Senza più il terrore di essere normale

Imperdibile articolo di Grazia Maria Sacco. Per tutti gli uomini, se vogliono sperare di capire qualcosa in più. Per tutte le donne: se vogliono tentare di capire che si può vivere senza più il terrore di essere normali.

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

Campeggia lì in alto quel cartellone, nemmeno la pioggia intensa, mista a neve di questi giorni di inizio marzo, ne oscura la prepotenza.

Quel pezzo di calza, così maliziosa e senza pudore, tenuta lì sulla caviglia, ad indugiare se salire o meno, si infila dentro un tacco di quelli dodici minimo, che al negozio ti si gonfia il piede dopo soli cinque secondi che cerchi, disinvolta, di passeggiare sulla moquette per vedere se ti calza bene.

Strano: lei, quella bionda con i capelli ancora tutti vaporosi di phon e una spruzzatina di lacca, li porta così leggiadra, mentre prepara il caffè di qualche marca brasiliana di nuova immissione sul mercato, con ampia scollatura offerta, con generosità, all’ingordigia maschile più spudorata, a ricordare a tutte che non è che adesso ci si mette a fare il caffè in vestaglia, o con pantofolacce da colori improbabili, o si arrotola il mollettone di fretta in furia: siamo donne con il dovere della seduzione ad ogni ora del giorno.

Senza dimenticarci di fare il caffè, mentre sulla sedia di una parete sullo sfondo si intravede la giacca di un tailleur messa momentaneamente al riposo, poco prima di andare di nuovo lì fuori nel mondo, ad aggredirlo con una convincente falcata felina, idee intelligenti studiate fino a tarda sera, come suggeriscono gli occhiali di raffinato gusto gucciano lasciati nel taschino della giacca e l’i-pad pronto a condividere scatti social che raccontino , in diretta, la nostra super maestria nel tenere in equilibrio tutto e tutti.

Rosa, dal suo minuscolo monocale del centro, se lo guarda quel cartellone, mentre indossa ancora il pigiama, sono le sei e mezza di mattina, ed il bicchiere di plastica bianco, ancora caldo, rischia di accartocciarsi fra le mani , al pensiero dei soldi che non bastano, di Pietro che si fa sempre fatica a farlo svegliare per andare a scuola, di quel lavoro così precario e mal pagato, che però l’assorbe così tanto che il figlio non sa mai a chi e dove lasciarlo.

Si interroga Rosa: piacerebbe anche lei oggi passare davanti quel parrucchiere così bravo in città, farsi una piega, far cadere la testa all’indietro, mentre lo scroscio dell’acqua fa uno strano sollecito, quasi a scrollarsi di botto tutti i pensieri, compreso quello di non essere poi stata tanto brava a tenersi il papà di Pietro, o forse ancora prima a sceglierlo, lei che ha rinunciato agli studi per un amore che credeva avesse sorretto il mondo, figurati mai fosse crollato sotto qualche misero temporale estivo.

E d’improvviso piange, quando scopre che ieri sera alla fine qualcosa l’è sfuggito, ecco perché se ne è andata a letto con l’idea che non avesse terminato il suo da fare : il grembiule di Pietro , quello da lavare e stirare, ecco quello era ancora ammucchiato, con i suoi allegri pupazzi di sugo rosso e patatine fritte, sul cesto dei panni da pulire, in quella pila enorme , che pareva sempre di più assomigliare, man mano che le settimane passavano, ad un piramide egiziana colorata e disordinata, come la vita di Rosa.

Ed ora era già tardi, Pietro era ancora da svegliare, il turno in fabbrica stava per iniziare (otto ore sulla carta, con pausa di un’ora, dodici nei fatti e con il tempo di dare mezzo morso ad un panino infilato di fretta nella borsa), e ancora Amanda doveva darle la conferma se poteva tenerlo Pietro dopo scuola, lei che si arrangiava fra una pulizia ad un condominio e una manicure in casa, dopo essere stata costretta a cambiare città , lavoro, abitudini, a nascondersi, assediata da un ex uomo invasato e malato, ancora tenuto libero da una Giustizia che non aveva ancora ravvisato nessuna attualità del pericolo e urgenza di intervento in una aggressione soltanto “tentata” (avere delle buone doti di ex atleta capace di maratone instancabili la rende una vittima non più a rischio come si potrebbe pensare, visto che tutto sommato sa anche scappare utilmente!), per cui quel fascicolo introdotto dall’ennesima querela può ben stare a prendere altra polvere sulla scrivania di quel magistrato che “Signora, tutti i casi sono urgenti. Valuterò non si preoccupi, stiamo procedendo”.

Mentre per Amanda, forse , l’unica cosa sicura che stava procedendo era l’avanzata invadente di quell’uomo nella sua vita, a frugare i sogni, spiarne perfino i respiri, contarne i passi, prevederne e anticiparne perfino i pensieri, senza sosta, fagocitando con insaziabile fame la sua voglia di vita.

La stessa con cui era capace di trasformare il broncio di Rosa in una risata improvvisa, dopo aver ricucito i pezzi di una ennesima giornata no in un puzzle goffo e simpatico di avventure, alla fine delle quali ce l’avevano ancora fatta, come ce l’aveva fatta Sara a togliersi l’ossessione di non essere abbastanza, fino a diventare un fantasma perso nella ricerca spasmodica della perfezione del suo corpo, martoriato da digiuni che non erano altro che schiaffi dati ai suoi tanti errori, penitenze da scontare fino a sparire, per vedere se poi per qualcuno fosse stata tanto importante da essere cercata e, perfino, salvata.

Non è arrivato nessuno nella vita di Sara però, magari in sella ad un cavallo bianco, a dirle che anche lei , si proprio lei, quella eternamente schernita dai ragazzi di scuola e cattivamente ignorata dalle coetanee, fosse amabile anche in quei suoi rotolini di carne appiccicati sui fianchi, magari a dirle: tienitili pure, sono così tanto più importanti e notabili quelle tue deliziose fossette vicino le labbra, che ti si fanno quando sei felice, che non vale la pena farsele mancare per stare dietro alla stupida moda delle donne-manichino.

No, non è arrivato nessuno, ma sono arrivate Rosa e Amanda.

L’incontro del figlio della prima, Pietro, che amandola di un amore disinteressato e puro come quello di tutti i bambini, le ha fatto comprendere che essere madre non è soltanto un’occasione biologica ma un dono che la vita è disposta a fare a chiunque spalanchi le porte del cuore al di là di ogni paradigma sociale.

Perché la vita, come diceva sempre Amanda, mica possiede una sola forma.

E chi più delle donne lo sa: loro che sono un continuo arcobaleno di evoluzioni, che disinstallano i programmi della loro vita adattandosi alle precarietà più insostenibili; che giurano che non ci cascheranno più, che non costruiranno più grattacieli di sogni e speranze, e poi le ritrovi, dopo un attimo, il tempo di asciugare l’ultima lacrima più invadente, con ago e filo in mano, a riannodare pezzi scomposti, immaginandosi già distese sopra una nuvola a disegnare , munite di compasso e matita, un nuovo progetto.

Loro che fanno comunque, anche in assenza di un asilo nido dentro un posto di lavoro che le consenta di esser madre e lavoratrici insieme, senza scegliere, soprattutto quando non si può scegliere.

Che, pur facendo i miracoli, si fanno bastare i soldi, sottopagate e ancora tenute lì ferme in un ruolo, senza gli avanzamenti magari riconosciuti ai colleghi uomini.

Loro che, seppure in preda alla paura, senza alcun scudo sufficiente a proteggerne corpo e anima, si armano di tenacia e ricominciano.

Daccapo.

Non importa.

Altrove, che tanto di ogni altrove loro sapranno farne casa.

Loro le donne che non sanno di essere più belle quando non se ne preoccupano più.

Quando si mettono il rossetto all’ultimo momento, mentre si specchiano in macchina, e di improvviso un colpo di clacson deciso ti ricorda di proseguire la marcia.

Quando, finalmente, hanno imparato ad essere fedeli a se stesse e a perdonarsi.

Senza più il terrore di essere normali.