La storia del Tribunale di Cassino. Per niente lineare, spesso in salita. Vittima di vendette politiche e della sua capacità di tenere la schiena dritta. La rivalità con Sora. La sollevazione popolare. la minaccia di restituire la medaglia
Tutto in pochi mesi: quattro nella sostanza, sei volendo contare proprio tutto. La dissoluzione del Regno delle Due Sicilie avvenne in modo veloce. Giuseppe Garibaldi salpa il 5 maggio 1860 da Quarto, vicino Genova: simula il furto di due vascelli della Compagnia di navigazione Rubattino, in realtà si era accordato con Vittorio Emanuele II.
Sbarcato a Marsala con le sue Camicie Rosse affronta la battaglia di Catalafimi, occupa Palermo, passa lo Stretto di Sicilia e risale attraverso Calabria e Campania. A soli quattro mesi dall’avvio delle operazioni, il 7 settembre giunge nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Lo fa utilizzando, nell’ultimo tratto, la ferrovia Portici-Napoli.
L’unica vera battaglia
Il primo ottobre si combatte al Volturno la seconda delle uniche due vere battaglie tra i garibaldini e i soldati dell’Esercito borbonico, la prima è quella di Catalafimi. La Battaglia del Volturno si conclude con un leggero vantaggio per i borbonici che però non sanno sfruttarlo e consolidarlo nei giorni successivi: sbandano e ripiegano verso la fortezza di Gaeta dove si era rifugiato Francesco II.
Il 15 ottobre Garibaldi si autonomina «prodittatore delle provincie napoletane». Firma a Sant’Angelo in Formis il decreto di annessione delle aree dell’ex Regno delle Due Sicilie. Poi nella settimana successiva, il 21 ottobre 1860, si tiene il plebiscito di annessione al Regno di Sardegna: con qualche eccezione come in Terra di Lavoro.
Il plebiscito si svolge in una situazione di precarietà, in un momento di vuoto istituzionale e con modalità elettorali poco democratiche. Che fra l’altro non garantivano la segretezza del voto. Il risultato dice che i favorevoli all’annessione sono l’80% ricalcando in pratica gli stessi esiti plebiscitari di adesione all’annessione alla Francia avutisi nell’aprile precedente nella contea di Nizza e nella Savoia.
Il plebiscito per modo di dire
Nella provincia di Terra di Lavoro si vota solo in 89 dei 238 Comuni che la componevano. Mancano soprattutto i centri ubicati nei due Circondari della parte più settentrionale, quelli di Sora e Gaeta in quanto si combatteva ancora. Complessivamente dunque votano in Terra di Lavoro circa il 10% dei suoi circa 800.000 abitanti e poco più di 70.000 si esprimono a favore dell’annessione mentre solo 1.320 sono i contrari.
Il 26 ottobre 1860 si tiene lo storico incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II «nei pressi di Teano». Lungo la strada che portava all’importante città sidicina il condottiero nizzardo consegna al re sabaudo la sovranità delle terre del Mezzogiorno. Vittorio Emanuele II il 6 novembre 1860 emana da Sessa Aurunca un decreto di nomina di un luogotenente generale con il quale veniva autorizzato a governare in suo nome.
L’incarico viene affidato inizialmente a Luigi Carlo Farini ben presto sostituito dal principe Eugenio di Savoia-Carignano, cugino dello stesso sovrano. Il 7 novembre 1860 Vittorio Emanuele entra a Napoli accompagnato da Garibaldi che due giorni dopo si ritira nell’isola di Caprera. In sei mesi si era compiuto il destino del Regno delle Due Sicilie.
Elezioni e cambiamenti
Anche la nuova Italia viene definita velocemente. Il 27 gennaio 1861 si tiene il primo turno delle elezioni alla Camera dei Deputati (con ballottaggio il successivo 3 febbraio). Il 17 febbraio 1861 cade la fortezza borbonica di Gaeta sottoposta a un lungo assedio e ad intensi bombardamenti via mare e via terra (ma resistevano ancora quelle di S. Benedetto del Tronto e di Messina). Mentre il giorno dopo (18 febbraio) si svolge la prima riunione del Parlamento subalpino nazionale a Torino e un mese dopo (17 marzo) viene sancita ufficialmente la proclamazione del nuovo Regno d’Italia con Vittorio Emanuele II re «per grazia di Dio e volontà della nazione».
Proprio il 17 febbraio 1861 Eugenio di Savoia – Carignano emana una serie di importanti decreti luogotenenziali che andavano ad interessare le aree continentali dell’ex Regno delle Due Sicilie. Si trattava di un pacchetto di disposizioni e di importanti adempimenti legislativi.
Fra essi c’è l’istituzione della provincia di Benevento (la città, come Pontecorvo, era una enclave pontificia) che risulta formata dall’aggregazione di aree delle circoscrizioni amministrative limitrofe. Anche Terra di Lavoro viene fortemente penalizzata in quanto perde numerosi Comuni: quelli ubicati più a ridosso di Benevento e altri tredici dei circondari di Venafro e di San Vincenzo al Volturno aggregati per compensazione al Contado di Molise (provincia di Campobasso e poi provincia di Isernia). Lo spostamento avviene nonostante la caparbia opposizione dei suoi abitanti che giungono ad inviare una delegazione a Firenze (divenuta capitale d’Italia) per perorare la loro fiera contrarietà.
C’è chi dice no
Inutili la presentazione di petizioni di cittadini e tre progetti di legge depositati alla Camera dei Deputati; c’è il caso di Comuni che intesero ribadire la loro estrazione territoriale d’origine come Sesto che decise di aggiungere alla denominazione il suffisso «Campano» (ancora oggi è Sesto Campano) pur ritrovandosi nella regione del Molise. Presenzano è l’ìunico caso di riaggregazione a Terra di Lavoro.
Eugenio di Savoia – Carignano poi estende all’ex Regno delle Due Sicilie l’applicazione delle leggi sabaude in materia ecclesiastica con la soppressione degli enti religiosi. E inoltre introduce le disposizioni del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale sostanzialmente identiche a quelle in vigore nel Regno di Sardegna.
Scatta poi la modica dell’ordinamento giudiziario. Particolarmente importante è quest’ultimo decreto cui fa seguito il Regio Decreto del 26 novembre 1861. È quello che andava a determinare l’articolazione della amministrazione della giustizia nel Mezzogiorno d’Italia. In base a quelle disposizioni essa risultò basata su una Corte di Cassazione operante a Napoli, su quattro Corti di Appello più una sezione distaccata, su quattro Tribunali di Commercio, su sedici capoluoghi di Circolo di Assise e su trentasette Tribunali Circondariali (o di circondario).
Questi ultimi furono particolarmente importanti in seguito alle modifiche che comportarono nella giurisdizione territoriale, anche per Terra di Lavoro. Infatti dei trentasette Tribunali circondariali, quindici erano i vecchi Tribunali di prima istanza della geografia giudiziaria borbonica (detti «sedi antiche»). A loro si aggiungeva quello di Benevento dopo l’elevazione a capoluogo di provincia, altri quindici sono quelli di nuova istituzione (dette «sedi nuove»). A loro se ne aggiungono altri sei nel 1862 (dette «sedi novelle»). Complessivamente, dunque, trentasette Tribunali circondariali.
Nasce il tribunale di Cassino
La denominazione offerta per tali organi giudiziari, detti appunto Tribunali circondariali, fa insorgere l’equivoco iniziale che si giungesse all’istituzione di nuovi organi giudiziari in ogni capoluogo di circondario. Ecco dunque che molte città (fra cui Formia, Sora ecc.) inviano agli uffici del ministero di Grazia e Giustizia di Napoli delle note con le quali dichiaravano la disponibilità a divenire sede di organi giudiziari, ospitandolo e offrendo anche strutture immobiliari e spazi in cui insediare gli uffici. Tuttavia non furono effettuate variazioni rispetto alle 37 sedi programmate.
In Terra di Lavoro l’organo giudiziario che aveva operato in età pre unitaria era il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, istituito nel 1809, nel corso del decennio dei napoleonidi, nel momento in cui la città era capoluogo amministrativo della provincia. Quando poi il capoluogo viene spostato a Capua e poi nel 1816 trasferito definitivamente a Caserta, il Tribunale continua a permanere a Santa Maria Capua Vetere generando l’anomalia che Caserta è ancora oggi l’unico capoluogo di provincia sprovvisto di Tribunale.
La riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta dal decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861 e dal Regio Decreto del 26 novembre 1861 portò alla bipartizione del territorio della storica provincia di Terra di Lavoro. Al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere viene affiancato il Tribunale di Cassino. Differentemente rispetto a Terra di Lavoro, il cui territorio risulta bipartito, ci sono casi di altre province tripartite come quella di Salerno. Al Tribunale della città capoluogo vengono aggiunti quelli di Sala Consilina e di Vallo della Lucania. Tripartita anche Campobasso con l’istituzione degli organi giudiziari di Isernia e di Larino.
Cassino e lo zampino dell’abate
Le scelta di Cassino come sede di Tribunale circondariale dipende in particolare dalla posizione geografica della città, baricentrica rispetto al territorio di competenza (differentemente le altre città concorrenti come Sora e Formia che avevano una posizione decentrata, poste come si ritrovavano ai confini non solo della provincia ma anche, allora, dello Stato italiano).
Tuttavia la scelta viene operata anche per merito e sollecitazione dell’allora abate di Montecassino dom Simplicio Pappalettere, in quei primi mesi dell’Unificazione impegnato con dom Luigi Tosti nei difficili tentativi di conciliazione tra il nuovo Stato italiano e la Chiesa, poi naufragati. Fra l’altro dom Simplicio Pappalettere aveva avanzato la richiesta che la città di Cassino divenisse anche sede di prefettura e cioè che venisse elevata a capoluogo di provincia. L’abate affidò la richiesta all’abruzzese Silvio Spaventa ex collegiale di Montecassino divenuto uno dei responsabili nel governo nel Mezzogiorno. Un’istanza non concretizzatasi in quei frangenti né mai più dopo.
Il Tribunale di Cassino nel suo secolo e mezzo di vita è passato indenne nelle varie operazioni di riorganizzazione delle sedi giudiziarie (leggi cessazione) adottate dall’Unità d’Italia a oggi. Oppure nei tentativi di affiancamento o addirittura di soppressione operati particolarmente nel secondo dopoguerra da parte di città limitrofe come Sora, che pur vantava antiche aspirazioni.
La giurisdizione su 73 Comuni
Al momento della sua istituzione il Tribunale di Cassino aveva competenza su un territorio di giurisdizione posto nell’alta Terra di Lavoro, formato da un complesso di 73 Comuni ubicati in diciotto mandamenti. In ognuno di essi funzionavano vari uffici giudiziari con a capo il pretore e vi avevano sede le carceri mandamentali. Nove mandamenti erano nel Circondario di Sora e altrettanti del Circondario di Gaeta.
Complessivamente la popolazione residente su tale area era pari a circa 275.000 unità rispetto ai poco più di 400.000 abitanti del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere residenti in 23 giudicature di mandamento. Nel corso della sua esistenza il Tribunale di Cassino ha subito delle decurtazioni del suo territorio di competenza giurisdizionale (perse il mandamento di Carinola ma acquisì per compensazione quello di Mignano Montelungo riaffermando una peculiarità ancora oggi presente in quanto il Tribunale di Cassino ha competenza anche su un territorio ubicato in una provincia limitrofa, quella di Caserta, di una regione limitrofa, la Campania.
Poi nel 1927 perse la competenza su tutto il territorio del litorale gaetano-formiano e dell’immediato retroterra aggregato nel 1927 a Roma e poi dal 1934 a Littoria-Latina, salvo poi riacquisirlo recentemente.
Ma non è gratis
L’ampio movimento di modifica e ampliamento dell’ordinamento giudiziario operato con l’Unità d’Italia non fu un’operazione economicamente indolore. Sia per le città prescelte come nuove sedi di Tribunale sia per i vari Comuni ricadenti nei territorio di giurisdizione.
Infatti lo Stato provvedeva solo al personale giudiziario (magistrati, giudici, procuratori del re, sostituti, pretori, impiegati in genere, uscieri ecc.). Le ingenti risorse finanziarie necessarie all’istituzione dei nuovi organi giudiziari messe disposizione erano, come avvertiva il ministero di Grazia e Giustizia, delle anticipazioni che andavano restituite dai Comuni e dalla province nelle quali avevano sede i nuovi Tribunali.
Pure tutte le spese sostenute annualmente (eventuale affitto dei locali utilizzati dal Tribunale, arredo degli ambienti, manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili ecc.) erano poste in primis a carico del bilancio del Comune sede del Tribunale. Che a sua volta provvedeva a ripartire gli importi a carico di tutti i Comuni ricadenti nella giurisdizione, proporzionalmente al numero di abitanti. Quindi le Amministrazioni comunali dovevano poi preoccuparsi di rimborsare il Comune capofila nel quale aveva sede l’organo giudiziario.
E non tutti pagano
Così avvenne anche per Cassino. Innanzi tutto l’insediamento nella città degli uffici del Tribunale aveva richiesto delle spese di impianto molto elevate tanto che per farne fronte la Giunta Municipale di Cassino aveva dovuto ricorrere a un prestito con interessi. Subito dopo l’Amministrazione comunale inoltrò agli altri 72 Comuni le richieste di rimborso. Pure negli anni successivi le spese di gestione sostenute dal Comune di Cassino venivano ripartite e di esse se ne chiedeva il rimborso.
Tuttavia i vari Comuni effettuavano i pagamenti di rimborso con ritardo se non addirittura se ne disinteressavano per cui risultavano completamente inevasi. Il Comune di Cassino si vedeva dunque costretto, anche più volte, a sollecitare le Amministrazioni inadempienti, facendo anche ricorso all’intervento del prefetto e del sottoprefetto di Sora.
Al momento dell’insediamento degli Uffici giudiziari a Cassino, al Comune spettava individuare la struttura nella quale collocare il Tribunale. Poiché il Comune non aveva a disposizione immobili idonei ad ospitare gli uffici giudiziari di sua proprietà, fu deciso di utilizzare gli spazi della struttura più importante e grande che era presente in città. E cioè il Palazzo badiale, di proprietà dell’abbazia di Montecassino. Poiché però a fine 1860 parte del Palazzo badiale era stato era stato già concesso in locazione ai Carabinieri, bisognò attendere al loro trasferimento in un’altra ala dello stesso immobile per permettere al Tribunale di avere tutti gli ambienti necessari per lo svolgimento delle attività giudiziarie. (Leggi qui: I Carabinieri e Cassino: una storia lunga un secolo e mezzo).
La banda di Centrillo
Inizialmente il Tribunale operante a Cassino non era stato dotato di una Corte di Assise per l’amministrazione della giustizia penale. Una funzionava presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ma si rilevò insufficiente a svolgere la massa di processi che si aprirono dopo l’Unità d’Italia. I casi erano aumentati notevolmente a causa del fenomeno sociale del brigantaggio. Furono avanzate richieste a Napoli per aumentare il numero di Corti di Assise e alla fine ne fu assegnata una seconda ordinaria a Santa Maria Capua Vetere e poi anche una terza straordinaria che però si decise di farla operare nelle strutture del nuovo organo giudiziario per cui fu definita «sedente» a Cassino.
Così anche a Cassino iniziarono a essere celebrati i processi penali. Il 30 settembre 1865 iniziò i procedimento giudiziario più importante celebrato allora. Si trattava di un processo di brigantaggio a carico di Domenico Coja detto Centrillo e della sua banda formata da 25 uomini su cui pendevano dodici capi di imputazione. Centrillo, allora trentottenne, era originario di Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta a Volturno, oggi in provincia di Isernia, e aveva vissuto in gioventù tra il piccolo centro molisano e Cardito, frazione di Vallerotonda.
Era un ex soldato dell’Esercito borbonico che aveva combattuto in Lombardia nel 1848 contro gli austriaci quando anche Ferdinando IV aveva inviato un contingente militare dell’Esercito borbonico. Si congedò nel 1851 e poi fu «perseguitato» come tutti quelli che avevano preso parte a battaglie dell’indipendenza italiana. Fu così arrestato e condannato essendo considerato un liberale. Poi nel 1860 tornò a Castelnuovo e si scontrò con il sindaco del paese per antichi rancori personali e poiché il sindaco era un liberale Centrillo passò nelle fila borboniche abbracciando il brigantaggio.
La trattativa Stato – Brigante
Formò una sua banda costituita da un centinaio di uomini, dandosi «alla reazione e al saccheggio». Si dette alla macchia sui monti circostanti dai quali scendeva per aggredire i liberali e saccheggiare le loro case come avvenne a Rocchetta al Volturno, a Castellone oppure a Castelnuovo razziando i beni del sindaco, dando fuoco alla sua abitazione e inalberando la bandiera borbonica.
Poi si spostò sul versante occidentale delle Mainarde saccheggiando a Casalcassinese, Viticuso, Acquafondata e Cardito. Infine si portò a Vallerotonda dove riuscì a disarmare gli uomini della Guardia Nazionale locale e a farsi consegnare «72 o 73 fucili miliari tutti a percussione di ottima qualità», oltre a cartucce e munizioni. Quindi cercò di ricongiungersi con altre bande sul versante abruzzese dell’Appenino conquistando i paesi di Civitella Alfedena, Barrea e Villetta Barrea.
Incalzato dalle forze di polizia scese a Settefrati e intavolò delle trattative con il sottoprefetto di Sora per la resa della sua banda. Non si concretizzarono di fronte alla richiesta di Centrillo di «non soffrire alcun giorno di carcere». Saltata la trattativa il brigante riprese la guerriglia filo-borbonica. Tuttavia vistosi alle strette dall’Esercito sabaudo sciolse la sua banda e riparò nello Stato Pontificio. A Roma fu arrestato dai francesi che lo consegnarono alle autorità italiane al confine con l’Umbria. Terminava così l’attività brigantesca di un uomo «animosissimo e operoso, molto ardito nelle sue operazioni, amante dei colpi strepitosi e inaspettati, marciatore indefesso e manovratore espertissimo».
Il Maxi processo
Un «buon capo-banda» che era riuscito sempre a sfuggire ai «tranelli tesigli» e che aveva «sbandeggiato per due anni con onore». Passò i quattro anni successivi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e poi in quello Campobasso. Il processo a suo carico riuniva tutti i capi di imputazione delle malefatte commesse. Venne assegnato al Circolo di assise di Santa Maria Capua Vetere, destinato specificatamente alla Corte straordinaria «sedente» in Cassino. Per cui Domenico Coja fu trasferito al carcere « S. Domenico» di Cassino.
La Corte di assise risultò costituita dal presidente, da tre giudici (di cui uno era Francesco Moscati il padre di san Giuseppe Moscati), da dodici giurati popolari oltre al pubblico ministero. Nel corso del processo vennero interrogati tutti e ventisei gli imputati, furono ascoltati 128 testimoni e fu data lettura di perizie e dichiarazioni giurate, atti di ricognizione, verbali generali e di arresto, ordinanze e perquisizioni.
Alla fine del dibattimento ai componenti della Corte popolare vennero sottoposte ben 609 «quistioni». Alle domande dovevano rispondere se ritenessero gli imputati colpevoli o meno delle accuse mosse loro. A ognuna delle domande poste, che furono tutte lette dal «capo de’ giurati» prima della sentenza, la giuria emise un giudizio espresso con la formula «A maggioranza NO». Alle nove di mattina del 19 ottobre 1865, a soli 19 giorni da quando era iniziato il processo, fu emessa la sentenza.
Il caso in Parlamento
La Corte di Assise dichiarò assolti Domenico Coja alias Centrillo e altri sedici uomini. Ordinò che fossero immediatamente rimessi in liberà se non detenuti per altre cause. Gli altri nove uomini furono condannati con pene tra i due e i cinque anni di domicilio coatto. La sentenza di assoluzione ebbe fin a subito vasta eco in tutta Italia. Fu ripresa da vari giornali che ne dettero ampio e immediato rilievo. Il verdetto negativo pronunciato dai giurati fu criticato aspramente perché generava nell’opinione pubblica l’idea che il mestiere di brigante fosse allo stesso livello di una «professione onesta ed onorata». Quindi la vicenda approdò in Parlamento.
Furono infatti depositate alla Camera dei Deputati due interrogazioni che vennero discusse il 13 dicembre 1865. Per i due parlamentari l’assoluzione rappresentava un «grave scandalo» in quanto Centrillo era un «omicida, saccheggiatore, brigante di bassissima lega» che si era reso protagonista di vari misfatti. Si invocò l’immediata istituzione di commissioni d’inchiesta.
Tuttavia il guardasigilli nella sua risposta difese l’operato della Corte di Cassino e il verdetto di assoluzione. Sostenne che nel corso del processo nessuno aveva testimoniato di averlo visto commettere omicidi. Non avendo commesso reati di sangue la Corte di Assise aveva finito per trattare tutti i capi di imputazione alla stregua di «reati politici». E dunque «soggetti a fruire dell’indulto sovrano» che prevedeva l’estinzione del reato penale per i reati di cospirazione commessi prima dell’entrata in vigore della legge Pica. Il ministro di Grazia e Giustizia si oppose anche alla richiesta di istituzione di una inchiesta.
Non più sedente
Tuttavia il verdetto di assoluzione del «Masaniello delle Mainarde», come era stato definito allora Centrillo, ebbe conseguenze pesantissime per il Tribunale di Cassino. Infatti di lì a poco si giunse al trasferimento della Corte di assise straordinaria che da «sedente» a Cassino faceva ritorno al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Le pressioni dell’opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione e le interrogazioni parlamentari indussero il Guardasigilli ad adottare un provvedimento così drastico nei confronti del Tribunale di Cassino.
Dovettero trascorrere circa sette anni prima di giungere al ripristino di un Circolo d’assise presso il Tribunale di Cassino. Vennero attuati vari tentativi. Ad esempio il Consiglio municipale di Cassino nel 1868 depositò alla Camera dei deputati una petizione. Chiese che venisse ristabilita «in quel comune una Corte d’Assisie, o quanto meno che vi si se[desse] in qualche mese dell’anno quella di Santa Maria Capua Vetere». A sostegno della petizione intervenne l’onorevole Ferdinando Palasciano. Quest’ultimo era una eminente personalità internazionale in campo medico.
Originario di Capua era stato eletto alla Camera dei Deputati nel collegio di Cassino nel 1867. Poi riconfermato nelle due successive del 1870 e 1875 prima di essere nominato senatore del Regno. Palasciano riconosceva che il trasferimento della Corte di assise straordinaria era stato adottato come provvedimento punitivo nei confronti del Tribunale di Cassino in seguito all’assoluzione di Centrillo e degli altri briganti. Proprio le sollecitazioni di Ferdinando Palasciano portarono il ministero di Grazia e Giustizia a concedere nel 1872 l’istituzione di un Circolo straordinario di assise. Operò, «con soddisfazione di tutti», per circa tre anni.
Da straordinaria ad ordinaria
Quindi nel 1875, nell’ambito di un più vasto movimento di riforma giudiziaria nazionale la Corte d’assise fu trasformata da «straordinaria» in «ordinaria». La trasformazione fu criticata aspramente da alcuni parlamentari i quali adombrarono che fosse stata adottata per motivi politici. Cioè? Per agevolare politicamente Ferdinando Palasciano come rappresentante del collegio elettorale di Cassino. Il medico di Capua però smontò prontamente l’accusa. Affermò che il provvedimento non lo aveva agevolato nella sua rielezione al Parlamento. Perché? La sua non era una candidatura ministeriale essendo egli un candidato d’opposizione al governo in carica.
Nel corso del ventennio fascista il Tribunale di Cassino non fu toccato. Eppure ci fu un ampio provvedimento di ridefinizione della geografia giudiziaria nazionale messo in atto dal primo governo Mussolini nel 1923. Aveva portato alla soppressione di molti Tribunali non operanti nei capoluoghi di provincia. Furono chiusi i Tribunali, ad esempio, di Isernia, Larino, Sala Consilina, Vallo, Ariano Irpino, S. Angelo dei Lombardi (salvo poi la riattivazione qualche anno dopo).
Ben più gravi invece furono le conseguenza delle critiche rivolte dalla classe forense di Cassino al fascismo e a Mussolini in seguito al delitto Matteotti. L’oppositore del fascismo venne assassinato nel giugno 1924 per aver denunciato i brogli delle elezioni e il clima di violenza messo in atto dallo squadrismo fascista nelle elezioni dell’aprile precedente. Cioè quelle che avevano dato una maggioranza parlamentare schiacciante al listone fascista. Secondo vari testimoni del tempo furono proprio queste critiche che resero invisa la città di Cassino al duce.
Niente capoluogo per colpa degli avvocati
Normalmente si tende a spiegare la penalizzazione subita da Cassino nel 1927 proprio con l’avversione che Mussolini aveva per la città. Come si è già avuto modo di riferire nel 1927 Cassino vide sfumare la possibilità di essere elevata a capoluogo di un suo territorio di riferimento amministrativo. E questo nonostante fosse in possesso di tutti i requisiti per divenire capoluogo di provincia. (Leggi qui: I Carabinieri e Cassino: una storia lunga un secolo e mezzo).
Per giunta la città e un’ampia area circostante furono aggregate alla neo istituita provincia di Frosinone, forzatamente unite a un territorio da cui erano state divise per più di un millennio da un confine di Stato. Poi nel corso dello stesso anno Cassino giunse a perdere alcune importanti strutture che ospitava. Come ad esempio la Scuola Allievi Carabinieri operante presso le aree dell’ex Campo di concentramento di Caira da circa sette anni con piena soddisfazione dei vertici militari nazionali.
Quel 1927, nonostante i tentativi di salvaguardare la città operati in più occasioni dall’abate Gregorio Diamare oppure dal podestà Caio Fuzio Pinchera, potrebbe essere definito come l’«Annus Horribilis» di Cassino se poi non ci fosse il 1944, ma quest’ultimo è stato un «anno catastrofico».
Trasferimento a Pescosolido
Ecco che il 10 settembre 1943 il primo bombardamento di Cassino portò a una disattivazione immediata delle attività burocratico-amministrative e giudiziarie. Il Tribunale di Cassino fu trasferito prima a Pescosolido e poi a Sora. Dal 1861, da quando cioè era stato istituito, si trovò ad operare al di fuori della sua sede istituzionale.
Con la liberazione di Cassino, che di lì a poco assunse la denominazione di «città martire», e delle aree limitrofe avvenuta il 18 maggio 1944 si iniziò a predisporre il piano di ricostruzione. Punto essenziale e primario era rappresentato dal rientro degli uffici giudiziari (a Sora funzionava il Tribunale, a Cervaro la pretura). Un primo tentativo portato avanti dal sindaco Gaetano Di Biasio di utilizzare per gli uffici giudiziari il primo edificio ricostruito, quello delle Suore Stimmatine, non andò a buon fine. Bisognò attendere la costruzione del Palazzo di Giustizia che tra accelerazioni e stasi dei lavori richiese vari anni.
Proprio mentre i lavori edilizi andavano avanti con qualche affanno, si venne a palesare una duplice offensiva nei confronti del Tribunale. Sembrava presagire lo smembramento dell’organo giudiziario di Cassino nel segno di un suo definito trasferimento. O di un ridimensionamento del suo territorio di competenza. Infatti gli amministratori locali di Sora, che in qui momenti era la città più popolosa di tutta la provincia di Frosinone, cominciarono a rendere evidenti i tentativi di far rimanere in città gli uffici giudiziari. A Cassino tali tentativi furono interpretati alla stregua di una «pugnalata alle spalle» inferta a una città tanto provata dalle vicende belliche.
Le ambizioni di Caserta
Contemporaneamente la ricostituita circoscrizione di Caserta (soppressa nel 1927 e ripristinata nel 1945) iniziò a operare affinché si giungesse all’armonizzazione del territorio di amministrazione provinciale con quello giudiziario del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza si chiedeva di distaccare i mandamenti di Mignano e Roccamonfina dal Tribunale di Cassino e aggregarli a quello sammaritano. La città di Cassino insorse compatta contro questo duplice attacco.
Il 13 ottobre 1947, in concomitanza con lo svolgimento dei dibattito presso l’Assemblea Costituente, a Cassino si tenne una manifestazione di protesta. Si giunse all’occupazione della via Casilina, bloccando le comunicazioni tra Roma e Napoli in due punti. Uno all’ingresso nord della città, all’altezza del rione Colosseo, l’altro in pieno centro lungo il Corso della Repubblica in prossimità di Piazza Diaz. Vennero erette delle vere e proprie barricate formate «con pietre, con carri, con vecchie automobili». Ci si servì di tutto per protestare. Anche dei superstiti della Linea Gustav rappresentati da frotte di bambini, cioè di «centinaia di figli del popolo, cenciosi, macilenti, appena usciti dalle caverne e dalle tane».
Per due giorni consecutivi Cassino mantenne questo stato di agitazione su cui si era andata a sedimentare anche la protesta per i ritardi della ricostruzione. Dieci giorni più tardi l’Assemblea Costituente riconobbe le istanze della città ridotta in «lacrimevoli condizioni». Sospese l’applicazione del provvedimento di distacco dei mandamenti di Mignano e Roccamonfina (il Tribunale di Cassino comunque finì per perdere la pretura di Roccamonfina il 31 dicembre 1963).
Il ritorno a casa e la proposta Fanelli
Il primo marzo 1949 gli uffici giudiziari lasciarono definitivamente, dopo quasi cinque anni, la città di Sora per far ritorno nella sede istituzionale. Il rientro del Tribunale avvenne in coincidenza con l’inaugurazione del Palazzo di Giustizia. Due eventi celebrati a Cassino in un clima di entusiasmo generale.
Tuttavia anche dopo il rientro del suo Tribunale, Cassino dovette difendersi dalle aspirazioni di Sora che vantava un’antica aspirazione e cercava di affiancarsi alla «città martire» come sede di uffici giudiziari. Ancora una volta si venne a sviluppare una forte contrapposizione tra le due città. Si giunse alla presentazione di un apposito disegno di legge da parte dell’onorevole Augusto Fanelli. Prevedeva l’istituzione di una sede giudiziaria a Sora come terzo Tribunale della provincia che andava ad affiancare quelli di Frosinone e Cassino. Con quest’ultimo che si vedeva territorialmente bipartito. Doveva cedere metà della sua circoscrizione su cui aveva competenza giurisdizionale. La proposta prevedeva 5 mandamenti a Cassino con 34 Comuni e 116.000 abitanti, quattro mandamenti con 27 Comuni e 121.000 abitanti per quello di Sora.
Gli amministratori comunali di Sora si impegnarono nel sostenere la proposta di legge. Parallelamente i consiglieri di Cassino si schierarono in difesa del proprio Tribunale minacciando unanimemente non solo le dimissioni in massa dall’Amministrazione comunale. Decisero di manifestare il fermo dissenso e la decisa contrarietà della città. Lo fecero con un gesto simbolico ma carico di elevato significato. Capace di richiamare l’attenzione delle istituzioni repubblicane e dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. In tutti era ancora così vivo il ricordo delle sofferenze patite e dell’immane sacrificio tributato dalla «città martire».
La medaglia da restituire
Il tentativo di bipartizione del Tribunale assumeva il significato di mutilazione delle «già povere istituzioni» operanti a Cassino. Ed era un atto capace di rinnovare il martirio patito a causa delle vicende belliche. E allora i consiglieri comunali giunsero a individuare come gesto simbolico di protesta un atto altamente dirompente come la restituzione della Medaglia d’Oro al Valor Militare. Era stata appuntata sul gonfalone della città il 2 aprile 1949 da parte del presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Alla fine il disegno di legge Fanelli non fu convertito in legge e non si giunse all’istituzione del Tribunale di Sora.
Tuttavia si ebbero forti ripercussioni successive. Ci fu la fase preparatoria della proposta di legge di istituzione della provincia di Cassino. Lo presentò alla Camera dei Deputati alla fine 1956 l’onorevole Angelucci. Le varie Amministrazioni comunali del comprensorio ricadenti nell’istituenda nuova circoscrizione provinciale furono sollecitate a fornire la propria adesione. Sora rispose con un netto rifiuto. Anzi non solo Sora respinse fermamente l’ipotesi di far parte dell’istituende provincia di Cassino. Ondò oltre. Rispose avanzando un’analoga istanza a dimostrazione del clima di contrapposizione e conflittualità che si era venuto a instaurare tra le due città.