Quelli che volevano un mostro ad ogni costo

L'assoluzione pronunciata dalla Corte d'Asssise di Cassino per l'omicidio di Serena Mollicone è un segno di grandissima civiltà. Perché c'è differenza tra 'un' colpevole ed 'il' colpevole. E la situazione era chiara. Nonostante l'impegno della Procura. Ci voleva coraggio per andare contro una piazza che chiedeva un mostro da impiccare. Cassino ne ha dimostrato. Tenendo alta la bandiera delle civiltà giuridica

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Senza un mostro, senza un colpevole: i cappi resteranno a penzolare vuoti sulle forche issate da mesi davanti al Palazzo di Giustizia di Cassino. Non ci saranno impiccati per l’assassinio di Serena Mollicone, la liceale sparita da Arce il primo giugno 2001 e ritrovata dopo tre giorni nel bosco Fonte Cupa di Fontana Liri. La Corte d’Assise di Cassino ha assolto questa sera da tutte le accuse il maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, sua moglie, suo figlio, due commilitoni in servizio con lui nella caserma di Arce. Sono innocenti. Non sono loro ad avere ucciso Serena.

Non ci sono prove contro di loro. Solo indizi. È stato chiaro il presidente Massimo Capurso quando alle 19.30 in punto ha letto la decisione.

Gli indizi non sono prove

Che si andasse verso l’assoluzione era chiaro fin dal mattino quando ci sono state le ultime repliche. La Procura della Repubblica ha tentato di portare un nuovo testimone: un parrucchiere che dopo 21 anni sarebbe venuto in Aula a dire che nei giorni del delitto aveva fatto le meches al figlio del maresciallo. E Serena, prima di sparire venne vista discutere con un ragazzo che aveva le meches.

La Corte d’Assise ha detto no. Perché ormai il Codice non lo consentiva. Perché ormai la situazione era chiara: indizi ce n’erano a volontà contro gli imputati, ma prove nessuna. Quel testimone avrebbe portato al massimo altri indizi. Ma non una prova. E non per negligenza o sciatteria della Procura della Repubblica: i magistrati dell’accusa hanno condotto un lavoro al di là di qualunque critica, si sono attaccati a qualsiasi elemento indiziante fosse possibile produrre. È che di elementi probanti non ce n’erano, non ce ne sono.

Hanno percorso in ogni modo possibile il labirinto nel quale oltre dieci anni fa avevano dovuto cercare una via d’uscita i loro colleghi che processarono Carmine Belli, il carroziere finito sotto accusa per avere fatto una battuta mentre prendeva il caffè in un bar: “Ora ti faccio fare la fine che ho fatto fare a Serena”. Pessimo gusto, non la prova di un assassinio. Assolto anche lui. Con le stesse motivazioni.

Che poi erano le stesse motivazioni che l‘ufficiale dei carabinieri Gianluca Trombetti, comandante dei carabinieri di Pontecorvo nel 2001, disse con chiarezza prima di essere trasferito: “Di gente come Carmine Belli ne potrei arrestare almeno mezza dozzina, ma io sono un carabiniere. E per me c’è differenza tra un colpevole ed il colpevole”.

Un mostro ad ogni costo

Dissero lo stesso anche i due magistrati di primissimo ordine che presiedettero quella Corte d’Assise: il mai eguagliato Biagio Magliocca severissimo campione di garantismo, la rigorosissima Anna Maria De Santis.

Sarebbe stato comodo trovare un mostro ed appenderlo alla forca: la folla si sarebbe placata. Ebbero il coraggio di non farlo. Riconoscendo il valore del lavoro compiuto dalla Procura. Esattamente come è stato fatto questa volta.

Perché una cosa va detta con onestà intellettuale pari all’amarezza: nonostante l’encomiabile lavoro svolto dalla Procura prove contro i Mottola non ce ne sono. Ed in un Paese civile la gente si condanna sulla base delle prove. E gli indizi? I processi si fanno proprio per vedere se gli indizi assumono il peso e l’evidenza di una prova. Non c’erano prove per Carmine Belli, non c’erano prove per i Mottola.

C’erano motivi per sospettarli? Si e pure tanti ha detto questo processo. Ma c’erano le evidenze dell’innocenza. Mottola che preleva il povero papà Guglielmo Mollicone e lo porta in caserma per incastrarlo? Balle. Lo ha detto il ‘capitano’ Trombetti: ‘Ordinai io di farlo perché mi venne ordinato dalla Procura‘. Il carabiniere che induce al suicidio il collega santino Tuzi? Non esiste.Mi venne dato l’ordine di farlo parlare mentre c’era la microspia in macchina”.

La piazza vuole il mostro ad ogni costo: dalla notte dei tempi, in ogni cultura, si deve avere ad ogni costo un colpevole. Perché il delitto di una studentessa non può restare impunito, perché un assassino non può andarsene in giro. Perché ci è insopportabile quel senso di giustizia mancata. È per questo che venne inventato il capro espiatorio: il capro dal mantello nero che una volta l’anno veniva sacrificato in un rito collettivo, uccidendo con lui tutti i peccati.

Ma noi siamo un popolo civile

Ma noi siamo un Popolo civile. Non cerchiamo capri espiatori. I giudici della Corte d’Assise di Cassino lo hanno detto con chiarezza. Indizi ce n’erano, la procura ne ha portati a tonnellate. Prove no.

Allora perché la piazza aveva issato i patiboli, perché c’era così tanta voglia di forca? Perché a fronte della civiltà dimostrata dai giudici della corte d’assise e dai magistrati della Procura, non c’è stata altrettanta civiltà da parte di chi ha creato dei mostri e li ha dati in pasto all’opinione pubblica. Se c’erano i patiboli già pronti è anche per questo.

La norma sulla Presunzione d’Innocenza è un segnale di grandissima civiltà giuridica. Il fango di cui sono stati coperti i Mottola in questi anni non lo è. È il simbolo del contrario. I magistrati di Cassino, dell’inquirente e del giudicante, hanno tenuto alta la bandiera della Giustizia. Non avevamo bisogno di un mostro ad ogni costo.