Quando Aldo Moro passeggiava sulla spiaggia di Terracina

Quando Aldo Moro passeggiava sulle spiagge di Terracina. Istantanea di un tempo e di un'Italia che è finita con l'attentato di via Fani. Ma che ha saputo dire no al terrorismo. Anche se non la pensava come Moro

Lidano Grassucci

Direttore Responsabile di Fatto a Latina

Aldo Moro passeggiava sul lungomare di Terracina tra luglio ed agosto. Senza scorta senza niente, io “villeggiavo” lì con zia Maria, Zia Marcella e mia cugina Nerina. Lui camminava con una sorta di mutandoni, oggi improbabili, e a petto nudo, passava e la gente mormorava “vedi Moro?”.
Nessuno osava avvicinarsi, chiedergli qualcosa, camminava solo nei suoi pensieri. Intorno c’era un alone di prestigio. Io non capivo, ma mi pareva fosse uno importante, tanto erano importanti i sottovoce.
Il Paese era ricco da poco, il paese aveva speranze che si potevano realizzare da molto poco.
In quel tempo gli uomini a 40 anni erano vecchi signori, oggi sono ragazzi. Nessuno inveiva, nessuno ossequiava, tutti pensavano che quel signore aveva qualcosa in piu’, un pensiero, dei valori, una storia. Immaginate oggi quel passo per Renzi, Di Maio o Salvini, o fate voi.
Poi il tempo mi fece grande, adulto, e di quel ricordo ricordo la cosa, in bianco e nero, perché scelsi altro, venivo da un mondo lontano dalla “indifferenza democristiana”, dal bisogno di un popolo di difendere la propria chiesa. Non capivo mai l’assurdo di “parallele che convergono”, non capivo perché cattolici e comunisti dovessero parlarsi, per cosa?
Credevo che le articolazioni, le differenze, la dialettica erano presupposto per cambiare, la palude condizione per restare uguali, uguali nella mediocrità.
Non capivo Moro, e non lo capisco oggi. Credo anzi che quel cattolicesimo che fa finta di “capire” un male sociale che non gli appartiene sia una delle ragioni del pensiero debole nell’odierno Pd. Ma non ho mai sentito il bisogno di capirlo, non mi appartiene, non mi apparterrà mai.
Ma lui il 16 marzo, dal 16 marzo del 1978, divenne altro. Divenne un simbolo di un delirio, di un limite, di una paura. Il simbolo di una fine, perché prima noi ragazzi di allora (avevo 17 anni) pensavamo che la felicità potesse essere un diritto quando i nostri genitori chiedevano il “diritto alla fatica”. Noi pensammo che la fantasia sarebbe stata capace di far sbocciare 1000 fiori, belli perché erano belli e non perché commestibili. Conoscemmo le rose quando eravamo cresciuti a fiori di zucca fritti.
Chiedevamo che le ragioni non dovevano uccidere le emozioni, e rivendicavamo le emozioni, le poesie maledette o amate ma erano come il pane. Il pane e le rose erano il nostro orizzonte, rivendicavamo anche per noi la bellezza.
Chiedevano tempo, tempo per l’ozio, per la filosofia, per l’amore ed amare era generoso non esclusivo. Ci avevano imposto un unico Dio, un unico amore, un certo dolore infinito e altrettanto unico. Le donne erano vecchie a 30 anni, nonne a 40, e in lutto sempre. Noi cercavamo i colori, la passione che era l’unico lasciapassare per questa vita che già ci avevano organizzato tutta di nero vestita.
Ma quell’offesa a Moro come uomo, non come democristiano, quei ragazzi della scorta uccisi perchè chi li uccise non li immagino neanche per un attimo umani, era l’inizio della mediocrità presente.
Sporcarono di sangue le rose, la droga fece il resto. Da quel momento il potere divenne disumano, le persone videro morire il rispetto.
Non capimmo, allora, che quell’uomo che passeggiava solo nella bellezza del lungomare di Terracina era bersaglio e non piu’ umano, che sarebbero arrivate le scorte, la rabbia, la bestemmia senza capire il credo. Rapirono Moro per rapire la nostra ingenuità, ucciserò la scorta per negare che eravamo umani davanti ai nostri errori, e non mostri in cerca di orrori.
Finì così fino ad ora, fino alla politica per lotteria, alla insensibilità di generazioni senza bambini.
Io ho visto Moro passeggiare tra la gente al mare, io ho sognato rivoluzioni impossibili da fare.
Ora siamo soli, monadi senza sogni e non ci sono più le rose.