Dalla Filosofia del Diritto al diritto alla filosofia: tutto per quattro volte. Con una buona dose di testardaggine e la fortuna di avere Veroli come interfaccia
Chiariamolo subito ché come in tutti gli scenari in cui già “peppia” il clima pre-elettorale farlo è da saggi. Francesca Cerquozzi non rappresenta tutto ciò che i verolani vorrebbero per Veroli. E non è neutrale in politica: è una militante iscritta al Partito Democratico ed è consigliere di maggioranza con delega alla Cultura. Il che presuppone in automatico, ed in punto di placida dialettica democratica, che ci siano persone che hanno idee opposte su come governare la città ernica.
E su come si dovrebbe governare il Paese, oltre che sul metodo con cui la cultura dovrebbe puntellare una comunità che può permettersi di farne scialo. Tuttavia l’onestà di ammettere che Cerquozzi ha fatto centro a casa sua dovrebbe appartenere al novero delle cose ecumeniche. Perché si può, anzi, si deve criticare il metodo: ma i risultati, quelli restano in bacheca. E a bocce ferme appaiono più evidenti. Porosi comunque, certo perché l’adamantio non è di questa terra, ma maledettamente solidi.
Quattro volte filosofia, e senza “stanca”
Il Festival della Filosofia è arrivato alla sua quarta edizione e non ha sofferto di un male che di solito non risparmia la più parte degli eventi. E’ quello per cui la sola sopravvivenza temporale, il solo fatto che una cosa sia in cartellone, sarebbe già bastevole a renderlo canone positivo. Non è così ovviamente, e il Festival in questione si è “skillato” su piani decisamente più tridimensionali. Ha funzionato perché Francesca Cerquozzi è stata due cose: fortunata e testarda, e sottovalutare il primo fattore è da grulli.
La sua fortuna sono i verolani, che alle lusinghe del pensiero e del dibattito sono molto più suscettibili della media ciociara che è già altissima. Una comunità abituata a polarizzare il pensiero e le opinioni dura poco se si adagia sul binario del manicheismo. Ma Veroli, comunque la pensino i suoi abitanti, non è così. L’incedere quasi processionale delle sue dinamiche diventa scattista quando c’è qualcosa di cui discutere.
A Veroli la storia è nocchiera anche quando non lo si considera, che sta alla guida, e la cosa funziona benissimo da secoli. E c’è la prova. Nelle sette serate in calendario e fatti salvi gli step in cui non era previsto, il dibattito è stato vincitore. Ha superato di gran lunga l’enunciazione, per timing e dedizione pignola.
Significa che i verolani e i cittadini del territorio che hanno partecipato sono stati tanti e che hanno fatto tante domande. In filosofia, come nella vita, le domande sono molto più importanti delle risposte. E la cifra di una cosa fatta bene sono proprio le cose che chiedi. Quelle e la naturalezza con cui si supera la naturale ritrosia ad impugnare un microfono quando di fronte hai “studiati” di massimo rango.
Non esiste una Veroli “giusta”
La testardaggine della Cerquozzi è stata più random, ma non meno determinante. Mettere a terra una kermesse che corteggia il pensiero puro e che è giocata tutta sulle tue skill (ha studiato filosofia a L’Aquila) è roba difficile. Lo è perché si corre il rischio di voler imporre ad un sistema complesso quello che è stato il cardine della tua singolarità. D’altronde se uno è pittore è ovvio che in veste pubblica tenderà a fare mostre di quadri.
Certo, come in tutte le realtà c’è una Veroli diversa, con una scala di priorità settata su altro e che indossa lenti focali più empiriche. Tuttavia nessuna comunità che si rispetti deve cadere nel trappolone benaltrista. Quello per cui se uno parla di aerei in cielo gli si ricorda che le strade in terra sono sdrucciole. Hanno entrambi diritto di cittadinanza e metterli a sistema senza ukase argomentativi è la cosa più saggia e naturale da fare. No, Veroli in quel tombino aperto non ci è caduta.
E la connotazione “terragna” e pratica di un evento che come il Festival della Filosofia potesse essere funzionale a tutto l’arco esistenziale è arrivata quasi per caso. L’idea sconcia che la contemplazione del pensiero sia solo sussiegosa auto celebrazione di una realtà che non ha leccato il sale della terra è roba scema. Di solito saperlo dovrebbe essere precondizione senza prova scientifica. Ma stavolta la fortuna di Francesca Cerquozzi ha messo a massa anche quella.
Lo ha fatto con l’intervento di un operaio in Ciociaria che ha dato uno scossone alla serata con Giuseppina De Simone ed Antonio Luigi Manfreda. La consigliera lo ha scritto sulla sua pagina Facebook: “L’immagine che può rappresentare al meglio questa grande e bella esperienza collettiva è l’intervento di Arduino, operaio della Klopman. Che nel dibattito sul lavoro e la cura ha chiesto a tutti noi di portare queste riflessioni anche nelle fabbriche”.
Bye bye Forte dei Marmi
Cosa significa? Che se scegli la speculazione filosofica sapendo che il mondo è tutt’altro che “filosofico” rischi. Ma poi ti arriva un uomo che alla filosofia le mette tuta addosso e bestemmie in bocca hai fatto centro. Perché dalla filosofia del Diritto con cui ti sei rovinato le meningi all’università sei passata al diritto alla Filosofia che non è solo roba da Forte dei Marmi ad agosto. Ma che abita in ogni cuore che abbia anche solo il bisogno di aggiogare il pensiero alla quotidianità, dove pensare viene dopo sopravvivere. E dove invece le due cose dovrebbero viaggiare appaiate perché pensare può aiutare a vivere.
“Onestamente non saprei nemmeno dire il perché ma questa edizione è quella che mi ha emozionato di più. Ci sono immagini, momenti, sensazioni che porterò per sempre con me”. Quattro cose senza dirne quattro ci stanno tutte quindi. “Innanzitutto 4, come le edizioni del festival. Perché non era scontato consolidare un’iniziativa innovativa e che a tratti poteva apparire tutto tranne che una manifestazione di Piazza”.
Domande, risposte e cosa c’è in mezzo
E ancora. “E invece la partecipazione di quest’anno, con un programma concentrato per lo più sulla riflessione pura su un tema complesso come quello del rapporto tra la tecnica e l’umano, è stata grande ed entusiasmante”. È un dato che ci sia stata “voglia di discutere, di chiedere e di provare a dare tutti insieme delle risposte ad interrogativi complessi”.
Ed in quell’aggettivo, “complessi”, sta tutta la cifra semplice di una cosa che poteva andare meglio ma che non ha risentito di un dogma concettuale. Tutte le cose possono andare meglio. Ma magari la tigna con cui si enunciano le occasioni mancate impedisce l’onestà e la gioia di ammettere che quelle colte sono state molte di più.
E che magari a chi ha fatto centro, pur restando altro da te, gliene devi dare atto. A bocce ferme.