La Valle del Sacco come il Vajont: sacrificata al denaro

Se il teatro è un pugno nello stomaco. Come Paolini con il suo Vajont. E come Andrea Di Palma e 'Mani di Sarta': la tragedia della Valle del Sacco. Con un sottile filo ad unire le due storie portandole sullo stesso altare. Quello del dio Denaro

Paolo Carnevale

La stampa serve chi è governato, non chi governa

C’è un momento, alla fine de “Il racconto del Vajont”, in cui l’autore e protagonista di quel capolavoro, Marco Paolini, lo dice chiaramente: i morti della tragedia del Vajont, l’inondazione di Longarone avvenuta alle 22:39 del 9 ottobre del 1963, non sono state vittime di un incidente imprevedibile. Ma di una voglia di progresso che, ad un certo punto, ha perso di vista l’obiettivo fondamentale. Salvaguardare le vite e le storie di tutti quelli che, da quel progresso, erano stati prima illusi e poi travolti.

La tragedia del Vajont

Marco Paolini (Foto: Stefano Scarpiello © Imagoeconomica)

La storia del Vajont è nota. Il 9 ottobre del 1963, al confine tra il Veneto ed il Friuli Venezia Giulia, in seguito alla frana di una parte del monte Toc, un’enorme onda si solleva al di là della diga del Vajont e spazza via tutto il paese di Longarone, provocando 1917 morti, tra cui 487 al di sotto dei 15 anni.

Una tragedia, anche se per molto tempo non si è potuto dire, figlia non della imprevedibilità, ma della volontà di creare una diga laddove era pericoloso. Quei morti erano figli di un progresso che ha, troppo spesso, messo avanti i valori del denaro rispetto a quelli dell’umanità. La frase finale di quello spettacolo (i morti “figli di un’Italia contadina che non interessava più a nessuno”) è la frase chiave di tutto lo spettacolo. Perché contiene quella che è la cifra di tutta l’attività teatrale di Marco Paolini. Che ha sempre cercato di mettere insieme nel proprio lavoro ricerca artistica ed impegno civile, nel senso più alto del termine.

La tragedia della Valle del sacco

Una scena di Mani di Sarta

Venerdì scorso Paolini è arrivato anche ad Anagni, con lo spettacolo Mani di Sarta, di Andrea Di Palma. Che è andato in scena per la prima volta in città. Lo spettacolo era già stato rappresentato mesi fa a Roma; ed aveva già avuto diverse repliche. Ma quella di venerdì scorso è stata particolarmente importante e significativa. Perché nel teatro del Giardino Ousmane c’era un pubblico molto particolare. Composto, in molti casi, da persone che hanno vissuto in prima persona la tragedia di cui parla lo spettacolo. La tragedia della Valle del Sacco.

Ovvero, di una zona, un intero comprensorio, che ha, nel corso della seconda metà del Novecento, vissuto in prima persona l’equivoco di quello che Pasolini avrebbe chiamato “Sviluppo senza Progresso”. L’idea di ambire ad uno sviluppo soprattutto economico, senza tenere conto di altro. Nella zona della Valle del Sacco, e ad Anagni soprattutto, questo si è tradotto, in molti casi in una industrializzazione furibonda, che ha creato opportunità, ma anche molti danni.

Andrea Di Palma, che è anagnino fino al midollo, nello spettacolo, parla proprio di questo. Di come una società contadina, povera forse ma felice, si illude di poter diventare moderna, forse ricca. Senza però rendersi conto che il prezzo da pagare è molto, troppo alto.

La moria del bestiame

Ad Anagni il momento più tragico di quella storia arriva nel luglio del 2005. Quando 25 mucche muoiono per aver bevuto l’acqua del fiume. Contaminata, si vedrà poi, con dei metalli in quantità letali: sfuggiti da una vasca di decantazione di uno stabilimento.

Un incidente. Avvenuto in un contesto nel quale una valle agricola diventa per una stagione economica intera un distretto per la produzione di materiali bellici e ferroviari Non importa tanto chi abbia perso l’arsenico nel fiume. Conta il perché di quelle morti: un po’ come il Vajont, un progresso che ha messo al centro il denaro dimenticando l’umanità.

In quella zona ci sono stati, e ci sono, tanti, troppi morti. Di questo parla Andrea nel suo spettacolo. Che è un vero pugno nello stomaco. Un pugno salutare. Se non altro per indurci a pensare che le ragioni dello sviluppo, non devono mai essere scollegate da quelle del Progresso. Di Palma ci spiega che il progresso non si può fermare ma che si può governare. Che le ragioni di un popolo non possono essere messe da parte. E che prima o poi la primavera arriva.