Ho visto una coppia di anziani e una donna incamminarsi con una piccola borsa termica in mano. Una madre, o una moglie. Ho visto un adolescente curvo sul suo telefono, negli ultimi secondi utili prima di lasciarlo. Per un’ora, magari due o forse meno. Per lui un’eternità. Ho visto due bambini correre verso il cancello e uno vestito da scheletro, fiero del suo abito di Halloween lasciato fuori per l’occasione. Per farsi vedere così. Da suo padre, o magari da suo nonno.
Ho visto tutto questo e poi sono entrata anch’io.
È giorno di colloqui al carcere di Frosinone. Ma è anche la giornata per dire No alla violenza sulle donne. Qui e altrove. Lo è ovunque.
Una suora si è messa in testa di fare teatro con i detenuti. E ci è riuscita. Non porta il velo ma ha appeso al collo un crocifisso. Quando qualcuno parla di amore incondizionato e che non si deve per forza meritare, lei annuisce sorridendo.
Attori amatoriali, dice del suo gruppo che mette in scena un racconto tratto da una storia vera. Una storia di violenza e riscatto di una donna che subisce ma che poi trova il coraggio per fuggire da un amore malato.
Sul palco detenuti e volontari raccontano in gesti semplici ma simbolici il dolore e il senso di vuoto di chi si sente sola e prigioniera. «L’importante è sperare sempre, anche quando tutto è perso. Amare significa vivere e lasciare vivere». È l’emblema di questa giornata nelle parole di chi sa. Di chi ha provato. Di chi ha sentito quella violenza.
È un pezzo di città quello del carcere, solo che è molto più solo e isolato. Tanti non sanno nemmeno dove sia. Fa paura il carcere. Fa paura quando entri e il tonfo delle porte di ferro rimbomba per qualche secondo mentre ti guardi intorno e osservi quei muri altissimi e invalicabili. C’è uno strano silenzio e si sente forte il rumore delle chiavi che girano nelle serrature. Una dopo l’altra. Una dopo l’altra.
Sai che dovrai uscire ma è ugualmente angosciante, allo stesso modo doloroso.
L’odore che si sente e che arriva dalle finestre delle celle racconta di sapori lontani. Di spezie che non sono di qui. Di contesti che in altri luoghi si chiamano contaminazioni ma che qui sono spesso convivenze difficili, spesso impossibili.
Nel grande salone che forse di domenica diventa una chiesa e oggi è un teatro, i detenuti arrivano alla spicciolata. Sono pronti ad esibirsi o a fare il pubblico. Visti da vicino nessuno di loro fa paura e fa quasi tenerezza la felpa che un non più giovanissimo indossa con disinvoltura. C’è scritto “bad boy”, cattivo ragazzo. Mi chiedo cosa abbia fatto. Me lo chiedo di tutti, anche se mi rendo conto che non dovrei. Per non travalicare mai il confine sottilissimo che passa tra curiosità e interesse morboso per le vite degli altri.
C’è un ragazzo che in realtà è un ragazzino. Ha vent’anni ma ne dimostra ancora meno. Sorride alla suora e le dice che deve andarsene, che non può partecipare. «È arrivato mio padre, mi aspetta in sala colloqui». Poi però ritorna e interviene al dibattito. Dice che la gelosia per una donna va bene, ma che non deve mai essere troppa. Anche di lui mi chiedo che abbia fatto per essere lì e quanto tempo dovrà rimanerci. Come me lo domando di un giovane dai modi squisiti. È vestito bene. Anzi, benissimo. Non ha niente dello stereotipo del detenuto e per quel nostro modo di osservare che spesso non va oltre le apparenze, lo scambio per un volontario. Perché penso che lui, lì dentro, c’entri poco o niente. Come se qualcuno fosse invece adatto a restare chiuso in cella. Come se la divisa fosse quella arancione dei film americani.
Nelle ultime file c’è il gruppetto della squadra di calcio, che a metà dicembre incontrerà la nazionale degli attori. Tutti hanno la simpatica strafottenza dei calciatori e sorridono ad Arianna Ciampoli, la conduttrice Rai che modera l’incontro. La invitano alla partita e lei chiede loro cosa debba dire a sua figlia. Cosa debba consigliarle se un giorno il suo uomo le dicesse qualcosa di ‘strano’. Qualcosa da farle intuire il peggio.
È un dialogo tra persone. Non tra chi sta dentro e chi uscirà. Non oggi.
Alla fine dello spettacolo, insieme a chi ne è protagonista, urlano “Libertà!”. È quella della giovane donna che racconta la fuga dalla violenza ma forse ognuno, in quel posto solo è isolato, ha pensato alla propria.
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La giornata è stata organizzata con il contributo della dirigenza del carcere, la polizia penitenziaria, Filomena Moscato dell’Area Educativa, Chiara Guerra per Idee in Movimento, suor Rosalba e le volontarie dell’associazione RitrovArti, Antonio Colasanti per il Gruppo Idee allenatore dei Leoni di Frosinone e per l’Auser di Frosinone Mario Ceccarelli, Sonia Sirizzotti, Anna Magliocchetti e Margherita Mattacola.