C’era una volta…la bottega di paese (Il caffè di Monia)

Foto © Maria Grazia Schiapparelli

Un caffè per aprire gli occhi sulla memoria di un passato che poco alla volta è quasi del tutto scomparso. le botteghe di paese. Con il loro microcosmo. Fatto di attenzioni e di parole. Che prima non notavamo

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

La felicità era fatta di piccole cose. D’intese silenziose e freschi spazi d’ombra. Era il tepore del pane o riconoscere il rumore dei passi di qualcuno tra quello degli altri in strada. Era parlare ogni giorno delle solite cose, che pure avevano una loro forma meravigliosa. 

Erano così le botteghe di paese. Paesi nei paesi, con un loro statuto, una loro identità, una legge propria. Paesi roccaforti inespugnabili, autosufficienti, bastanti a se stessi. 

Tolte di mezzo le autorità che erano tre: il sindaco, il curato e il medico, ad ogni esercizio attendeva un personaggio, una caricatura, un pilastro imprescindibile più di un vicolo, una piazza, un monumento, un luogo sacro. 

Li abbiamo dimenticati. Abbiamo dimenticato tutto. Li abbiamo traditi, rimpiazzati, ammazzati. 

E di quei delitti non restano che buchi vuoti nella memoria e nei muri di questi nostri paesi che si atteggiano a metropoli. 

Come è potuto passare di moda il generi alimentari? Il negozietto di alimentari era qualcosa di mistico. Una coppia improbabile che gestiva in qualche strana forma di accordo tanta di quella roba da sfamarci l’intera Africa. Lui era il primo a tirare su la serranda. Sempre alla stessa ora, potevi rimetterci l’orologio. 

Affettava, pesava, spolverava, sistemava cose che non avevano bisogno di alcuna cura. Lei, se ne stava seduta tutto il giorno accanto a contare monetine e risparmiava anche l’aria respirata. Doveva essere la prima tappa, quasi obbligata. Quei profumi come incenso e quei colori ti invitavano ad entrare. Sul banco in bella vista le forme di formaggio, in tutte le sfumature del bianco e del crema, fino al giallo narciso; il prosciutto delizioso, il burro fresco, splendenti mucchi di olive nere salate ed enormi barattoli di olive verdi in salamoia; uova accatastate ancora nei grandi panieri tondi di paglia dorata e salami artigianali grossi come un pilastro della chiesa.

Il primo “buongiorno”, il primo commento sul mondo. 
Lui, da dietro il banco ti conosceva a memoria, era magico. Sapeva prima di te cosa ti mancava nella dispensa, quanta ne volevi e come l’avresti cucinata quella roba lì.

Conosceva a memoria tutti i ragazzi delle scuole. A chi la rosetta col prosciutto, a chi quella con la mortadella che lasciava una scia di buono fin su la scalinata dell’istituto. 

Il venerdì arrivava il baccalà fresco. La signora in evidente sovrappeso e col volto di chi ha passato troppe sciagure ma rugosamente serena si impostava sull’uscio e pareva la pescivendola che lanciava il suo richiamo in Creuza de ma.

Il furgoncino sgangherato con la frutta e verdura cresciuta all’aria buona delle campagne era proprio lì, accostato al muro della bottega. 
Una bilancia arrugginita più per pesare il tempo che le cose vendute. Il secondo saluto era per quell’ometto distratto. Vestito sempre uguale e che cambiava umore come cambiava il tempo. Se chiedevi qualcosa, nella busta poi ti ci infilava un po’ di tutto. Con la stessa lentezza della lumaca sulla foglia di lattuga. 

Le signore con il portafoglio in mano, chiuse nelle loro vestaglie da passeggio, quelle nuove coi bottoni ricuciti, commentavano nascite, unioni e disgrazie con la signora della merceria. 

Lei non vendeva solo filati e stoffe, ma ad un certo punto della sua carriera era diventata fornitrice ufficiale dei palloni Super Tele, quelli che duravano il tempo di un lancio perché puntualmente, dopo una rovinosa caduta fra i rovi, si sgonfiavano miseramente. 

E’ ancora lì la merceria. Nascosta dietro le palpebre chiuse di legno. Un buco della serratura grosso come una finestra per farci girare dentro una chiave di ferro che ci si potrebbe aprire il Colosseo. 

Ancora sul banco graffiato le forbici, il metro, le scatole dei filati pregiati. Ancora lì, come se nessuno li avesse avvertiti che chi li usava non tornerà. 
L’edicola era come la farmacia. Un punto di riferimento immediato, sicuro. Tutti andavano all’edicola più per sentirsi parte di un universo che per leggere davvero le notizie. Troppo lontane, troppo distanti. Lì le cose si commentavano all’istante con l’edicolante. Mentre accadevano. Era lui, più dell’avvocato a promuovere torti e ragioni, ad impartire consigli e maledizioni. Lui sapeva tutto e su tutto aveva un parere. Sacrosanto. Incontrastabile. 

Di tutto quel sapere è rimasto solo un brandello di un trapassato “Messaggero” attaccato ai vetri impolverati. Nonostante la pioggia caduta non vuole mollare. Ma mollerà. Quell’edicola nuda, sbarrata è triste, inquietante. Non la vogliono più nemmeno i cinesi. 

Testimoni silenziosi, specchi di nuvole e stelle, erano lì, nobili e ribelli: i sampietrini lucidati dal tempo. Erano il bello semplice, il libro aperto su voci, suoni, luci e ombre. Un tappeto di mille storie, fatto di passi, cadute, corse, matrimoni e funerali. Un paese senza trucco. Un paese di tacchi bassi e voci altissime. Dalla terra, quell’ universo che tutto abbracciava e teneva a sé, anche le contraddizioni e i vuoti. Come un ragno la sua tela. Un arcipelago le sue isole. 

All’imbrunire si chiudeva bottega e ci si ritirava in casa; ci si sarebbe ritrovati l’indomani, ciascuno ad accordare il proprio strumento e di nuovo pronti ad orchestrare il concerto del giorno. 

Siamo stati ciechi. Ognuno ha camminato guardandosi nello specchio che reggeva in mano. Abbiamo barattato il sacro miracolo del vero per una finta comodità profana. 

Ma tutte le cose importanti restano, e sono poche. Come il filo che tiene al palo l’aquilone. Le altre si dileguano da sé, sciogliendosi senza traccia. Dietro ai rintocchi, tra quei sampietrini, le vere pieghe dei paesi. 
Quelle che dureranno all’infinito e non moriranno mai per sempre.