Internazionale, i protagonisti della XXXIV settimana MMXXII

I protagonisti della XXXIV settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XXXIV settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP

FALSE FLAG

Darya Dugina

Quando si trattano certi argomenti è bene cominciare con un preambolo grosso così: il giornalismo, anche quello di approfondimento e con mire “d’essai“, non sposa mai del tutto le ipotesi. Semplicemente dice che quelle ipotesi sono in campo e che qualcuno che nel sistema complesso in cui quelle ipotesi circolano ha titoli e rotelle a posto per farle circolare. I titoli e le rotelle in questione sono quelli di un report indipendente che fonti accreditate rimandano al lavoro dei servizi della Lituania. 

La domanda di base è: chi ha ucciso Darya Dugina, figlia dell’ideologo o presunto tale di Vladimir Putin? Messa meglio sarebbe: chi voleva far saltare in aria una figura considerata molto vicina a Putin ma non tanto da essere considerato uno del suo pragmatico e blindato “cerchio magico” e per un tragico scambio di ruoli poi ha ucciso sua figlia? La risposta del report chiama in campo l’ipotesi “false flag

C’è la possibilità insomma che nell’attribuzione di quell’attentato si sia giocato un po’ a confondere le acque e che lo si sia fatto con uno scopo preciso. Si, ma quale? C’è una chiave di lettura: poche settimane fa un gruppo di deputati della Duma dell’ala oltranzista ha presentato un disegno di legge sul riconoscimento dell’Ucraina come Stato terrorista e la confisca dei beni dei suoi cittadini a favore di Mosca. Il Dl porta la firma del partito di centro sinistra Russia Giusta

Il retroterra necessario
Darya Dugina in una delle ultime foto con il padre

Ma per far “digerire” una legge così draconiana perfino per gli eccessivi russi c’era bisogno di un retroterra di indignazione contro Kiev. Che in Russia è sempre stato carente. Lo è sempre stato perché sarà anche vero che russi ed ucraini sono in guerra e che “si odiano” per ataviche ragioni geopolitiche, ma è anche vero che i secondi stanno subendo una guerra unidirezionale che li rende più vittime asserragliate a difesa che offender assetati di sangue innocente.

Insomma, gli ucraini ai russi, alla società russa, alle strutture russe ed all’orgoglio russo dal 24 febbraio non è che poi abbiano dato tutte queste spallate. Perciò per creare il clima giusto di indignazione e dare birra ai palpiti legiferativi contro Kiev bisognava colpire qualcuno che fosse: ideologicamente seduto sul divano dell’euroasiatismo spinto, stimato da Putin e non poi così vicino allo “zar” da essere super protetto e inaccessibile come target. Alexander Dugin era perfetto per creare questo effetto “false flag”, additare l’Ucraina come biecamente belligerante con modalità terroristiche su suolo russo ed innescare legiferati in patria e strategie sul campo che fossero “upgrade” rispetto alla condotta attuale già truce della guerra.

Perciò, dice il report con una certa cognizione di causa poco complottarda e molto plausibile, gli assassini della figlia di Alexander Dugin in tasca hanno il passaporto con l’aquila bicipite e le scritte in cirillico.

Se è un romanzo è verista.

MPV

Il Mapping Police Violence è un database che parte da un presupposto cercando di non cadere mai nel trappolone del preconcetto: le forze di polizia devono considerare la risposta armata agli stimoli deviati della società come una soluzione estrema e da applicare in circostanze specifiche. La questione è nota, nota e spinosa, perché chiama in causa due concetti egualmente validi: da un lato il diritto di un poliziotto di proteggere se stesso e l’istituzione che rappresenta in una società in cui la violenza è sempre più condotta dominante e le armi ai civili farcitura intoccabile. Dall’altro: la facilità con cui questa sacrosanta condotta diventa abuso.

Insomma, bisogna partire sempre dal presupposto che fare il poliziotto è molto più che giocare a fare il poliziotto. E ci sono situazioni in cui chi ne sta fuori ha giudizio facile e cognizione di causa zero. Tuttavia l’analisi di Mapping Police Violence, anche a fare questa sacrosanta tara, ha disegnato un quadro quanto meno inquietante delle divise che negli Usa dovrebbero “servire e proteggere“. Sostiene che gli agenti di polizia statunitensi hanno ucciso più persone nei primi sette mesi del 2022 rispetto a qualsiasi altro anno registrato in precedenza. 

A fare la somma di tutti i dipartimenti, gli uffici, i Marshall team e le pertinenze delle squadre tattiche la polizia degli Usa quest’anno finora hanno già ucciso oltre 700 personeMPV spiega che a voler seguire il trend statistico gli agenti stelle e strisce “sono in procinto di uccidere più persone quest’anno che in qualsiasi anno“. Si ma da quando? Da quando Mapping mappa la faccenda ed ha iniziato a monitorare le uccisioni della polizia, cioè dal 2013. 

La riforma dimenticata
Ritratto di George Floyd realizzato da Peyton Scott Russell nella East 38th Street and Chicago Avenue in Minneapolis, Minnesota (Foto © Lorie Shaull)

Il caso George Floyd aveva rimesso in piedi la vecchia ed irrisolta questione di una radicale riforma dei Dipartimenti di Polizia. Ma nonostante la spinta di attivisti e politici allineati per tagliare i budget, riformare gli standard di formazione, creare dei dipartimenti di pubblica sicurezza meno “pistoleri” tutto è ancora fermo. Il report dice che finora negli Usa ci sono stati solo otto giorni in cui consecutivamente su tutto il territorio nazionale la polizia Usa non ha ammazzato nessuno

Ovvio che questi dati vanno contestualizzati ad un Paese enorme, federale e fatto di oltre 50 realtà nazionali con aberrazioni sociali massive e specifiche per ognuno, tuttavia quei numeri restano a gravare. Dal 2013, il database ha rilevato che i neri hanno “tre volte più probabilità di essere uccisi dalla polizia rispetto ai bianchi“, mentre “la polizia uccide i neri a un tasso più alto rispetto ai bianchi in 48 delle 50 città più grandi del paese“. 

Insomma, se non c’è già da agire ci sarebbe quanto meno da riflettere, ma negli Usa parlare di armi e del loro utilizzo significa toccare un totem costituzionale, e Mapping Police Violence ha avuto quanto meno il merito di aver mestato nel fango.

Mappare per risolvere.

DOWN

TSAI ING-WEN

Il presidente Tsai Ing-wen (Foto: Office of the President, Republic of China Taiwan)

Tsai Ing-wen ha vissuto per anni in una casa modesta assieme ad altri 10 fratelli, perciò di come si sedano le liti dovrebbe saperne qualcosa per battage esistenziale molto più di quanto non sappiano altri governanti nati in culle di seta e cresciuti a merendine golose con tate affezionate più delle mamme. Dalla sua infanzia fino ad oggi lei ha fatto tanta strada fino all’11 gennaio del 2020. 

E’ stato allora che i cittadini taiwanesi hanno votato per eleggere il loro presidente e definire la composizione dello Yuan legislativo, il parlamento di Taipei. Ed hanno scelto lei, per la seconda volta e con il 57,1% dei consensi. La presidentessa di Taiwan non ha mai nascosto la sua linea, che è dura contro Pechino e morbidissima contro chiunque metta Pechino in spunta di antagonismo geopolitico.

Certo, Tsai è una politica e come tutte le politiche sa andare in deroga sfumata dai suoi principi. Come quando nel 2016 telefonò al presidente Usa Donald Trump e fece di fatto la prima chiamata tra un presidente taiwanese e il presidente eletto degli Stati Uniti dal 1979. Trump non era e non è propriamente un “nemico giurato” della Cina, ma è pur un sempre uno yankee di massimo rango. 

L’occasione perduta
Tsai Ing-wen (Foto: Office of the President, Republic of China Taiwan)

Tutto questo per dire che la presidentessa di Taiwan forse ha perso un’occasione ottima per essere ricordata come colei che, all’escalation con Pechino di queste settimane, non ha voluto dare un contributo. Il principio è: se ognuno dei contendenti ad ogni fiata alternata fa qualcosa di più drastico ed irreversibile dell’altro prima o poi i due passeranno dalle minacce da wrestilng ai cazzotti da boxe. 

Ergo uno dei due deve avere la buona volontà di non innescare upgrade e stare zitto e fermo per un po’. Di solito tocca al più “debole” e Taiwan, pur armatissima e sotto l’ala dell’aquila Usa è più debole della Cina. Ecco perché risulta un po’ urticante la decisione di Tsai di promuovere la terza esercitazione militare in tre settimane “a fuoco vivo”. Di che si tratta? 

Di operazioni simulate solo perché non si spara addosso al nemico ma si spara “contro” di lui come direzione e con proiettili veri, non con quelli da esercitazione. Ora, basterà dare un’occhiata ad una cartina geografica qualunque per capire che fra la “porta” di Taiwan e la Cina continentale c’è solo un braccio di mare stretto tagliato in due in senso longitudinale da una linea ideale che “separa” le zone di influenza dei due paesi. 

E subito al di là di quella linea, a circa due miglia nautiche, c’è naviglio da guerra di Pechino. L’esercitazione numero tre dovrebbe tenersi a fine mese nel settore meridionale dell’isola, a Pingtung. Saranno coinvolti un comando di artiglieria, truppe di fanteria, il comando di difesa di Hualien e la guardia costiera dell’isola. Con loro anche 78 mortai leggeri sviluppati localmente e sei obici da 155mm di fabbricazione Usa che verranno “utilizzati per le prove di tiro in aria e in mare“. 

In mare, verso la linea oltre la quale ci sono le fregate cinesi. Per proteggere il diritto alla pace di Taiwan e preservare la sua indipendenza. E forse giocandosi entrambe in una manciata di minuti distratti.

Qualcosa non quadra, Tsai.

BENJAMIN NETANYAHU

Benjamin Netanyahu, Prime Minister of Israel / swiss-image.ch/Photo Jolanda Flubacher

Caso mai non ce ne fossimo accorti in Israele si voterà per la quinta volta in quattro anni. Un record che fa impallidire perfino noi italiani che in quanto a tornate d’urna seriali siamo medaglia d’oro olimpica. Il motivo? Il solito, quello che affligge anche il nostro Parlamento: bizantinismi, soglie di sbarramento bassine e panorama composito non sfornano mai maggioranze nette, Tizio si allea con Caio giusto per andare a meta ma poi ci litiga a meta raggiunta e si ricomincia. 

A Tel Aviv si voterà il primo novembre con Naftali Bennet che già da luglio non è più premier (vedi che succede poi a leggere solo le etichette del balsamo al cesso?). E che dopo l’autoscioglimento della Knesset ha lasciato il posto ad interim al suo partner di coalizione Yair Lapid. Quest’ultimo sarà il front runner delle prossime elezioni e contro si ritroverà… Benjamin Netanyahu

Già, l’ex premier e leader della destra ortodossa israeliana è più tignoso di un’edera. E per questo ci riproverà. Con la determinazione che non gli ha mai fatto difetto. Quello di cui però “Bibi” pare essere un po’ a corto è il senso della misura. Almeno a giudicare la sua ultima uscita molto “salviniana”. Consapevole del fatto che di lui molti elettori hanno un’immagine arcigna ed antipaticuccia Netanyahu ha deciso di rivelare il suo numero di telefono. Quello personale. Ed ha incoraggiato il pubblico a videochiamarlo. 

Come Iannarilli ma anni dopo
Benjamin Netanyahu

Lo ha fatto in una clip condivisa sui social e con tanto di canale Telegram a supporto. La “chiamata a chiamare” di Bibi ha scatenato un putiferio. Non solo per la veste molto populista, ma anche perché il suo numero è ancora collegato, anche se disconnesso, a molti account governativi e il pericolo hacker bravi è sempre in agguato. 

Ad ogni modo su quel canale Netanyahu ci sta caricando vagonate di materiale elettorale e propagandistico. Avrebbe ricevuto, secondo un follow-up, centinaia di chiamate e messaggi che si riversano sul suo iPhone. E come l’ha commentata “Bibi”? “Parlo con così tante persone… sai una cosa? Ho preso una decisione. Drammatica e rivoluzionaria: perché solo alcune persone dovrebbero avere il mio numero di telefono? Tutti dovrebbero averlo e io te lo darò“. 

Il tutto con una carota social. Chiunque invii uno screenshot che mostra di essersi iscritto al canale Telegram avrà maggiori possibilità di ricevere una chiamata dal presidente del Likud. Come se Dio promettesse più miracoli solo a chi gli manda la cronologia dei paternoster. Come solo Bibi, che un po’ nume tutelare ci si sente davvero, poteva fare.

Call me Bibi.