Geniale come nessun altro. Maurizio Costanzo era la Medaglia Olimpica dell’intromissione nei dialoghi. All’improvviso fiutava l’aria, coglieva al volo lo spunto per sollevare una faccenda, creava uno show nel suo show
Fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90 e nel novero del gigantesco campionario umano che arrivò sul palco del teatro Parioli di Roma ci capitò anche non il tipo più buffo di tutti, ma di certo una delle persone che segnarono maggiormente quella fortunata stagione: Alice Cooper. Per capire cosa imparammo quella sera bisogna inquadrare il personaggio: star Usa dell’heavy metal “glam” osannata da tutti i fabbri ferrai del pianeta, campione mondiale di trasgressione e personaggio talmente truccato in volto e truce di aspetto che a paragone Ozzy Osbourne sembrava Lando Fiorini in fraschetta a Palestrina.
Ad un certo punto qualcuno fra gli ospiti (giuro, non ricordo quale ma era italiano e spocchiosamente famoso) suggerì maligno alla storica interprete di Costanzo, Olga Fernando: “Gli chieda come fa ad essere così brutto”. Accadde tutto in dodici secondi: mentre una imbarazzata Olga traduceva e la faccia del metallaro pian piano disegnava un lento sorriso saputo, Costanzo si intromise e parlò secco: “Forse lui brutto ci deve solo diventare per esigenze di spettacolo e dopo ore di trucco, forse magari certa gente invece brutta ci nasce senza bisogno di truccarsi. Brutta dentro”.
Perché amavamo il Maurizio Costanzo Show
Ospite colpito, affondato, annichilito. Dario Bellezza buonanima sua, presente per invocare il vitalizio Bacchelli, a ridere come un matto sotto il cappello. E un nuovo spunto tondo tondo, pronto ad essere sciorinato sul palco del Parioli in un talk show che piaceva esattamente per questo. Perché poteva deragliare dalla scaletta in ogni attimo secondo. E perché ammetteva tutto, anche l’ipocrisia, ma solo per il gusto di additare gli ipocriti, e farci sopra pure un signor share.
E Maurizio Costanzo esattamente questo era: prima di tutto, avanti di ogni cosa era la Medaglia Olimpica dell’intromissione nei dialoghi della sua creatura. Una specie di macchinista matto e veggente che all’improvviso fiutava l’aria, coglieva al volo lo spunto per sollevare una faccenda, dava di spalla alla motrice del convoglio che guidava e lasciava che scarrocciasse a sobbalzi su un altro binario prima dello scambio previsto.
Poi il colpo di genio: rapido come si era intromesso spariva, riaccomodava il collo nella cantera delle spalle e lasciava che il treno procedesse sul nuovo binario e con nuovi affacci dal finestrino catodico. Salvo tornare a brutalizzarlo appena si presentasse una nuova occasione.
La più grande rivoluzione in Comunicazione
Difficile pensare che un collo così corto si alzasse come quello di un mamba a sniffare l’aria intorno alle parole. Ma quello di Maurizio Costanzo era più lungo di quanto non facesse vedere il famoso spot di camicie a lui affidato. E rapido.
Con questo metodo devastante in cui il conduttore porta a governo gli argomenti di pungolo dolce ma senza la giogaia del copione, e degli armenti sente l’usta fino a parare dove l’erba è più grassa, Costanzo fu protagonista della più grande rivoluzione della comunicazione del mezzo secolo che preludeva il secondo millennio. E fu una rivoluzione agevolata di cui lui, volpone scafatissimo in faccende umane grazie al talento dell’empatia fuori copione, annusava il ricco sentore da sempre. Non a caso era stato compare di un altro bracco da gente come Gianni Boncompagni.
Perché gli italiani e le loro storie sono da sempre il materiale migliore per creare una galassia di vicende, e tipi e situazioni in cui ognuno di noi vede riflesso il suo vissuto e perfino i suoi sogni. Costanzo ci mise tutti davanti allo specchio e ci fece capire orgogliosi che anche l’Italia dei “la qualunque” aveva diritto ad una passerella con stacchetto di Bracardi. E che il signor Rossi aveva sconfitto la maledizione dell’anonimato in un Paese nato da e per i notabili fin dall’epoca di Giolitti. Quelli erano anni di darwinismo televisivo in cui uno sconosciuto poteva giocarsela al massimo nella GBR di Ania Pieroni. E la breve, splendida ma effimera stagione di Tortora con Portobello era stata pioniera ma senza il dono della “cazzimma”.
Il bardo furbo
Della tv generalista Costanzo fu bardo furbo, perché la lardellava esattamente con i tipi celebri che della sua mission erano antinomia. Ma li usava per converso e in negativo, come i fotografi studiati: dove c’era un Carmelo Bene a darsele con Vittorio Gassman o con il pubblico o con il Padreterno in persona, due sedie più in là c’era magari un geometra di Vigevano che spiegava Kant alle faraone in pollaio e le interrogava pure. O uno Stefano Nosei che fino a due sere prima aveva stornellato “Mi ricordo lasagne verdi” solo nei locali in Riviera.
Ma Costanzo i talenti li stanava come effetto collaterale del bugiardino della sua creatura. Anche se molti oggi sono ricchi grazie a lui. Gli interessavano i casi dell’uomo che aspira ai lustrini della fama ma inspira ancora il sale della fame e della terra. E in quella terra di mezzo lui arrivava e ci accendeva una luce appollaiato sullo sgabellone. Luce forte ma non fortissima, lasciando che l’intervistato decidesse lui quanta darne alle sue nudità. Ogni difetto era una meraviglia, generava uno spunto e rimetteva l’ospite sul piano di una dimensione umana che per fortuna è tutt’altro che perfetta e glassata di cerone.
Se credessimo al destino ci verrebbe facile pensare che non è stato un caso che Costanzo sia morto lo stesso giorno di un altro immenso radiologo della medietà italica: Alberto Sordi.
Perché quelli come lui, quelli come loro, ci servivano e ci serviranno sempre esattamente per questo, ed esattamente per questo vanno ringraziati: per ricordarci che sognare non è proibito ma che vivere come siamo forse è tutto quello che abbiamo.
E magari capire finalmente che non è poco. (Leggi anche La grande lezione di Maurizio Costanzo).