Quel tenentino di complemento che snobbavano tutti e cosa uccise davvero Dalla Chiesa

La parabola di un uomo dello Stato che proprio dallo Stato venne lasciato solo: nel momento esatto in cui averlo al fianco contava

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Più del “chi” dovrebbe interessarci il “cosa”. E per capirlo dobbiamo fare un salto indietro di 42 anni. Nel 1981 alla Scuola Allievi Ufficiali carabinieri di Roma i temi degli aspiranti tenentini sudati e col capo rasato e chino li correggeva un “maestro”. Lui era un maestro molto ma molto severo. Che a suo modo era un “unicum”, perché era un generale a due stelle ed era il Vice Comandante Generale dell’Arma. Era una cosa più unica che rara che il secondo in comando della Benemerita fosse quello che con un lapis sbrecciava di rosso o di blu le righe dei componimenti delle “spine” sulle Regie Patenti del 1814. Ma era così.

E già da allora si sarebbe dovuto capire che Carlo Alberto Dalla Chiesa era uno che stava sullo stomaco a molti. La marginalità coatta si era sempre accompagnata alla vita militare di quell’ufficiale piemontese di nascita e spiccio, pratico ed affezionato ai guizzi di ingegno. Su di lui pesava una “croce” che le gerarchie in grigio-verde di blasone ed accademia non gli avrebbero mai perdonato.

Voleva fare l’avvocato, ma poi scelse l’Arma

Il treno commemorativo con la livrea del generale Carlo Calberto Dalla Chiesa (Foto: Carlo Lannutti © Imagoeconomica)

Era un ufficiale di complemento, un aspirante avvocato che aveva vestito la divisa con la casualità gaglioffa di chi, pensa un po’, aveva più spirito di servizio che sudditanza sociale. Nel Regio Esercito questa cosa stava a metà strada esatta tra l’eresia e la puzza sotto il naso e se non venivi da Modena o dalla Nunziatella eri solo un nessuno che provava a fare il qualcuno.

Di complemento Dalla Chiesa ci era diventato in un anno difficile: il 1942. Poi il suo nome comparve in foglio matricolare dei Carabinieri per il più banale e gigante dei motivi: suo padre quello era, un carabiniere.

Carlo Alberto si fece crescere il pelo sullo stomaco in Montenegro e i mesi cupi dopo il 25 luglio ‘43 e il Gran Consiglio con l’odg Grandi lo trovarono alla Tenenza di San Benedetto del Tronto. Lì lui comandava nuclei partigiani misti tra militari e civili. Quell’ufficialotto si era trasformato nel tempo in un leader. Per diventare quello che sarebbe stato. E per cui sarebbe morto: un rigido comandante di truppa che non rinunciava alle sgambate fluide degli intelletti affilati. In una parola un investigatore con i cosiddetti che in retrovia ci stava scomodo.

Sicilia 1949: perfino “Lucianeddu” trema

I banditi Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta

La Sicilia del 1949 conteneva già i germi del male che Dalla Chiesa avrebbe combattuto da solo, solo che all’epoca si parlava di “banditismo”, non di mafia. Però la mafia c’era già ma nel nome di quel mantra conservativo, “calati iuncu ca passa a’ china” si era auto-retrocessa a camarilla di banditi. Era falso, falsissimo e i suoi appetiti erano già evidenti almeno quanto la sua terrificante struttura sistemica.

A quei criminali di campo ed acqua il capitano Dalla Chiesa fece più danno di una pestilenza. Era solo ma testardo come un mulo da carrettiera e portò a casa l’incriminazione di Luciano Leggio (poi Liggio grazie alla trascrizione sbagliata di un vicebrigadiere) per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Lucianeddu lo odiava, quel capitano di Corleone con la testa grossa ed un principio di adipe sotto la cinta della sahariana. Fu lui a mettere in relazione la testimonianza di Girolamo Li Causi con la Fiat 1100 su cui issarono Rizzotto prima di finirlo ammazzato in una forra. Era l’auto di Liggio.

Un paio di giri per l’Italia nel mood zingaro dei Carabinieri e Dalla Chiesa tornò in Sicilia, dove mise in piedi il dossier dei 114. Fece la mappa della mafia, la prima della storia ed indicò i punti marci in cui “punciuti” e politici andavano a convergenza di interessi.

La mappa aggiornata delle coppole storte

Ma come faceva Dalla Chiesa ad ottenere risultati così importanti, sistematici e fulminei? Come tutti gli uomini soli e che potevano contare solo sulla Forza Armata a cui erano organici egli non poteva solo compiacersi dell’ingegno di cui era dotato. No, lui doveva mettergli il basto di una posizione di partenza sfavorevole. E, come accade spesso, proprio questo suo partire svantaggiato gli dava tanta e tale birra da correre più di tutti ed arrivare primo al traguardo. Succede, a quelli soli.

Tanto ci arrivò che la sua fama lo precedette e durante gli Anni di Piombo lo chiamarono a dare legnate ai terroristi. Il “metodo Dalla Chiesa” era famoso, famoso ed appetibile per sconfiggere l’eversione. Quale metodo? Battere il male con la stessa furbizia con cui il male operava, ed infiltrarsi a casa sua. Per carpirne i segreti, anticiparne le mosse e colpire dieci volte più duro di quanto il male non avesse già messo in cantiere.

Con i terroristi era più facile: farciti com’erano di ideologia spiccia bastava blaterare i loro stessi slogan nei posti giusti. Mise in piedi una struttura micidiale e in poco tempo, grazie ad un team di infiltrati e ad una intelligence più capillare di quella giordana chiuse gli schiavettoni ai polsi di Renato Curcio ed Alberto Franceschini.

Scoppole al terrorismo, poi passacarte

da sx Giluano Amato, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Nerio Nesi (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Tutto bene dunque? No, perché quei successi, che erano successi dello Stato e non di Dalla Chiesa che lo Stato lo rappresentava, non sortirono fiducia, ma schiene a riccio. Per la seconda volta e dopo un centro perfetto quel super carabiniere andò in angolo. Nel 1976 la sua struttura venne smantellata e lui andò a fare il passacarte di lusso al Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena.

La broda malevola in cui il futuro prefetto-generale sarebbe stato bollito fino alla morte era già a peppiare, e il fattore mafia divenne prova del nove. Sì, ma di cosa? Di una inimicizia latente che una parte delle istituzioni e della politica ha sempre provato nei confronti di chi sostituisce i gargarismi con la tigna. Di chi fa sul serio e non suona lo spartito delle fuffe di circostanza.

Con le coppole storte macellaie nell’isola ma già pronte ad oliare Roma per uscire impunite bastò solo allargare un po’ di più il cerchio. Quello della sconfinata solitudine a cui Dalla Chiesa era predestinato. Poi il gioco fu fatto e al resto ci avrebbero pensato gli Ak-47/M80 imbracciati da Pino Greco “Scarpuzzedda”, Calogero Ganci ed Antonino Madonia. Ma non furono quei sassi biechi di piombo foderato 7.62 ad ammazzare il generale e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, riducendo in agonia irreversibile Mimmo Russo.

Chi uccise davvero il generale a via Carini

La strage di via Carini

Quelli fecero solo massa critica per una morte che già batteva l’ala attorno al suo capo. Ad ammazzare Dalla Chiesa fu chi gli diede poteri speciali su carta ma senza dargliene in concreto. E che lo spedì a Palermo come Prefetto dopo la seconda guerra di mafia che aveva fatto del capoluogo siciliano un immenso sanguinaccio scuro.

Servivano tre cose a ché quel carabiniere andasse a meta e salvasse la pelle e nessuna gli venne data. I poteri speciali attuativi, il supporto dell’intelligence militare e i rapporti madre sul knowhow in ordine al traffico di eroina, i faldoni scritti dalla penna nervosa del defunto Boris Giuliano.

Gli sarebbe servita anche la spalla salda della politica ma a quei tempi e in quella Palermo era una barzelletta il solo pensarlo. Troppe collusioni, troppo grigio tra il bene e il male. Tanti soldi in ballo e troppa poca morale per rifiutarli.

A Dalla Chiesa rimasero invece una carica ordinaria, la Territoriale e l’immagine di un uomo duro con una nomea durissima che però sapeva parlare con la gente. E che organizzava improvvisi blitz a scuola o nei quartieri di Palermo, come un missionario della Legge. Non bastarono e l’omicidio di Pio La Torre fu solo l’esordio. Il dato paradossale è che Dalla Chiesa non fu ammazzato dopo aver inferto colpi eclatanti, organici e clamorosi alla mafia. Non ne ebbe il tempo.

Tre sudari e la speranza morta con loro

Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ai funerali del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (Foto: Quirinale)

No, lui venne ammazzato dopo 100 giorni solo per dimostrare che era senza alleati, e nessuno potè obiettare su quelle tre bare perché il generale era davvero solo. Tolto un raid ad una raffineria di eroina e l’aggiornamento alla sua mappa diventata il Rapporto dei 162 non c’era molto per cui adombrarsi. Il generale e la sua opera non avevano ancora raggiunto quella temperatura critica oltre la quale le coppole storte vanno a Commissione e decidono di cavarsi il dente con un funerale.

Era solo, Dalla Chiesa, e poco dopo le 21 del 3 settembre 1982 quella solitudine divenne ciò che tutte le solitudini alla fine figliano: sudari. Tre sudari, quelli del generale-prefetto e di sua moglie che viaggiavano sulla loro A112 lungo via Carini con l’agente Domenico Russo a guidare l’Alfetta di scorta.

L’ultimo colpo a Dalla Chiesa glielo spararono in faccia dopo che era morto, il colpo simbolico con cui la mafia cancella chi ha osato sfidarla nello sfregio finale. Ma lo sfregio non fu quello, lo sfregio ce lo portiamo addosso noi da 41 anni, scolpito nell’anima di un Paese che non seppe difendere chi era stato chiamato a difenderlo.

La speranza dei siciliani onesti

La scritta apparsa sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa (Foto Ansa / Archivio Storico)

Lo sfregio fatto ad un tenentino di complemento che voleva i mezzi per rendere il suo Paese un posto migliore. Che morendo fece morire la speranza. La speranza “dei siciliani onesti” che ai funerali del generale sputarono addosso a tutti, meno che a Sandro Pertini.

E questo fece capire molto, ma non tutto. Non abbastanza da ammettere che il sangue di Dalla Chiesa se ne sta, secco, anche sotto unghie insospettabilmente curate.

Perché il punto resta quello: della morte dei Giusti più del “chi” dovrebbe interessarci il “cosa” la provocò. Sennò continueremo a perdere.