Quando cadde il Muro e sotto di esso cadde un muratore, lui ed altri 600

A 34 anni dall'evento che segnò la fine della Guerra Fredda la freddezza di un mondo che non è cambiato affatto. E che resta crudele ed insensato

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il Muro simbolo della Guerra Fredda cadde 34 anni fa ed ad Anagni il ricordo del Muro rischiò di soccombere sette mesi fa. Soccombere non sotto il peso della Storia, ma delle “pennellesse” di un gruppo di operai che cancellò parzialmente un murales realizzato dai bambini della scuola di via Finocchietto. I lavori di tinteggiatura decisi dal Comune furono viziati da un tilt di comunicazione tra municipio e ditta. Così quell’opera, innocente e grandiosa, fece la fine dell’inchiostro simpatico che le spie usavano all’ombra del Muro vero, quello a Berlino, fino al 1989.

Kennedy e il “bombolone alla crema”

Riccardo Ambrosetti

Un costernato Riccardo Ambrosetti, che aveva la Manutenzione, diede le spiegazioni del caso. Ed alluse ad un “errore di comunicazione fra la direzione della ditta esecutrice ed i propri operai”. Poi l’esponente di Fdi rassicurò che “la ditta che sta realizzando i lavori si è resa disponibile a donare strumenti e materiali.

Sarebbero stati “utili alla realizzazione di un nuovo murales, anche più grande di quello coperto”. L’opera era dunque svanita come l’inchiostro delle spie usato in un caffè che è legato alla storia del Muro di Berlino. Il suo nome era Caffè Adler. Oggi non si chiama più così. Era un bar, un normale locale dove degustare ottimi krapfen e caffè annegati in una panna dolcissima. E a volte ingagliarditi dall’alcol dello shnaps fatto con uve renane.

I krapfen, cioè i bomboloni, avrebbero anche innescato un mai verificato equivoco linguistico di lì a poco. Accadde quando durante un famoso discorso in zona il presidente Usa John Kennedy, credendo di dire in un tedesco ruffiano “io sono un berlinese”, pare disse in realtà, “io sono un bombolone”.

Il caffè al Check Point Charlie

Foto © Douglas Sprott / Flickr

Figuracce vere o presunte a parte, di normale l’Adler non aveva praticamente niente, a guardare bene gli avventori abituali. Tutti con un’aria compassata e furtiva, come a scegliere sempre fra essere vaghi o forzosamente allegri. Lì, all’Adler, un ubriaco sembrava più ubriaco. Era un posto di spie, spie sul campo a servizio di idee talmente contrapposte che sotto i tavoli e negli sciacquoni dei cessi era tutto un incerottare pistole Tokarev e Browning. Poi tutto un intingere puntali di compasso nella scopolamina o nell’acido prussico, hai visto mai buttasse male.

Tutto questo mentre ci si passava striscioline di carta da pane vergate di geroglifici da appallottolare. Strip da mettere fra le dita dei piedi o sotto l’oro dei molari scavati facendo finta di fare pipì. In effetti il numero di puntate al cesso all’Adler era sempre sospettosamente alto, della serie o prostata lenta o impicci con la pala.

Il caffè si trovava all’angolo esatto tra Frederickstrasse e Zimmerstrasse, a Berlino, nella Berlino dei primi anni ’60. A poche decine di metri dai suoi tavolini in noce nero il Check point Charlie. Quel nome un po’ perculatorio, “Charlie”, rientrava perfettamente nella natura del luogo, che ne qualificava le funzioni.

Peter, il muratore stanco di avere paura

Foto: Ashwin Kumar © Flickr

L’alfabeto fonetico della Nato attribuiva la dicitura “Charlie” (storpiatura amichevole da Carlo, nel senso di Marx) a tutto ciò che era nemico e comunista, anzi, nemico perché comunista. Lì, con vigile consulenza della Stasi di Erich Mielke, si sparava a vista a chiunque non avesse le carte in regola per transitare. Fra le due Berlino, fra i due blocchi, il point era barriera e vaso comunicante al tempo stesso. Ma bouquet lo era solo per militari e diplomatici, cioè per militari e spie, spie come quelle che prendevano il caffè all’Adler. Spie e persone stanche di vivere dove la geografia forzata postbellica aveva deciso che dovessero vivere.

Persone come Peter Fechter. Non era uno studente imbevuto di sbobba idealistica, era un muratore di 18 anni che ne aveva le scatole piene della Rdt. Di quella e di una vita che costringeva le sue mani ad impastare cemento, silenzi, fame, freddo e paura mentre sua sorella era separata da lui dall’altra parte del muro. Il 17 agosto del 1962 cercò, con un compagno, di scappare ad ovest. Si acquattò in un magazzino, poi corse a razzo, scavalcò il primo muro e schizzò verso la recinzione intermedia farcita di cavalli di frisia.

Venne centrato alla schiena e dietro la coscia da due colpi distinti di Mosin Nagant ’59 sparati dalla parte “democratica” di stanza al Charlie. Due salve devastanti di piombo tagliato in punta. Era per fare più male, secondo l’uso finlandese che gli istruttori sovietici avevano imparato a loro spese dai commando sissit di Mannerheim pochi anni prima, in guerra.

Agonia di un 18enne tra due mondi

Il tratto della morte del Muro di Berlino

A quel punto accadde l’irreparabile. Con le due parti impegnate ad evitare che ciascuna sconfinasse nella terra di nessuno fra i due blocchi, il 18enne agonizzante rimase vivo e impigliato nel filo spinato per oltre un’ora come un passero gigante. Si muoveva ancora, ma nessuno lo soccorse.

Dopo un’ora finalmente il cadavere venne rimosso, rigido e con gli occhi sbarrati in un grido muto affogato di sangue polmonare che gli faceva pozza ai piedi. Lo stallo messicano con annessa agonia in diretta rimase un semplice incidente che non era sfociato in qualcosa di diplomaticamente più grave.

Il motivo era che lì c’era il nervo scoperto più grande del mondo. Quando 34 anni fa il Muro di Berlino si iniziò a sbriciolare e diventò souvenir a pezzi per i salotti fighi di mezzo mondo, al caffè Adler si vide gente. Una di queste persone era un ufficiale dell’agonizzante polizia politica della Rdt. Il militare consegnò ad un suo omologo del MI6 britannico un memorandum che indicava in Rolfh Friedrick ed Eric Shreiber i due soldati che puntarono e materialmente uccisero Fechter.

Il processo e la verità nascosta

Foto: Jens-Olaf Walter © Flickr

I due sarebbero andati a processo, con condanna ad un anno, solo molti anni dopo, nella loro veste di guardie di confine, brute e trucidamente ligie al dovere. Quel memorandum però, entrato in disponibilità anche di Phillips Mark – un vero specialista – parla un’altra lingua. Indica in Shreiber non un ottuso marmittone dell’esercito comunista con buona mira e cervello di un geco, ma una spia. Spia doppiogiochista.

Assoldata anni prima a Potsdam da servizi sconosciuti per sparare e provare a creare un casotto. Prima che cadesse il Muro e assieme ad altre seicento persone, cadde un muratore.

Ed oggi che altri “muri” rimandano l’eco delle urla di altri morti, ricordarlo dovrebbe equivalere ad agire. Senza scrivere i nomi di buoni e cattivi in lavagna, ma fermando tutto e basta. Per le vittime, vittime come Peter, morto a 18 anni, un’anima che gode della compagnia di moltitudini. Perché cadono i muri, ma questo maledetto mondo non cambia mai. E ne tira su sempre altri, e sempre più alti.