Vita e morte avventurosa del Cav Berlusconi

Il mito di Berlusconi. La sua rivoluzione. E la capacità di sintonizzarsi sulla pancia della gente. Ma al tempo stesso anche di dividerla

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Scrivere che Silvio Berlusconi è morto all’ospedale San Raffaele di Milano all’età di 86 anni ha il suono del fruscio della pagina di un libro che si chiude. Un libro grosso assai, che siano piaciute o meno le sue pagine quello che oggi mette la copertina a rovescio è un testo imprescindibile per capire dove è andata a parare l’Italia degli ultimi 30 anni.

E come in quei testi-scuola dalla cui lettura non si può prescindere, il libro di ciò che Berlusconi è stato ed ha fatto è roba da capitoli di sistema e paragrafi di vita. Una vita vissuta nell’assoluta autarchia del “cumenda” che tutto può. E nelle pastoie di un potere che il leader di Forza Italia ha provato a ridisegnare nei suoi fondamentali, piegandolo ad un liberismo sfacciato e ad un appeal di popolo che prese polpa dopo Tangentopoli in forma ed in sostanza, con quel Craxismo che proprio con Mani Pulite cantò da cigno.

Il fiuto del Cav per il Paese

Berlusconi con Nerio Nesi (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Dal quartiere Isola e alla laurea in giurisprudenza fino all’epos godereccio dei lavoretti in crociera la vita di Silvio Berlusconi è stata solida, tridimensionale e banalmente medio borghese. Poi tutto non è stato più come prima.

La scintilla al motore della nuova Era che sarebbe arrivata la diede la Banca Rasini dove lavorava il padre. Boom economico, fame di denaro e mistica del benessere dopo i tetri anni ‘70 fecero il resto. La nomina a Cavaliere del lavoro non fu una carica, fu un battesimo a tutti gli effetti: da allora Berlusconi sarebbe stato solo e soltanto “il Cav”. Nella Milano da bere nacque Milano 2, la sola Milano possibile in un mondo che stava demarcando la linea nettissima fra campare e vivere bene.

Berlusconi intercettò ed anticipò il flusso e ci costruì sopra un progetto grosso come un Paese. Negli anni lo avrebbe fatto sempre, fiutando l’usta di dove l’Italia stava andando a parare invece di grufolare su dove l’Italia stava già seduta. La gente che sta bene vuole un totem del suo benessere e Telemilanocavo fu l’uovo di Colombo. Berlusconi se lo comprò e gettò le basi per la corazzata Mediaset e per il suo ormeggio sicuro, la finanziaria Fininvest.

Intuizioni geniali

Silvio Berlusconi nel 1980 (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Primo step di paragrafo: sarebbe ingrato dire che Berlusconi ebbe dalla sua solo il vento di una storia concimata e di una politica amica. Le sue furono le intuizioni di un genio assoluto del consenso cavato via dai cuori con il miele dei nuovi mezzi di quegli anni bucanieri. Da allora ogni sua azione e decisione divenne un frattale di denaro, che portò potere e prestigio e lo fece decantare nel limbo buono di quelli che dal fango della politica “di prima” non erano stato toccati. Editoria, calcio, banche, assicurazioni e mattone, tanto mattone, brado ed impunito. Telemilano divenne Canale 5 e presto arrivarono anche Rete Quattro e Italia Uno.

Era nata la Trimurti della leggerezza a mezzo slogan, delle orecchie del Paese messe nella sua pancia, delle urne usate forse come mai prima per cambiare le cose e del Supremo Imbonimento. Prima di cadere sotto la scure del pool, Bettino Craxi fece in tempo a spezzare il monopolio della Rai ed a consegnare Berlusconi al trampolino di lancio di una Storia che si faceva sugli schermi, non più sui libri. Poi il razzo partì e lo fece proprio con il carburante paradossale della novità assoluta dopo la marea nera di Mani Pulite che aveva sfiduciato gli italiani verso la “vecchia politica”.

All’inizio Berlusconi non fu un nuovo coatto, fu la novità vera che tutti in cuor loro attendevano: era light, piacione, donnaioli impenitente, battutista goffo ma empatico, attento a cogliere gli umori, ricco da far schifo ma pop, perciò ricco perdonato. Con la legge Mammì la Rai divenne un colosso con l’artrite e Mediaset un ghepardo con le paillettes di Colpo Grosso e i siparietti di Sandra e Raimondo.

Il Partito Azienda

Silvio Berlusconi nel ’94 con Antonio Tajani (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Lo spauracchio del varco lasciato al comunismo dopo una stagione giudiziaria possente ma intermittente funzionò alla grande. È quando Berlusconi scese in campo dicendo “l’Italia è il Paese che amo”, trovò esattamente quello: un Paese che era pronto ad accettare quell’amore e ad amare lui e ciò che rappresentava.

Nel 1994 nasce il Partito-azienda con il nume più mainstream di sempre: “Forza Italia”. Ci vanno a confluire tutti, in quell’imbuto dal bordo larghissimo: manager, giornalisti, intellettuali liberali e conservatori, politici riciclati e superstiti con le stimmate di un riflusso garantista che già covava. Servivano alleati d’area e Berlusconi fece il suo capolavoro di strategia: al Nord mise in pista la Lega arcigna di Umberto Bossi ed al Centro titillò la vanità governista di Gianfranco Fini con Alleanza nazionale. Vinsero tutti e stravinse lui, uomo mastice, Veltro, sacerdote dell’effimero e imprenditore con uscite spesso sopra le righe gli gli calamitavano addosso amore e voti, di massaie, ceto medio e perfino scampoli di proletariato morente.

Da allora i tempi al passato muoiono, si vive sol di presente in chiaro scuro e futuro rigorosamente rosero. Perché tanto deve ancora venire ed un venditore su quello gioca, se è bravo. Berlusconi come venditore è il più bravo di tutti e si vede.

Toghe amare e amici mondiali

Silvio Berlusconi al processo Mediatrade

Quel suo modo picaresco di agire e far leva suo meccanismo delle sue strade mette il Cav al centro dell’altro grande capitolo del libro della sua esistenza: il rapporto con la magistratura. Un po’ martire, un po’ guitto, un po’ violatore di norme, Berlusconi era sempre e solo colui che la Legge la considerava sacra fin quando la sua sacralità non cozzava con la sua visione dei sistemi complessi. Non la violò mai come fanno i banditi, ma come fanno quelli che in cuor loro ritengono che violare una legge ingiusta è giusto e cambiarla per farla diventare giusta è sacrosanto.

Ma commise di fatto reati e, quelli, presunti o cassati che fossero, divennero la sua croce. Dopo il quasi 50% del 2001 Berlusconi diventa premier di nuovo e studia da statista, ma lo fa col piglio del “cumenda” che dei Grandi vuole intercettare le debolezze e le peculiarità umane, ma non vuole metterle a regime di sistema con i Paesi: vuole fare la storia anche dove farla obbliga a conoscerne il Respiro Planetario. Il più lungo governo della storia dell’Italia repubblicana è un monumento agile e plastico ad un conservatorismo liberal un po’ sfacciato, un po’ corroborato dalle bussole mondiali.

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin (Foto Scarpiello © Imagoeconomica)

Quel Cav là diventa amico di Putin, fa cucù ai summit internazionali, fa le corna nelle foto ufficiali, si fa riprendere dalla Regine perché urla e chiama la Merkel “culona inchiavabile” e kapò un esponente Ue. Ma sa parlare alla pancia del Paese e lo fa come nessun altro prima di lui nell’Italia Repubblicana.

L’archetipo del terzo millennio

La sua rivoluzione di cerone, partita con un calza davanti ad una telecamera per creare l’effetto “mat”, trova l’ostacolo della stagnazione economica che scalfisce il suo progetto ma ormai è fatta. Nei primi anni del terzo millennio Berlusconi è l’archetipo del leader politico con solide ed equivoche maniglie imprenditoriali e finanziarie. Che riesce ad essere chiaro con la banalità pubblicistica che l’Italia sa di dovere un po’ amare, un po temere.

Il Cav polarizza i giudizi e attorno a lui ci sono solo seguaci o nemici, niente zone grigie, al più alleati interessati. E’ un nume senza l’etica austera dell’Italia giolittiana e quella libertà, nel suo modo di vedere e pensare se stesso, lo rende degno solo di osanna o ukase, poco da fare.

Foto: Paolo Cerroni / Imagoeconomica

La leva con cui Berlusconi scrive la sua Storia e ci sovrappone quella del Paese è la guerra alle tasse. In una nazione dove l’Erario è visto come un drago affamato che non restituisce servizi ma solo rutti compiaciuti di boria alla Marchese del Grillo la sua è la Ricetta perfetta. Il suo rapporto con politica decisionale e magistratura, cioè di potenziale oggetto delle attenzioni delle toghe e di manovratore degli ambiti su cui le toghe devono poi agire, fa nascere e resistere il claim del conflitto di interessi e delle leggi ad personam. Non lo abbandonerà mai più.

La sconfitta del 2006 fa da preludio ad una nuova vittoria nel 2008. Ma la recessione è in agguato e dagli Usa arriva un tornado finanziario che, con un’Europa mezza complice, lo spazza via in maniera ignominiosa a suon di “spread”. Nel 2011 la Lega scava il tranello, sbatte il Cav a terra ed apre le porte al governo tecnico di “lacrime e sangue” di Mario Monti.

L’Altra Italia di Ottaviani e la fine di una stagione

Berlusconi alla convention di Fiuggi

Il Partito di Berlusconi è Berlusconi e basta, non ci sono delfini, non ci son linee di successione, allievi allevati e non ci sono (ancora) correnti, perciò il declino del “capo” segna quello, progressivo, di Forza Italia. Ciò che accade in provincia di Frosinone è emblematico: la base chiede di ‘aprire‘ il Partito, renderlo scalabile.

Il più realista è l’allora sindaco di Frosinone Nicola Ottaviani che propone la creazione di un Partito parallelo, aperto ai sindaci ed agli amministratori; calato sui territori, in prima linea con gli elettori, da far marciare accanto al Partito che si occupa della politica nazionale. C’è pure il nome: l’Altra Italia. In un primo momento Berlusconi dice si ed Antonio Tajani mette in moto tutto il circo mediatico: a Milano lancia l’esca, l’indomani a Frosinone è previsto l’annuncio. Ma poche ore prima arriva l’ordine “macchine indietro tutta” .

È il via alla diaspora. Tutti hanno chiaro che Forza Italia sarà per sempre il Partito Azienda che è sempre stato. E allora iniziano a fare le valigie. Ottaviani tiene un intervento infuocato alla convention fiuggina di Antonio Tajani e sale sul palco della Lega. L’ex presidente del consiglio regionale del Lazio Mario Abbruzzese ed il coordinatore provinciale Pasquale Ciacciarelli si staccano e vanno con Giovanni Toti portandosi due terzi dei voti. Si congeda il capogruppo comunale di Frosinone Danilo Magliocchetti. Saluta con garbo il parlamentare europeo Alfredo Pallone. Il segnale di quanto sia profonda la crisi lo fornisce la partenza di Antonello Iannarilli che chiudendo la porta dice “Io a Berlusconi devo tutto”.

Da Mazziere a Padre nobile

Il presidente della Repubblica con i leader del centrodestra

Diaspore, sovranismi di pancia e l’imminente marea del populismo del Movimento Cinquestelle preludono al sorpasso del 2018, quando Berlusconi si ritrova Matteo Salvini prima con la freccia a destra e poi davanti.

Il Cav non sa cosa significhi morire politicamente ed è ancora un forziere di voti, denaro e potere. Perciò passa dalla posizione di mazziere a quella di Padre Nobile, quello che investe i leader e che incastra le mosse in scacchiera. Nel 2013 le toghe gli presentano il conto (procedurale, non etico) e arriva la condanna definitiva. L’immagine di Silvio Berlusconi a Cesano Boscone, decaduto come senatore, a fare lavori socialmente utili è il vero epitaffio di un’epoca in grembo alla quale stavano già nascendo i nuovi protagonisti della politica.

Ma il Cav aveva deciso di morire politicamente solo quando fosse morto sul serio, e ci è tutto sommato riuscito benissimo. Ed ha calato, negli ultimi anni, ancora molte briscole. A volte briscole geriatriche e sconclusionate, altre assi fulgidi di un pensiero politico da autarca che non voleva andarsene. Non prima di consegnarsi alla Storia, magari passando per il Quirinale.

La parentesi finale

Foto © Imagoeconomica

Gli va male, ma da Villa San Martino Berlusconi è riuscito ancora a dare input, a tenere coi denti una centralità che stava tutta nel suo prodigioso arco esistenziale a cui ha dato nuovo nerbo il ritorno in Senato.

Poi è successa una cosa che il Cav aveva pensato ma non pesato: l’età e ciò che da essa consegue per chi è da sempre solo al comando avevano avvisato che il tempo di lasciare impronte digitali sull’Italia com’è oggi stava finendo.

Il Cav, l’uomo che ci ha fatto credere che tutti hanno diritto a sorridere e che lo Stato può essere dentista, il leader che ha agitato lo spauracchio del comunismo anche quando quello spauracchio era esso stesso roba cuneiforme, si è arreso gradualmente ad un nemico a cui non ha potuto opporre le sue guasconate concrete.

E di fronte alla morte, e solo di fronte ad essa, Berlusconi si è arreso dopo aver cambiato, piaccia o meno, la nostra vita. In meglio o in peggio, dipende da quale curva dello stadio si assiste alla partita. Perché in 30 anni più della metà degli italiani gli ha sempre creduto, e non sol perché siamo creduloni, ma perché in molte delle cose che Berlusconi diceva credere non era affatto sbagliato. E l’altra metà era troppo anti berlusconiana per poterlo ammettere.