La Aspesi, la “Meloni-demonio” e il verbo che non doveva coniugare

Cosa succede se una giornalista-scrittrice bravissima si dimentica per un attimo di esserlo a attacca una premier sulla "misoginia"

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Politica, politichese e manuali annessi hanno poche regole chiave e una svetta su tutte: mai mettere un avversario sul binario dell’odio. Non solo non è giusto ma neanche paga, ergo alla larga da quella strada costellata di cocci di vetro su cui anche gli ego più coriacei si sbrecciano il derma.

Anche se a scrivere fosse uno dei rinoceronti di Borges accade sempre, ineluttabilmente, che se il suo fosse calamo massimalista alla fine la placca verrà bucata. E che la pallottola abbia l’ogiva dello scorno e il bossolo della scarsa credibilità di ciò che invece si voleva sparare lontano, fin dentro la polpa del ragionamento originario. C’è una regola in sotto-directory che pochi citano ma che conoscono tutti. Solo che viene invocata a scatti, vale a dire contro altri se serve e mai per se stessi ove necessita.

E’ quella regola per cui descrivere un personaggio politico con il crisma dell’odio non è peccato che possa diventare di venia. Ci sono verbi che in democrazia non andrebbero mai coniugati e uno di essi è “disprezzare”.

L’uscita di sicurezza dopo aver fatto casino

Alain Elkann (Foto: Sergio Oliverio © Imagoeconomica)

Non se ci si aggrappa alle iperboli e si abbranca il salvagente bucato dell’immagine figurata. Gli intellettuali italiani sono tutti un po’ così e i casi Elkann e Facci sono solo l’ultima perla di un rosario lungo. Costoro vanno giù di penna grevegrevissima e scrivono cose orripilanti e sghembe. Magari non rivedono le bozze, o non credono che il loro Verbo ne abbia bisogno. Oppure magari dopo la prima stesura suona il campanello un corriere Glovo e tutto annega nell’oblio di un hamburger di due chili.

Poi sollevano un polverone mezzo voluto per tornare un po’ mainstream e alla fine cassano tutto. Come? Replicando a chi ha avuto brividi lungo la schiena come se stessero parlando a dei coglioni. Cioè spiegando che quella data frase “andava contestualizzata”. O che l’immagine era metaforica o che essa fungeva da puntello per una ipotesi di scuola. Perciò che non si può criticare un artista del lessico se viaggia sui binari della superveloce concettuale. E non puoi farlo se sei un plebeo abituato a percorrere il binario del vocabolario solo con i regionali delle Ferrovie Garganiche.

“Se le donne detestassero Giorgia Meloni”

Non funziona così e Natalia Aspesi lo avrebbe dovuto sapere, anzi, lo sapeva benissimo quando ha titolato su Repubblica “se le donne detestassero Giorgia Meloni”. Non c’è capriola che tenga quando dopo un esordio pungente e figo ti fai cannibala del buon gusto. Eccolo, l’incipit, sa di mezzo rammarico ma è bello. “Che bello! Dal De Gasperi III, 119 giorni e mai nessuno, neanche dopo, che raggiungesse i 5 anni previsti dal Parlamento italiano (…) ecco arrivare finalmente una creatura strana, una figura aliena.

Analisi linguistica: qui la figura aliena è figura assolutamente legittima perché metaforica in purezza. Meloni è “altro” dai suoi predecessori perché è avviata a concludere ciò che aveva iniziato il 25 settembre scorso. Poi si va di diritto-dovere di critica in purezza, e ci siamo comunque. “Una che già ne aveva fatte di ogni colore per arrivarci. E finalmente ecco, una che aveva aspettato tanti decenni, pochi per lei tuttora giovane, prendersi come un fulmine il potere”.

Ministre bruttine, la pezza inutile del canone greco

Funziona tutto e funziona benissimo, la Aspesi è una giornalista di grana immensa, quando non scarroccia da quel che già è e per cui già è skillata nel suo universo d’area. Poi però si cala la china e la Aspesi spiega che la premier giudica “secondarie” le altre donne. La prova provata? Lei, la tremendissima donna, ha sì schiaffato in governo sei donne, “compresa la pericolosa Santanchè”.

Tuttavia lo avrebbe fatto come quei capi che rispettano una quota senza badare troppo alla grana delle singole componenti la medesima. Arrivando perfino a circondarsi “di poche donne in più bruttine”. Tutte eccetto la Bernini che è bella ma pare “molto” alta. “Di donne non ha mai parlato e se lo ha fatto è stato per caso. Ecco quindi una donna veramente donna e che come tale, odia o meglio non ama le donne, vuole che stiano al loro posto, secondarie”.

Quel “campo largo” che funziona, ma a destra

Annamaria Bernini (Foto: Sergio Oliverio © Imagoeconomica)

Ovviamente qui Aspesi invocherà l’ignoranza del lettore del canone ellenico del “Kalòs kai agatòs”, del bello dentro perché buono fuori. Tradotto: nessuno voleva offendere, si diceva in sottigliezza che non si confà al plebeo medio una cosa di vetta. Cioè che le ministre della Meloni sono delle buste di fave fuori perché sono incompetenti dentro. Ovviamente a quel punto e per centrare meglio il “core” della cattiveria della Meloni bisognava trascendere da essa ed allargare il campo.

La premier ha in squadra un pattuglione di colonnelli obiettivamente non proprio lettori accaniti di Giuseppe Petronio e la cosa andava sfruttata. Perciò a campo largo si va, signori miei, almeno quello che funziona.

La donna come la vede chi odia le donne

E lo si fa proprio sull’ambito retrò e domesticante sul quale una certa mistica spernacchia da sempre le premier. Attenzione, in alcuni casi lo fa a ragion vedutissima, ma ci sono casi in cui un tema sugoso si fa brodino venefico, se lo usi come contrafforte da “hater”.

Quella della donna come forno da riproduzione e robot da piumino è un’immagine che funziona da sempre, in certi ambienti. Funziona perché in alcuni casi è amaramente vera e perché in altri casi è altrettanto amaramente utile. Utile a demolire, non a costruire però. Per Aspesi Meloni “fa parte di un partito che se è contento di una donna presidente, tutte le altre le vuole in casa a fare figli. Impegnate a fabbricare bimbi come vorrebbe la tremendissima signora ministra Roccella. Che rimpiange la ghigliottina per colpire i colpevoli del suo famoso reato universale”.

Il peccato dell’ineleganza superflua

Giorgia Meloni a Nuova Delhi

Si sente, il conato irrisolto di lardellare una battaglia buona con iperboli che non erano necessarie? Si capisce che la Aspesi ha esagerato sapendo benissimo che con una come la Meloni forse di esagerare non vi è bisogno alcuno? Ecco, questo è peccato, e non di venia. “Alla Meloni quel suo Fratelli (e non Sorelle) d’Italia tiene molto, ed è probabile che anche lei veda le donne come secondarie”.

Poi un paradosso serio e reale. “Eppure sono proprio le donne, quelle di sinistra, a pensare che in fondo l’importante è che una sia già diventata primo ministro. Poi ne arriveranno altre; e saranno certamente di sinistra”.

Perché Meloni sarebbe “furba come il demonio”

Il senso è che la premier è “furba come il demonio” perché ha fatto la magia di diventare essa stessa totem di parità di genere, ma non al punto da proclamare l’universalità di ciò che essa, e solo lei, rappresenta.

Clienti in banca © Bettolini / Imagoeconomica

Messa così non solo è bruttina davvero, ma non funziona mica. L’istigazione al disprezzo anche se in chiave metaforica e da generone meneghino studiato in casella Orsoline che spande saggezza al volgo bestia non dà frutti. Non li dà perché la Meloni è diventata talmente funzionalista da essere capace di dribblare ogni confronto ideologico. E di usare chi lo usasse come un boomerang che alla fine arriva dritto sul naso di chi lo ha lanciato. Come con le banche e gli extraprofitti. Nel nome di un diritto di critica che non va mai criticato. Ma non nel nome di un dovere di buon gusto criticare il quale è legittimo. Specie se chi lo esercita ci ha abituati alla bravura e non al livore.