La verità di Astorre: «Nel Pd non c’è unità. A Cassino hanno sbagliato tutti»

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CORRADO TRENTO per CIOCIARIA EDITORIALE OGGI

«Provengo da una scuola che interpreta la politica come strumento e non come fine». È la frase che il senatore Bruno Astorre (Pd) ha scelto per il suo profilo social. Una frase indicativa. Bruno Astorre è un grande mediatore ed ha riavvicinato politicamente il presidente del consiglio Matteo Renzi e il Governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Oggi a Roma è in programma la direzione regionale del Pd sull’analisi del voto. Abbiamo intervistato proprio il senatore Astorre.

Allora senatore, nel Lazio solo due ballottaggi vinti nei Comuni con oltre 15.000 abitanti: Alatri e Minturno. Preoccupati?
«Il voto della Capitale ha fortemente influenzato i risultati del Lazio. Penso ai Castelli romani, ma pure a Nettuno, Anguillara, Bracciano. Ha perso anche il centrodestra contro il M5S. È andata leggermente meglio più lontano da Roma».

Parliamo della disfatta di Cassino, determinata dalle lacerazioni del Pd?
«Hanno sbagliato tutti. Giuseppe Golini Petrarcone durante il suo mandato poco ha fatto per unire il Pd e il centrosinistra. Ma al ballottaggio tutti dovevano votare per lui, su questo non si discute. Bisognava fare fronte comune, ma così non è stato».

Ma a marzo in provincia di Frosinone non c’era stato un congresso unitario?
«No. C’era stata un’assemblea unitaria, mentre il congresso si era rivelato difficile, duro, incerto fino all’ultimo. Sa come si dice? Dove c’è ordine c’è pace. Dove c’è disordine c’è fame».

Senta Astorre, ma alla Provincia di Frosinone lei manterrebbe l’accordo tra Pd e Forza Italia?
«Sono dinamiche locali che devono essere analizzate dai responsabili sul territorio».

Però in provincia di Frosinone sono anni che il Pd non trova una sintesi, nemmeno alle elezioni comunali. Proprio al congresso lei aveva fatto un appello a De Angelis e Scalia.
«Gli attori protagonisti non sono più soltanto Francesco De Angelis e Francesco Scalia. L’appello all’unità e alla compattezza non è un mantra sterile ma una necessità politica impellente. Un esempio su tutti: la battaglia sul sì al referendum va vinta. E bisogna remare tutti insieme».

Senta Astorre, la vittoria dei Cinque Stelle a Roma e ai Castelli è un campanello d’allarme anche per Zingaretti?
«Ma guardi che i Cinque Stelle erano più forti nel 2013 di adesso. Tre anni fa risultarono il primo partito a livello nazionale. E ai ballottaggi vincono non da oggi. Il fatto è che assorbono i voti delle altre forze politiche ma non ricambiano. Penso a Milano, a Bologna. La verità è che ogni periodo ha una sua storia. Nel 2013 il centrosinistra non vinse e ci fu l’affermazione dei Cinque Stelle. Nel 2014 doveva esserci il sorpasso. Ricordate l’hashtag di Grillo “vinciamo noi”? Alla fine si registrò la più grande vittoria del Pd. Nel 2016 sapevamo che le amministrative sarebbero state uno scoglio difficile. Però il Pd ha retto. Il punto vero è un altro».

Cioè?
«La sconfitta che mi preoccupa di più è quella di Torino. Perché Piero Fassino ha governato bene. Allora mi chiedo: se non basta più nemmeno la buona politica, dove si sta andando? A cosa serve produrre fatti? Di quel risultato, come di quello di Genzano (dove peraltro c’è una coalizione di centrosinistra unita), non trovo la chiave».

Forse la parola magica è rinnovamento. I Cinque Stelle vincono con una sola lista fatta di persone non conosciute.
«È un combinato disposto tra l’istanza di cambiamento e la protesta».

Dicono che lei abbia fatto riavvicinare Renzi e Zingaretti.
«È vero e ne rivendico il merito. Si tratta di due personalità forti, con caratteri molto diversi. Insieme possono rappresentare una grande opportunità: per il governo del Paese e della Regione, per il partito, perfino per l’Italia. Ne sono convinto e penso che i risultati si vedranno presto».

Scusi senatore, su Zingaretti però non mi ha risposto. Campanello d’allarme?
«Zingaretti dà una percezione positiva di buon governo. Ma i risultati di quest’anno dicono che la guardia non va abbassata»