Europa e gli europei (e l’arte di insultare)

Cosa ci insegnano gli Europei sull'Europa. Che forse qualcosa potevamo farla meglio. Il paradosso dei giornali di oggi: in alto la foto con i tifosi ungheresi che si abbracciano, in basso il nostro dibattito sulla proroga dello stato di emergenza

Franco Fiorito

Ulisse della Politica

Europa nella mitologia era la bella figlia di Agenore. Zeus si innamorò di lei, osservandola su una spiaggia insieme a delle ancelle con le quali raccoglieva dei fiori e per averla ordinò ad Ermes di guidare i buoi del padre di Europa verso quella spiaggia. Poi assunse le sembianze di un toro bianco e le si avvicinò per distendersi ai suoi piedi.

Europa salì sul dorso del toro, impressionata dalla sua mansuetudine e questi la rapì e la portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Zeus rivelò quindi la sua vera identità e tentò di usarle violenza, ma lei resistette. Il dio si trasformò in aquila e riuscì a sopraffarla in un bosco di salici o, secondo altri, sotto un platano sempre verde.

Il Ratto di Europa – Beirut – III sec d.C.

Zeus fece a Europa i doni del Talo un gigante di bronzo, di Laelaps un cane tanto veloce che nessuna preda riusciva a sfuggirgli e di un giavellotto che non sbagliava mai il bersaglio. Successivamente ricreò la forma del toro bianco nelle stelle che compongono la Costellazione del Toro.

Europa, sposò poi il re di Creta Asterio e divenne la prima regina dell’isola greca. Per estensione da allora venne individuata come Europa tutto il territorio al di sopra di Creta o meglio del mar Mediterraneo.

Questione di punti di vista

I miti greci fanno parte del nostro patrimonio culturale per la loro bellezza e gli insegnamenti che spesso possiamo trarne. Nel corso dei secoli i più svariati artisti hanno rappresentato questi miti nelle loro opere d’arte, capolavori di un rilievo eccezionale che ancora oggi noi tutti ammiriamo.

Uno dei miti rappresentati da artisti di grandissimo spessore è proprio quello del ratto di Europa. Su questo si sono cimentati con diverse sensibilità Tiziano, Rubens, Rembrandt, Guido Reni, Tiepolo fino a Goya

Il dipinto di Tiziano è tra i primi, Europa è impaurita, cerca in tutti i modi di liberarsi del toro, senza però riuscirci. Quello che ne traspare, in generale, è un forte drammaticità.  Ma qualche lustro dopo il Veronese cimentandosi sullo stesso soggetto crea un opera molto differente che ancora oggi si può ammirare nel Palazzo Ducale di Venezia.

Il Ratto di Europa – Olio su tela – 1580 – Veronese

La prima cose che si nota è il clima totalmente sereno che si respira nel dipinto del Veronese. Europa è seduta sul toro che le bacia teneramente un piede mentre le sue ancelle la sostengono e la ornano di fiori regalati loro da dei piccoli cupidi che volano al di sopra delle loro teste. In lontananza, sulla destra, vi sono poi raffigurate le scene successive a quella in primo piano: Europa e il toro che si dirigono verso il mare, il momento in cui raggiungono l’acqua, il saluto alle ancelle e l’allontanamento.

La calma e la gioia che traspaiono da quest’opera e la molteplicità di scene in una sola tela sono i quanto più lontano poteva esserci dal clima angoscioso che aveva creato Tiziano.

Di una cinquantina di anni dopo è il dipinto di Rembrandt il pittore olandese si ispirò al mito narrato nelle Metamorfosi di Ovidio: Europa, rapita dal toro bianco, si gira verso le sue ancelle per chiedere aiuto, disperata. Le ancelle, rimaste sulla riva, sono in preda al panico, evidente soprattutto nella ragazza accovacciata per terra che alza le braccia urlante. Poco più dietro si possono scorgere dei passanti che, catturati dalle urla, si voltano per osservare esterrefatti la scena. Il paesaggio è cupo, quasi come se si stia per abbattere una nube temporalesca sui personaggi protagonisti della scena.

Il dipinto di Rembrandt per l’angoscia che trasmette è più vicino all’atmosfera che ha creato Tiziano piuttosto che a quella serena riprodotta dal Veronese.

Tre grandi maestri che rappresentano magistralmente uno stesso mito, ognuno con le peculiarità che contraddistinguono la propria provenienza, la propria formazione e il modo assolutamente soggettivo di sentire la vita.

Dunque neanche la storia o i grandi artisti hanno saputo risolvere il dilemma se il mito dell’Europa nasca da una sopraffazione o da un amore puro ed una comunità di intenti. Sarà per questo che ancora oggi l’identità di questa Europa stenta ad essere definita tra chi la considera un imposizione o chi la vede come una scelta naturale.

Europa e gli Europei?

Europei 2021

E questa stessa confusione molto più prosaicamente l’abbiamo avvertita negli Europei di calcio in pieno svolgimento in questi giorni, in cui il dio moderno del calcio, sopraffatto dal covid al pari di Europa con l’albino bovino, ha creato una manifestazione splendidamente ibrida che vede  non una singola sede ma le partite distribuite in molteplici città europee.

Ed è così che la religione laica del calcio ci mostra quello che finora obnubilati dalla retorica della pandemia e dalle propagande non si era riusciti ancora a vedere. Un quadro complessivo della vecchia Europa in cui ogni giorno vediamo uno stadio ed una nazione diversa cimentarsi nel prestigioso torneo.

E scoloriscono tutti i dibattiti che per mesi ci hanno assillato su chi avesse gestito meglio l’emergenza, su quali strategie fossero più efficaci su quali vaccini fossero più idonei. Legioni di scienziati, opinionisti, virologi d’accatto titolati o improvvisati tali, orde di politici dotati di certezze multiple e variabili scompaiono davanti alla dura verità. Quella che vedi che puoi constatare senza ombra di dubbio

E gli stadi, moderne arene, diventano la plastica rappresentazione di ciascuna nazione. Alcuni zeppi come un uovo di tifosi festanti, altri con i pubblici tristemente contingentati e distanziati. La rappresentazione materiale delle scelte giuste o sbagliate dei vari governi verrebbe da dedurre.

La mitica piccola Ungheria

Il ct dell’Ungheria, Marco Rossi

A volte il calcio o lo sport in  generale regala momenti di poesia, di letteratura. E come chi biblicamente tifava con Davide contro Golia ho guardato, tifando, la piccola Ungheria combattere contro la corazzata campione del mondo Francia la partita di ieri. Con l’Ungheria addirittura in vantaggio per poi essere raggiunta per il pareggio finale dai transalpini.

E come molti ho esultato al goal dei magiari festeggiando sul mio comodo divano davanti ad una tv che mostrava il marcatore che correva felice sotto la curva dello stadio. Uno stadio gremito in ogni ordine di posti, come si diceva nelle telecronache di una volta, riempito da più di sessantamila persone che urlavano e si abbracciavano senza mascherina e protezione alcuna.

E a nessuno è potuta sfuggire l’immagine dell’Italia che pur dominando col bel gioco il suo girone è ancora costretta, come se fosse una straordinaria concessione del Governo, a giocare col pubblico contingentato.

Il boato dello stadio di Budapest, la gioia e la profonda normalità di quell’immagine contrastava così tanto con i nostri poveri tifosi costretti ancora a metri di distanza. Che ai gol mimavano abbracci e si salutavano a da lontano. Il rumore delle voci dei giocatori e dei colpi del pallone che risuonavano ancora come negli stadi mezzi vuoti dell’epoca covid. E le esultanze ai goal che si sentivano nitide come nei campetti di eccellenza dove la voce del pubblico non copre per potenza quella dei giocatori in campo.

Il boato dello stadio ungherese è infatti simbolico molto più dei proclami dei governanti. Non siamo forse nella stessa Europa? Non avremmo dunque dovuto seguire le stesse regole? E non dovremmo allora essere tutti nelle stesse condizioni? No.

L’immagine chiara e nitida di questi europei è questa. Nazioni festanti con il pubblico gioioso e senza mascherine e nazioni tristi ancora imbacuccate e distanziate impossibilitate anche a godere del massimo piacere nazionale un goal dell’Italia.

Il paradigma Euro Ungherese

Didier Deschamps Foto: William Morice photographies

E su questo contrastante quadretto franco ungherese ho ricamato qualche sfogo personale ed un piccolo paradigma.

A parte che gli ungheresi sono allenati da un italiano. Il simpatico Marco Rossi, quasi commosso all’impresa in conferenza stampa. Uno che in Italia non facevano allenare manco in serie C che si è costruito una carriera in Europa e ieri si è permesso di mettere paura alla nazionale Campione del Mondo. A parte che gli ungheresi seppur orizzontale sfoggiano un bellissimo tricolore.

Ma a me stanno sul piffero i francesi. Non la Francia intendiamoci che trovo una nazione meravigliosa. Ma proprio i francesi. E mi guardavo Deschamps, l’allenatore, bofonchiare frasi di circostanza col piglio tutto transalpino di fare quei gesti con la faccia alzando le sopracciglia e mettendo la bocca a culo di gallina quasi sbuffando ad ogni frase. Diceva praticamente che loro avevano dominato e che l’Ungheria aveva avuto solo fortuna. E io dal divano pensavo te la sei vista brutta eh? Grandissimo fagiano.

Ma non crediate sia solo io. Il pregiudizio contro i francesi o francofobia o misogallismo è una forma di pregiudizio, in alcuni casi di xenofobia, contro il governo, la cultura, la storia o il popolo della Francia diffusissima. E per colpa loro aggiungo. Sono secoli che li sopportiamo. Basterebbe vedere come questo sentimento si manifesta in opere come le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo e più tardi nella tragedia l’Adelchi di Alessandro Manzoni.

Il Misogallo e l’arte dell’insulto

La testata di Zidane a Materazzi

Ma il letterato più ostile alla Francia che la cultura italiana ricordi è senza dubbio Vittorio Alfieri che pubblicò addirittura un libello intitolato “Il Misogallo” ove stigmatizza in ogni suo aspetto la cultura e il popolo francese.

Ah il Misogallo che capolavoro. Lo introdurrei come insegnamento obbligatorio nelle scuole.

C’è chi ci è andato anche più pesante. Arthur Schopenhauer ne L’arte di insultare, altro capolavoro, scriveva: «Le altre parti del mondo hanno le scimmie; l’Europa ha i francesi. La cosa si compensa». Forse troppo duro. Come lo erano le invettive, gli sfottò e gli insulti negli stadi. Ma così mosci e distanziati ci hanno tolto anche questo piccolo sfogo. Pensate la testata di Zidane a Materazzi senza pubblico che mosceria sarebbe stata.

L’insulto è un genere al quale tutti noi, anche le nature più impassibili, finiamo prima o poi per ricorrere, trascinati da inevitabili circostanze della vita. Ma, al pari della scherma o di qualsiasi altra tecnica di attacco e difesa, l’insulto, per risultare efficace e raggiungere il suo scopo, deve diventare oggetto di studio. Benché di solito lo si associ alla rozzezza e alla collericità, saper lanciare all’indirizzo altrui l’ingiuria, l’invettiva o l’improperio adatti, scientificamente studiati, implica infatti una vera e propria arte.

Ed in questo L’arte di Insultare di Schopenauer è illuminante. Non una trattazione astratta dell’insulto in tutte le sue forme e varianti, ma una silloge di ingiurie concretamente proferite e scagliate con categorica impertinenza contro tutto e contro tutti: la società, il popolo, le istituzioni, le donne, l’amore, il sesso, il matrimonio, i colleghi, il genere umano, la storia, la vita – insomma: contro il mondo intero. Un’arte di insultare, dunque, che ci viene insegnata come nelle antiche scuole si insegnava l’etica: non con la teoria ma con l’esempio e la pratica. E quale scuola migliore per formarsi all’insulto del calcio e degli stadi nella nostra nazione.

E mentre vedevo gli ungheresi scatenarsi abbracciati ed urlanti mi tornavano in mente i tifosi italiani festeggiare con quei sorrisetti distanziati le bandierine tricolore di plastica in mano, i cappellini e le parrucche. Che tristezza.

Fuori dal calcio è peggio

Angela Merkel (Foto ZumaPress Inc)

Fuori dal calcio però la situazione è ancora più ridicola. L’Ungheria che diversamente da noi se ne è fregata della Merkel e dei dettami europei si è acquistata diversi tipi di vaccini da tutte le case. Compreso il famigerato sputnik russo. Ha promosso le cure domiciliari e quelle alternative al vaccino ed oggi mentre noi stiamo qui a guardare il lugubre ministro Speranza ancora sproloquiare sui cocktail di vaccini e sull’obbligo di mascherina da soli all’aperto gli ungheresi sono tornati ad una vita normale col covid praticamente sconfitto. E con loro diversi paesi europei.

Ma non viviamo dunque nella stessa Europa? Si. Ed allora qualche conclusione la dobbiamo tirare. E dire che abbiamo sbagliato molto e spesso. Con l’aggravante che nazioni che i media nazionali definivano cretine ed irresponsabili come l’Inghilterra, la Russia e l’Ungheria oggi sono anni luce avanti a noi ed evidentemente era più cretino ed in malafede chi le criticava per partito preso.

Tanto che finita la partita cambi canale e vedi che il dibattito da noi è sulla proroga dello stato di emergenza. Con dichiarazioni tanto ridicole che hanno necessitato addirittura l’intervento di Draghi. Che giustamente, come ha sostenuto anche il costituzionalista Sabino Cassese, ricorda che non si può parlare di proroga un mese e mezzo prima della scadenza senza sapere come saranno le condizioni effettive sanitarie allo scadere dell’emergenza a fine luglio.

Ti sembra di vivere in un altro mondo. Ormai è chiaro a tutti che lo stato di emergenza sia una richiesta esclusivamente politica e non sanitaria

Lo stato di emergenza

La conferenza stampa di Mario Draghi e Roberto Speranza (Foto: Livio Anticoli / Imagoeconomica)

Lo stato di emergenza è stato deliberato per la prima volta dal Consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020. C’era il governo Conte. Di proroga in proroga si è arrivati fino al 31 luglio 2021. La durata dello stato di emergenza nazionale, non può superare i 12 mesi. È prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi. Con lo stato di emergenza si possono attuare interventi speciali con ordinanze in deroga alle disposizioni di legge, rispettando i principi generali dell’ordinamento giuridico.

I poteri dello stato d’emergenza. Quelli con cui hanno proliferato i Conte e gli Arcuri con le mascherine a peso d’oro, le primule appassite e i banchi a rotelle senza alcun risultato sanitario apprezzabile.

Un dibattito solo di potere slegato da qualsiasi dato socio sanitario e completamente avulso dalla realtà europea che ci circonda.

Tanto che se oggi apri i giornali puoi vedere a fianco tifosi europei festeggiare uno vicino l’altro senza mascherina e leggere a pie della stessa pagina che nella nostra nazione si fanno i Tso, i trattamenti sanitari obbligatori, a chi non vuole indossare la mascherina. Un contrasto violento, assurdo e che stride fortemente con qualsiasi logica.

È per questo che se non lo avete ancora procuratevi una copia de L’arte di Insultare di Shopenauer, vi consiglio l’edizione Adelphi con la traduzione di Franco Volpi, mettetela sul comodino e tenetela in bella vista perché è sicuro che tra breve vi sarà utile sicuramente.

(Leggi qui tutti i corsivi di Franco Fiorito).