I protagonisti della XXIII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo
I protagonisti della XXIII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.
UP
GUSTAVO PETRO
Il 16 giugno gli toccherà dimostrare se è davvero lui l’uomo giusto per guidare la Colombia ed aprire la prima grande stagione illuminata del progressismo equidistante.
Da cosa? Dai soliti estremi sudamericani: o la nazionalizzazione in salsa socialistese o la sudditanza ai potentati occidentali a caccia di ricchezze di cui la Colombia trabocca, specie nel campo delle terre rare e dei semiconduttori. La Colombia ha il 5% della ricchezza mondiale di coltan di tutto il pianeta, tanto per dirne una.
Il leader della sinistra colombiana Gustavo Petro si confronterà con l’outsider indipendente Rodolfo Hernández in un ballottaggio presidenziale che sa di sfida vera. E Petro, che in campagna elettorale molti hanno considerato una specie di Nicholas Maduro travestito da Enrico Letta, ha messo subito le cose in chiaro.
Lo ha fatto firmando un impegno pubblico in cui promette che se verrà eletto presidente non nazionalizzerà proprio nulla. Il Registro nazionale elettorale comunica che Petro ed il suo Pacto Históric hanno una base di partenza lusinghiera: il 40,33% e 8.333.338 suffragi. E Petro sa benissimo che questa è forse l’ultima occasione che la Colombia ha per mettersi in asse con la storia senza diventarne pedina o angolo torbido. Perciò ha puntato in alto.
La fine dell’utopia
Lui vuole ripristinare la produttività di 15 milioni di ettari di terreno e porre fine al “narco-latifondismo”. Che significa? Via le terre brade in cui la Colombia criminale prospera nel business della coca e vai con la terra a chi la coltiva a banane ed ananas. Sembra un’utopia ma alla fin fine un’utopia per chi è tenace è solo una realtà che ha ancora addosso il veli del sogno, basta saperla spogliare.
E lui, l’ex guerrigliero M-19 ed ex sindaco di Bogotà, a spogliare quell’utopia ci sta provando. E lo ha fatto senza blandire troppo gli elettori in un Paese dove la democrazia è stata per troppo tempo gargarismo che precede lo sputo nel lavello.
Gustavo ci prova.
CHRIS MURPHY
“Che cosa stiamo facendo? Che cosa stiamo facendo? Cose come queste succedono solo in questo paese. Da nessun’altra parte del mondo i bambini vanno a scuola pensando che potrebbero essere uccisi quel giorno”. Poi lo aveva ripetuto meglio, ai colleghi: “Se fossero morti 19 senatori, forse il Senato inizierebbe a fare qualcosa” . E ancora, guardandoli dritti negli occhi: “Ma voi cosa cacchio ci state a fare qui?”.
Chris Murphy è un senatore democratico degli Usa che per arrivare a sedere dove sta assiso ora ha battuto una candidata repubblicana che possedeva una federazione di wrestling ed era figlia di militari, quindi quando parla di certe cose sa benissimo come si fa. Lo aveva fatto capire chiaramente pochi giorni dopo la strage di Uvalde in Texas arringando i colleghi sul cancro storico delle armi in un Paese che è pistolero per indole prima ancora che per costituzione.
Ma se Murphy si fosse limitato a cazziare i colleghi dopo l’ennesimo bagno di sangue, sia pur con argomenti efficaci come quelli che abbiamo esposto sopra, Murphy non starebbe in casella Up. Non ci starebbe perché gli Usa sono pieni di Soloni che dopo un fatto sconcio proclamano il ritorno all’etica. Lo fanno fieri, salvo poi accorgersi che il numero di cellulare dei lobbisti da cui mungono voti poi non si accende più in display e che tutto sommato uno Stato imperfetto ma con loro alla guida è sempre meglio di uno Stato perfetto e con loro davanti alla tele in tinello.
Una nuova legge sulle armi
Murphy però è un tostissimo avvocato del Connecticut ed ha fatto di più e meglio: sta raccogliendo adesioni per una proposta di legge che regolamenti il possesso di armi attraverso un passaggio della Corte Suprema, una piallata al Secondo Emendamento in sostanza.
E lo sta facendo cercando di far modificare la legge del 1995, il Lobbying Disclosure act, che obbligò i gruppi a seguire un preciso codice di condotta nel loro rapporto con la politica, in senso più restrittivo. In buona sostanza, delle sette teste dell’Idra, Murphy ha afferrato per il collo proprio quella che dentro il cranio ha il cervello e che guida le altre.
Cacciatore selettivo.
DOWN
L’ABITUDINE
Ci sono mistiche storiche e cinematografiche che la chiamano in causa più e più volte: dalla poltrona sbilenca e resa comoda dall’uso che Winston Churchill non volle mai far cambiare a Downing Street fino al meraviglioso Qualcosa è cambiato con Jack Nicholson, l’abitudine è sempre stata così, una pigra ed indolente amica di tutti.
L’imperatore Claudio scrisse che l’abitudine consente all’uomo di avere una prospettiva più reale delle cose che circondano l’uomo perché grazie ad essa ci si può concentrare sull’esterno con molta più lucidità.
Ed aveva ragione: da una poltrona sbilenca ma comoda lo vedi molto meglio, il ragno che preda una mosca sul tuo muro, perché non sei impegnato ad assestarti nel cercare la posizione giusta e quindi fai più attenzione a particolari e prospettiva generale. Tuttavia l’abitudine è anche un mostro travestito da fanciulla che a lungo andare non ti fa vedere più cosa sia giusto o meno. Lo fa con la sua sorella sbilenca: l’assuefazione.
Ecco perché bomba dopo bomba, strage dopo strage, aberrazione dopo aberrazione, stiamo cominciando tutti ad avere una nuova prospettiva della guerra in Ucraina. Perché non è affatto vero che all’orrore non ci si abitua, specie quando dello stesso sei distratto spettatore social o televisivo.
L’assuefazione all’orrore
Stiamo cominciando tutti, dall’uomo della strada al politico di lungo corso, a considerare sempre meno le morti e sempre più le utility di una guerra che ha preso la via sacrosanta ma cinica della riffa economica ed energetica.
Due mesi fa gli orrori di Bucha ci mandarono al letto sfatti di pessimismo: l’uomo era esattamente la stessa bestia che credevamo di aver cassato a Norimberga o all’Aia. Oggi è difficile che un mucchio di cadaveri messi a macerare in una strada ci facciano sentire più che un vago afflato etico di facciata e torniamo subito a considerare il conflitto come una grossa grana per le nostre bollette.
Ci siamo abituati. Abituati ad una cosa a cui l’abitudine non dovrebbe mai abituarsi: a considerare l’orrore della guerra rumore di fondo e a vedere la pace come un vantaggio strutturale e non come un obiettivo etico. E la notte, con petrolio e kilowattore a cantarci la ninna nanna, dormiamo tutti meglio, salvo quando nel buio ci alziamo col sudore freddo sul filare della schiena e pensando a quei morti ed a come li stiamo pensando.
E poi, in un attimo di terribile verità rivelata, ci accorgiamo che comunque vada questa guerra i suoi sconfitti li ha già: e siamo noi.
Bandiera bianca.
LOMBOK
La colonna sonora dell’isola di Lombok, in Indonesia, è un continuo rumore di martellamento sordo, stop e poi ancora rottura, giorno e notte. Chi ha sentito per la prima volta quella canzone ha detto che è come se le centrifughe delle lavatrici di mille giganti girassero con dei macigni dentro, a scatti rallentati e trattenuti, a volte irregolari ma sempre con quell’effetto a metà fra tamburo e metronomo impazzito.
Sono i macchinari rudimentali con cui ogni abitante di Lombok frantuma la roccia per estrarre illegalmente l’oro, in pagliuzze o mini pepite. Ce n’è praticamente uno accanto ad ogni casa, ad ogni capanna, ad ogni spiazzo di terra battuta.
La pratica delle miniere illegali e fai da te in quella terra impastata d’oro ma con filoni random era in calo ornai da decenni. Tuttavia quel che ha fatto la pandemia all’uomo l’ha rimessa in auge perché l’Indonesia non è solo piena di malati di Covid, ma anche di poveri per Covid.
E i poveri non badano al sottile, sono poveri e devono lottare, anche a costo di calarsi ogni giorno, per dieci-dodici volte, in budelli scavati a mano nella roccia e nella terra rossa franosa. Sono cunicoli semi verticali tenuti aperti con sputi, preghiere e legno, sempre a rischio di crollo, poveri d’aria e illuminati da lampade frontali miserelle ordinate su Wish.
Il ruolo del mercurio
Da lì viene cavato ogni masso, ogni roccia che la terra cede con riluttanza, poi viene il bello, anzi, il brutto. Dai tempi delle grandi corse all’oro negli Usa durante il XIX secolo il separatore per eccellenza del biondo metallo dalla terra che lo imprigiona è il mercurio, che non a caso nella tavola degli elementi l’oro ce l’ha al fianco. Si sbriciola la roccia, la si riduce in un ghiaietto grezzo, si impasta con il mercurio che è il solo metallo liquido e si fanno dei grossi “supplì” che vengono messi su una superficie rovente, per lo più una grossa padella. Il calore attiva il mercurio che “cattura” l’oro e lo trattiene: il resto o evapora o va in sedimento separato.
E il mercurio fa anche altre cose mirabolanti: entra nell’organismo degli uomini e delle donne e a queste ultime fa partorire bambini microcefali, senza occhi, senza l’ano, con labbro leporino o dita delle mani attaccate. Nell’isola di Lombok di bambini così ce ne sono a decine, secondo Yune Eribowo, che guida una ricerca sul mercurio e altre sostanze chimiche pericolose.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’esposizione anche a una piccola quantità di mercurio può causare gravi minacce allo sviluppo uterino del feto. Il team di Yune sta conducendo test del DNA e del QI sui bambini delle scuole locali e sta provando a convincere gli abitanti a smetterla di cercare l’oro, ma non è facile. Perché noi non lo capiremo mai, ma fra morire di fame tutti e vivere con un figlio che non ha la bocca per mangiare la scelta non è poi così facile.
È solo agghiacciante.
Orrore a 24 carati.