o se chiarire i termini della vicenda offrendo uno spiraglio.
Nel mainstream infatti la volontà di Palazzo Chigi di rendere la maternità surrogata reato universale e punibile quindi anche per chi lo commette fuori dai confini nazionali è talmente ammorbata di polemica che sarebbe stato difficile poi rimarcare il distinguo che andrebbe fatto fra una legge decisamente deprecabile o quanto meno passibile di giudizio negativo ed un contesto su cui i margini di dialogo tre le due anime politiche del Paese sono molto più vicine.
Perciò Rocca ha dovuto fare il pignolo-cecchino e puntare la tacca sul singolo aspetto, camuffando la “retromarcia” da aggiustamento di mira. Ecco il possibile salvagente: “Colamarino chiedesse scusa pubblicamente rispetto a questa manipolazione della concessione e immediatamente sono pronto a ridare il patrocinio. Noi avevamo dato l’adesione convinta. Chiedesse scusa pubblicamente per la sua dichiarazione manipolativa del nostro patrocinio e immediatamente ci sarà nuovamente il patrocinio della Regione Lazio“.
I crampi inevitabili
Le polpette avvelenate le puoi sputare ed evitare l’ospedale ma difficilmente puoi scansare i crampi di ritorno per sopravvenuta deglutizione. Per questo, Rocca l’ha messa giù chiara sul tema di corollario. Tanto ormai il riflettore era acceso e puntato su di lui: “Non c’è spazio per la mediazione sull’utero in affitto. L’utero in affitto è fuori discussione. Quando parliamo di libertà di amare, libertà di essere, di dialogo importante che deve essere fatto in questo Paese sui diritti civili e sul rispetto della dignità di ciascuno nessuno si tira indietro. Sull’utero in affitto non posso concedere il patrocinio della Regione che rappresento per una pratica che è reato nel nostro Paese“.
Attenzione: reato preesistente e in predicato di allargare l’ambito di configurazione, ma mai sanato dai precedenti esecutivi. Sul tema il comitato ha fatto sapere di “essere nel giusto” e Vladimir Luxuria ha parlato di “sceneggiata della destra, alzano la posta per reprimere la sfilata“.
Nel cul de sac
La realtà dei fatti è che del patrocinio dato da una Regione di centrodestra agli organizzatori non poteva interessare di meno. Ciò che occorreva era un pretesto per poter dare un’aura di contrapposizione tra la manifestazione e questo governo: sia il Regionale che il nazionale. E lo hanno avuto.
In questo esatto punto sta l’errore tattico della Regione Lazio. Che avrebbe potuto denunciare quella forzatura del suo patrocinio senza ritirarlo. Anzi, mantenendolo nel nome dei diritti nonostante il tentativo di forzatura.
Restituire il patrocinio avrebbe tutti i connotati della marcia indietro. Continuare a negarlo rappresenta un eccesso perché la Regione Lazio non è al fianco di un’iniziativa a tutela dei diritti. Il che rischia di assumere connotati catastrofici. Perché la Regione apparirà contro il Pride. E lo farà mentre si moltiplicano le adesioni delle ambasciate estere presenti nella Capitale. In queste ore hanno dato la loro adesione gli uffici di Berlino e di Città del Messico: Germania e Messico sono al timone dell’Equal Rights Coalition (una cinquantina di delegazioni diplomatiche impegnate per la lotta contro ogni forma di discriminazione).
Non basta. Madrid ha fatto sapere che come ogni anno darà il proprio patrocinio morale. E inoltre Onu, Usa, Regno Unito, Olanda, Canada, Finlandia invieranno i propri rappresentati. L’assenza del patrocinio della Regione Lazio? Un suicidio. Non per il pride.
Togliete il logo
Questione che non pare essere chiara alla Regione Lazio. Fermo restando il sacrosanto dovere istituzionale di dissociarsi da una pratica che in Italia è reato, la revoca del patrocinio lo toglie a tutto il resto dei diritti che il Pride invece intende rivendicare. Ma ormai la faccenda è scaduta nella disputa ideologica. Da qui la frase attribuita a Rocca: ”Non manderò i carabinieri a togliere il logo dal sito, facessero come credono”. Magari i carabinieri non servono, ma un team misto di ottici e maestri yoga che prenda in carico tutto il cucuzzaro sarebbe ben accetto.
Perché è evidente che a prescindere da ogni motivazione politica, la trappola ideologica ormai sia scattata. E da lì non si esce.