Quando il dramma delle marocchinate finì in Parlamento (Storie nella Storia)

Il caso delle marocchinate approda in Parlamento. Per non dimenticare quesi drammatici giorni vi proponiamo a puntate un capitolo del volume «Liberatori? Il Corpo di spedizione francese e le violenze sessuali nel Lazio meridionale nel 1944». L'intero volume è disponibile presso il Cdsc Onlus - Centro Documentazione e Studi sul cassinate

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

La tragedia delle migliaia di donne vittime di abusi sessuali durante l’avanzata delle truppe franco-marocchine nel corso della II Guerra Mondiale. Il racconto del prof. Gaetano De Angelis Curtis. Nella I parte, il racconto dell’avanzata. Ora il caso approda in Parlamento. Viene discusso alla Camera dei Deputati nella seduta notturna di lunedì 7 aprile 1952 (Leggi qui la I parte)

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Il dibattito in Parlamento

Nella sua lunga e dettagliata illustrazione, l’on. Maria Maddalena Rossi fece una specifica e appropriata disamina della questione dal punto di vista sociale, sanitario, assistenziale. Citava i casi più eclatanti delle violenze subite anche da donne settantenni e ottantenni, da suore, da preti, ricordando i brutali assassini di bambini, di genitori, di mariti che tentavano di difendere l’onore e di sottrarle agli stupri le proprie figlie, le proprie mogli, le proprie sorelle nella trentina di paesi delle province di Frosinone e di Latina percorsi dalle truppe coloniali francesi (Pontecorvo, Sant’Angelo, San Giorgio a Liri, Pignataro, Ceccano e quindi Esperia, Castro dei Volsci, Vallecorsa, Pastena).

Ricordava che «dodicimila donne avrebbero, dunque, subito violenza da parte delle truppe marocchine e sarebbero state contagiate» così che negli anni 1944, 1945 e 1946 altrettante domande di indennità erano state presentate alle autorità competenti. Alcune di quelle donne nel 1944 avevano ricevuto «dal governo francese somme varianti da 30 a 150 mila lire per soccorso immediato». Quindi furono riconosciute titolari, in qualità di vittime civili della guerra, di libretti di pensione che avrebbero «dato loro diritto, essendo assegnate alla settima ed all’ottava categoria, a somme varianti da 1.400 circa a 3.000 lire al mese».

 

Ma c’è il trucco

Tuttavia segnalava che in base alle norme legislative introdotte negli anni del dopoguerra i libretti ricevuti «non davano, in pratica, e non avrebbero dato per molto tempo e in alcuni casi mai, diritto ad alcuna riscossione di denaro» oppure sarebbero durati «fino alla scomparsa dell’infermità fisica contratta, dopo di che queste sventurate non avrebbero avuto più diritto a nulla».

Sulla questione dell’assistenza sanitaria l’on. Rossi lamentava che nella zona funzionava un solo reparto dermosifilopatico ospedaliero a Pontecorvo, con soli sei posti letto, nel quale le contagiate avevano diritto di essere ricoverate mentre le disposizioni impartire ai medici condotti di prestare gratuitamente le loro cure e di prescrivere medicine alle malate si erano rilevate poco efficaci perché quei sanitari erano «raramente in grado, per motivi vari, di curarle adeguatamente».

 

Ma Preti non crede all’ordine Juin

Anche l’on. Preti intervenne in Aula per svolgere l’interpellanza presentata.

Sostanzialmente ribadì quanto espresso dall’on. Rossi anche se precisò di non condividere il passaggio dell’intervento della collega in cui aveva lasciato quasi credere che alle truppe marocchine fosse stato «tacitamente riconosciuto» nel 1944 il «diritto di saccheggio e di violenza ai danni degli italiani», anzi lo escludeva «senz’altro».

In merito alla gestione di «uno dei casi più dolorosi della guerra» criticava le autorità italiane per non aver fatto tutto quanto fosse nelle loro facoltà in particolare in merito alla questione delle pensioni per cui chiedeva e sollecitava il governo a corrisponderle «indipendentemente» da quanto avessero percepito dopo la guerra come indennizzo dalla Francia o dall’Italia, e a fornire gratuitamente «a coteste disgraziate i medicinali» e le cure sanitarie.

 

La risposta del De Gasperi VII

La risposta del governo (il De Gasperi VII) fu affidata al sottosegretario al Tesoro con delega alle pensioni di guerra, il sen. Tiziano Tessitori. Nel suo intervento specificò che complessivamente al 1951 erano state 17.368 le domande con richiesta di indennizzo, «per un importo complessivo di danni pari a lire 654.680.782».

Del totale delle pratiche meno della metà, e cioè 9.492, erano state trattate direttamente dall’Amministrazione centrale, ma si trattava di quelle «che comportavano un indennizzo maggiore, che rappresentavano i fatti più gravi, dato che furono concessi indennizzi per lire 508.771.740 (fino a tutto il 1951)», mentre le restanti domande, «trattandosi di casi minori e quindi anche di importi minori», pari complessivamente a lire 145.149.042, erano state trasmesse all’intendenza di finanza di Frosinone.

Successivamente furono presentate alla Direzione generale per le pensioni di guerra le domande di concessione di pensione, che a tutto il 1951 risultavano essere in numero di 7.639, delle quali 2.860 erano state definite mentre le rimanenti 4.769 risultavano ancora da perfezionare.

 

Ma non si possono cumulare

Tuttavia, chiariva il sen. Tessitori, le norme in vigore in quei momenti non consentivano il cumulo dell’indennizzo con la riscossione della pensione di guerra. Infatti la legge sulla liquidazione delle pensioni di guerra, la n. 548 del 10 agosto 1950, risultava modificata dalla legge 9 gennaio 1951 n. 10, in specie dall’art. 3 «in forza del quale le indennità per i danni di guerra non [erano] cumulabili con nessun altro indennizzo né beneficio».

A tal riguardo la legge imponeva a chi fosse stata riconosciuta una pensione e fosse già stato assegnatario di un beneficio liquidato una tantum come indennizzo, il recupero totale, sia pure graduale, della somma percepita.

Allo stesso tempo il sottosegretario non si dichiarò favorevole a una modifica delle disposizioni legislative in vigore.

(segue)

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