Pietro Ranaldi e la parabola del biliardino

Giusto dieci anni fa ci lasciava Aurelio Pietro Ranaldi. Argutissimo spadaccino del Diritto e sanguigno riferimento di principi per il Partito Socialista. Pochi sanno che fosse un impareggiabile giocatore di biliardino. E che amasse le patate al forno. Per una ragione precisa

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il dato è scarno ma netto: in questi stessi giorni dieci anni fa Cassino non perse solo un argutissimo spadaccino del Diritto ed un cassinese (mai cassinate, mai) di grana eccelsa, ma anche un giocatore di biliardino di una bravura quasi criminale, da quanto godeva a seppellirti di goal con la mediana. E in barba alle faccende austere le due cose stanno benissimo insieme. Perché il biliardino è una metafora perfetta di ciò che fu e di ciò che fece Pietro Ranaldi in vita, per la Legge e per la sua città.

I ricordi in bianco e nero

Ogni volta che ci approcciamo ad una persona di cui conserviamo ricordi vivissimi accade una cosa meravigliosa: che le skill sociali di quei tipi passano in secondo piano. Diventano punto di approdo del ricordo ma transitando per episodi comuni: sciapi per i più ma pieni di polpa per chi c’era. E stracarichi dell’impronta emotiva più bella che quelle persone lasciano in ogni singolo uomo o donna che hanno incontrato in forza del loro magnetismo.

Ad un certo punto della sua rigogliosa vita di avvocato cassazionista, amministratore e politico a trazione socialista Pietro Ranaldi decise di diventare editore di un giornale. Perciò dopo un paio di conciliaboli spicci con Franco Scuro mise in piedi Cassino 7, il primo free press del Cassinate: roba che all’epoca, si era nel 2003, era talmente futurista che Marinetti a paragone sembrava Poldo l’amico paninomane di Braccio di Ferro.

E come in ogni sistema complesso che si rispetti la vita di redazione era intervallata da momenti conviviali, cene ridanciane e scollacciate in cui ci si compiaceva del già fatto e si sciorinava il da farsi sbranando costate ed ingoiando bancali di patate al forno. Ad una di quelle, in Valcomino, scoprimmo due cose di Pietro Ranaldi: che era tanto austero nella sua professione e nella vocazione politica quanto matto nei momenti di relax. Si definiva “cane da masseria e da polpaccio”, a spiegare che per lui stare con un Partito del popolo non era un’iperbole di maniera. E quella sera sciorinò un mezzo ossimoro, quell’eloquio saggio e coltissimo che tanti successi gli faceva mietere nell’arena dei dibattimenti.

Ranaldi campione di biliardino

Insomma, a metà serata eravamo tutti intimiditi, almeno fino a quando non scoprimmo la seconda cosa di Pietro Ranaldi: che era un’iradiddio a biliardino. Presente quando un boomer, uno cioè che con il biliardino ci ha limonato anni e annorum negli anni dei “filoni” al Sottozero vicino la Villa Comunale, matura la convinzione di schiacciare l’avversario con la stessa noncuranza con cui si spazzola via la forfora dal collo del cappotto nero?

Ecco, quella sera del 2003 quella convinzione andò in vacca in sei minuti netti. Ranaldi picchiava come un fabbro, marcava di mediana e “spizzava” di laterale vendemmiando gol come se non ci fosse un domani. E Dio è testimone ad ogni gol ghignava come un satiro che sta dando una lezione ai piccoli capri pivelli in Arcadia.

A fine partita qualcuno, livoroso per la scoppola, alluse precipitosamente al fatto che un avvocato socialista aveva vinto ad un gioco che aveva un nome fascista, “calcio-balilla”. La trappola scattò in un attimo perché mentre ci legnava l’avvocato Ranaldi non aveva mancato di rievocare i suoi fasti a quel gioco chiamandolo più volte proprio così, “calcio balilla”: aveva lanciato l’amo e il cavedano aveva abboccato.

C’è balilla e balilla

L’insurrezione di Genova scatenata da Balilla

Quel cavedano ero io. L’avvocato mi allamò ed iniziò a recuperare di mulinello con calma agghiacciante. Giuro, io sentivo l’uncino nel palato, vedevo il filo avvolgersi ed il guadino avvicinarsi inesorabile. E mi spiegò che il nome deriva da Giovan Battista Perasso, detto “Balilla”, ragazzino genovese icona del Risorgimento, non dal Ventennio. “Quello e tutto quello che rappresenta io l’ho combattuto per tutta la vita, solo i cani da polpaccio si tengono le loro idee fra i denti e non nella tasca della giacca buona”. Colpito, affondato e fatto secco su un terreno che credevo di padroneggiare, mi sedetti a tavola a massaggiarmi la groppa mentre arrivava un vassoio di patate al forno largo un ettaro.

Ahhh, le patate cucinate all’antica maniera!”. Ranaldi si accomodò e disse esattamente così infilzandone una come Queequeg. Poi si girò verso me che mi chiedevo cosa cacchio avessero di antico delle semplici patate al forno e disse ghignando: “Le cose antiche sono buone, quelle vecchie no, ma bisogna capire la differenza”.

Pensai alla partita di poco prima e capii. Capii che Pietro Aurelio Ranaldi mi aveva dato una lezione e che la toga con le nappe dorate non se l’era tolta neanche quella sera mentre giocava a biliardino.

Il giorno dopo lui vinse una causa ed io scrissi il mio articolo migliore.

(Nella foto di copertina: al centro Giuliano Ferrara, alla sua sinistra Giuseppe Paliotta e Loreto Corridore. Alla sua destra Massimo Struffi, Paride Quadrozzi e Aurelio Pietro Ranaldi – Leggi qui tutti gli altri Coccodrilli)).