La Liberazione ad occhio e croce, tanto per rimetterla al centro delle cose belle

L'ennesimo 25 aprile polarizzato e sperso tra pignoleria e contrappesi: eppure basterebbe capire bene cosa ci ha portato davvero. A tutti noi italiani.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Vent’anni di dittatura, cinque anni di guerra e due anni di occupazione tedesca: al netto di ogni logorrea posteriore, il 25 aprile ha segnato la fine di queste cose. Che così, ad occhio e croce, sembrano bastevoli a motivare il fatto che sul 25 aprile non ci si debba dividere. E sul fatto che la storia alla fine una lezione ce l’ha data, a noi italiani, anzi ce l’ha ribadita ché è roba vecchia. La lezione per cui le pelosità sono cosa giusta ma appartengono al novero delle cose che stanno nelle teste dei posteri, non certo nel petto dei protagonisti.

Quelli no, quelli hanno vissuto la faccenda e ti diranno sempre e comunque due cose: il 25 aprile fu il freno ad una lunga deriva di orrori oppure fu il culmine di una grande serie di errori, il primo dei quali fu “tradire” la Germania. Questo come ricordava anni fa sulle sue testate Giuseppe Ciarrapico-Historicus nell’immancabile editoriale fisso datato 8 settembre. Ma loro, quelli che fecero la guerra civile, forse ce l’avevano, il diritto di pensarla in maniera così polarizzante.

Salotini e partigiani: “uguali” ma diversi

(Foto: Stefano Strani)

Un giovane salotino altro non era che un individuo nato con il fascismo, cresciuto con il fascismo e pronto a considerare quello fascista come il solo mondo possibile. Perciò andava difeso. Di contro, un partigiano era uno nato più o meno sotto il fascismo, cresciuto sotto il fascismo e pronto a considerare il fascismo come una via sbagliata e terribile. Perciò andava abbattuto. Dove stava la differenza? Cosa ci divise allora, dato che le precondizioni storiche erano eguali anche al netto di un’anagrafe mediamente più alta per gli oppositori?

Ci spaccammo e prendemmo il mitra per lo più in base a geografia regionale, cultura, sensibilità personale e storia familiare, è evidente. Tuttavia lo facemmo senza che noi, quelli del dopo, si debba cadere nel tranello di considerare le scriminanti buone o cattive, quella è roba da sociologia e la guerra non te lo dà, il tempo ed il modo per essere sociologo. E’ tutta roba ex post, roba che ammal(i)a benevolmente i contemporanei.

La facoltà che è anche un po’ obbligo etico

Benito Mussolini e Galeazzo Ciano

Noi però una facoltà aggiuntiva rispetto a quelli che vissero quegli anni ce l’abbiamo, solo che non sempre la usiamo al meglio. La facoltà di aver messo tra noi e quegli orrori cancellati dal CNLAI abbastanza tempo ed energie intellettuali da capire che il diritto di dividerci sul 25 aprile non ce l’abbiamo.

Abbiamo semmai il dovere di unirci in suo nome, tutti. Non abbiamo il veleno esistenziale di chi c’era. Ed abbiamo la serenità intellettuale di chi ha raccolto i frutti di quelle vittorie: sul fascismo, sulla guerra e sull’occupazione tedesca. Con tutti gli annessi e connessi che grondano lacrime e sangue. Che furono morte, distruzione, stragi, libertà picchiate prima ancora che i cittadini, delitti, stato di polizia, imbarbarimento etico ed appoggio alle aberrazioni anti-ebraiche.

E’ abbastanza, abbastanza per decidere con certezza assoluta che nel suo complesso ed in ogni sua singola componente quello fu il Nostro Male. Ecco perché certe pelosità, certi distinguo, certe ritrosie sottili e supercazzole alla fine non sono altro che il frutto di una forma di ostinazione ammuffita che però è anche indizio.

L’indizio che non siamo ancora riappacificati

L’indizio incombente per cui noi italiani non ci si è ancora riappacificati del tutto, con quel periodo buio e con le impalcature culturali e ideologiche che giocoforza in vent’anni produsse. Sovrastrutture lasciate a pascolare, scolorendosi via via, in molte generazioni. Quando e grazie ai Costituenti da noi arrivò la democrazia in purezza e con essa la sola la sola forma di governo capace di contenerla in giustezza fisica, la Repubblica, accaddero due cose. La prima: ci ritrovammo liberi di esecrare per mandato costituzionale quello che eravamo stati, quasi tutti o comunque in moltissimi, per due decenni.

Sì, quasi tutti, a contare che dopo il 25 aprile in Italia il numero di partigiani più o meno accreditati quadruplicò. Montanelli lo intese benissimo, scrivendo che “negli armadi degli italiani c’è un cappello pronto per ogni nuova esigenza”. Ogni lavacro è di per sé mediamente ipocrita, ma questo non lo rende affatto meno necessario.

Il paradosso delle dittature è che prima di esprimere la loro solitaria natura assertiva e durante il processo della loro affermazione hanno bisogno del consenso. Di una base acclamante che concimi e galvanizzi l’ego di chi brucia le regole elementari dell’Occidente liberale. E che ci è arrivato per gradi ed timorosi scatti in avanti, a capire che mettere il piede sulla nuca di un popolo non è poi così difficile. I tiranni sono tutti, immancabilmente, dei pavidi esploratori dei limiti umani di decenza.

La cura drastica ed il “ritorno di Fiamma”

Bruno Magliocchetti con Giorgio Almirante

La seconda delle due cose che accaddero: dovemmo svestirci e depurarci da quegli anni bui con una formula “strong”, una terapia d’urto che fosse proporzionale al nostro bisogno di oblio. Perciò nelle dinamiche della democrazia e dalle dinamiche della democrazia ci affrettammo ad escludere anche coloro che, paradossalmente ed in virtù di quella stessa democrazia, erano eredi della dittatura.

Sbagliammo, ma avevamo ancora sangue secco, spesso sangue nostro, sulle dita che scrivevano il futuro, perciò sbagliammo ma in ottima fede. Così facendo li reprimemmo, li schiacciammo nel loro odio revanscista. E gettammo seme per un “ritorno di Fiamma”, è il caso di dire.

Questo affinché, sia pur in un lungo processo di affrancamento dai loro miti neri, in loro covasse sempre, distintamente, il rancore di chi non vede l’ora di riprendersi il suo posto nella Storia. Perché la storia delle dittature – di destra o sinistra poco cale – è figlia di Hegel e dello Storicismo, cioè contiene il senso di un destino ineluttabile a cui nessuno può sottrarsi. E quando te lo rubano tu – anche ove analfabeta – la senti, quella scossa. Ti senti in credito, non in debito. Con la storia e con la tua Nazione.

Il ritorno, le nuove vesti, le difficoltà

(Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

Quando, grazie alla stessa democrazia che i loro “nonni” esecravano, costoro sono arrivati – anche depurati, francamente repubblicani ed incontestabilmente moderni – a riconquistare l’apice della piramide, è accaduto quel che vediamo. La difficoltà quasi fisiologica, per alcuni di vertice e moltissimi della base, di ammettere che gli step orrendi la cui fine celebriamo ogni anno in calendario furono seguiti da un momento assoluto di libertà.

Momento di cui gioire abbracciati. Ed il cui spirito trasmettere con forza senza tentennamenti, senza remore, senza giri di parole. A casa, a scuola e per strada, felici di poterlo fare. E ainoi senza “vannaccismi” o monologhi (o)Scurati. Le attuali controparti politiche fanno il loro gioco, etico e tattico al contempo. Vedono il nervo scoperto e lo pizzicano ad arte, in loop quotidiano. Perciò si genera quel cortocircuito culturale che viviamo anche ed ancora oggi.

Una conta spicciola, per capire

Pietro Nenni e Sandro Pertini al XXXV Congresso del PSI nel 1963 (Foto © Fondazione Nenni)

Quello per cui il 25 aprile viene solennizzato da molti, usato da alcuni e mal digerito da pochi, pochi tra cui spiccano anche alcuni a cui oggi è delegato il compito istituzionale di glorificarlo. Ecco perché, per sanare l’impaccio e per rimettere il 25 aprile al centro delle cose belle – aiutando a liberarsi anche chi lo mette nel novero delle cose solo necessarie – basta quella conta spicciola qui in alto.

Vent’anni di dittatura, cinque anni di guerra e due anni di occupazione tedesca. Con annessi e connessi, tutti fatti di carne e sangue nostri. Questo scalciammo via dallo Stivale quel giorno a Milano e con gli stivali sporchi di Pizzoni, Longo, Pertini, Valiani e Sereni. E ad occhio e croce facemmo benissimo. Tutti. Perciò tanti auguri, Italiani.