La guerra e lo strano destino di Edoardo tra Viticuso e la Scozia

Dalla morte scansata grazie alla prigionia all'arte amata "grazie" alla schizofrenia fino al rapporto con Wittgenstein, un'epopea Cassinate

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

Le prime vittime del Secondo conflitto mondiale originarie del Lazio meridionale non furono i residenti nei Comuni della provincia di Frosinone ma civili di questo territorio emigrati, anche da anni, in Gran Bretagna.

Il 10 giugno 1940 Benito Mussolini davanti a una folla straboccante a Piazza Venezia aveva annunciato che era giunta «l’ora delle decisioni irrevocabili» e che la «la dichiarazione di guerra [era] già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra». L’Italia entrava in guerra. Iniziava un periodo difficile, drammatico, luttuoso, gravido di forti conseguenze.

Da quel momento e per i primi tre anni la guerra toccò le famiglie che avevano loro congiunti a combattere sui vari fronti ma poi entrò prepotentemente nelle case degli italiani e in specie anche di quelli del Lazio meridionale. Lo fece con la veloce successione degli eventi dell’estate 1943. Il 10 luglio 1943 sbarco di Sicilia, il 19 luglio bombardamento di Roma e dell’aeroporto di Aquino, il 25 luglio caduta del fascismo, poi il fatidico 8 settembre annuncio dell’Armistizio. Fino al 10 settembre con il primo bombardamento di Cassino.

“Italiani enemy”: gli arresti in Gran Bretagna

Internati nell’Hutchinson Internment Camp’ per enemy aliens – 1940/41 (Foto: Major H.O. Daniel. Da The estate of Hubert Daniel. Foto © Tate)

Nel giorni successivi all’annuncio della dichiarazione di guerra in Gran Bretagna furono arrestati migliaia di italiani. Ormai l’Italia era un Paese nemico, in guerra con il Regno Unito. Furono arrestati senza fare nessuna distinzione. Persone emigrate che vivevano nell’isola ormai da decenni, che caso mai avevano già avuto il riconoscimento della cittadinanza britannica. E perfino fuoriusciti antifascisti scappati durante il ventennio. Erano degli «enemy aliens» cioè «stranieri nemici» come erano stati definiti. Oltre agli italiani erano stati arrestati anche gli uomini degli altri Paesi nemici e cioè di Germania e Austria.

L’anno successivo identica situazione venne a proporsi negli Stati Uniti. Dopo l’attacco di Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, furono arrestati migliaia di emigrati italiani e giapponesi. Accanto al Giappone (ma dopo l’attacco nel Pacifico) anche Italia e Germania avevano dichiarato guerra agli Usa. Fino a quella data gli Stati Uniti erano rimasti fuori dalle vicende belliche, fornivano armi, munizioni e altri materiali alla Gran Bretagna. Ma non erano impegnati direttamente perché la maggior parte dei deputati del Congresso e dell’opinione pubblica nazionale era contraria a impegnarsi in un conflitto considerato solo europeo.

Inferno a Pearl: la guerra diventa mondiale

Un appello degli internati nell’Hutchinson Internment Camp per enemy aliens – 1940/41 (Foto: Major H.O. Daniel. Archivio familiare Klaus Hinrichsen © Tate)

Con l’attacco di Pearl Harbour l’America fu costretta a entrare in guerra contro il Giappone. Immediatamente dopo si pose la questione se l’impegno bellico americano dovesse limitarsi al solo scacchiere del Pacifico. Tuttavia subito dopo arrivarono le dichiarazioni di guerra di Italia e Germania, l’America e Roosevelt non ebbero più indecisioni. La guerra diveniva mondiale.

Anche in America per prima cosa fu avviata la campagna di arresto degli «enemy aliens», con italiani e giapponesi che vennero rinchiusi in campi di internamento appositamente istituiti.

Tuttavia con l’andare del tempo la guerra richiedeva un numero sempre maggiore di soldati da inviare al fronte. Le autorità politiche e militari statunitensi allora decisero di utilizzare anche i giovani italo-americani e nippo-americani. I ragazzi italo-americani furono impiegati soprattutto, ma non solo, con lo sbarco di Sicilia. Questo al fine di tenere i rapporti con le popolazioni locali, per la comunanza di lingua e la presenza di parenti dislocati sul territorio.

Invece gli americani di origine giapponese (detti nisei) furono utilizzati per la prima volta in combattimento nel tentativo di attraversamento del fiume Gari a Sant’Angelo in Theodice nel gennaio 1944. Fu il loro battesimo del fuoco e subirono gravi perdite. Oltretutto i militari americani inizialmente non volevano combattere fianco a fianco con i nisei, ancora bruciava il ricordo di Pearl Harbour. Poi alla fine della Campagna d’Italia il corpo militare costituito dai nisei fu il più medagliato dell’Esercito americano per gli atti di eroismo e il coraggio dimostrato in battaglia.

Nisei e Maori: da paria ad eroi, a Sant’Angelo

Il 28th Battaglione Māori in attesa di entrare in azione a Cassino nel 1944. In primo piano il Second Lieutenant William Sutherland Laurence McRae di Christchurch

Ecco che intesero trovare il modo di riscattare e riscattarsi con le loro azioni di valore che costarono, però, molte vite umane. Simile sorte l’ebbero anche i maori che combattevano con l’Esercito della Nuova Zelanda. I nativi neozelandesi erano considerati in patria alla stessa stregua dei nativi sudafricani che poi hanno dato vita alla lotta all’apartheid di segregazione razziale con Nelson Mandela. I maori  intesero riscattare le loro situazione sociale nelle battaglie per la conquista di Cassino dissanguandosi anch’essi fortemente alla stazione ferroviaria, alla Rocca Janula.

C’è anche un terzo riscatto avvenuto nel corso della conquista di Cassino ed è quello degli indiani d’India che da colonia inglese raggiunse l’indipendenza nel 1947. (Gli indiani d’America, i nativi, i pellerossa lo fecero invece nelle varie battaglie altrettanto sanguinose nel Pacifico).

Tornando alle vicende degli italo-britannici d’inizio estate del 1940, furono circa 4.500 quelli rastrellati e arrestati, considerati fascisti, spie e nemici. Winston Churchill per motivi di sicurezza interna emanò un decreto di espulsione. E decise di deportarli nell’isola di Man oppure lontano dalla Gran Bretagna, trasferendoli in campi di prigionia in Canada e in Australia.

L’affondamento della “Arandora Star”

La Arandora Star

Il primo luglio 1940 salpò dal porto di Liverpool la motonave Arandora Star destinata a raggiungere il Canada. L’imbarcazione aveva a bordo 1.564 persone di cui quasi la metà (712) emigrati italiani arrestati nel mese precedente. Ma anche austriaci e tedeschi, oltre a uomini di scorta e membri dell’equipaggio. Il giorno successivo la nave fu silurata al largo della costa irlandese dal sommergibile tedesco U47 comandato da uno degli assi dell’ammiraglio Karl Doeniz, il comandante Gunther Prien. Affondò. Morirono 446 emigrati italiani di cui 80 provenienti da Comuni del Lazio meridionale e del Molise.

Dei periti 18 erano originari di Picinisco, 14 di Cassino, 5 di Viticuso. Provenivano da quest’ultimo Comune e morirono nelle acque gelide del mare Adolfo Paolozzi (gelataio) e altri due facenti parte dello stesso nucleo familiare, Emilio e Pietro Rossi cognato e suocero del primo. Erano stati arrestati a Edimburgo, dove vivevano, assieme a un quarto componente del nucleo familiare, il giovane Edoardo, sedicenne figlio di Adolfo.  

Edoardo Paolozzi: “salvato” dalla prigionia

La ‘MS of Monte Cassino’ scultura in bronzo in tre parti di Eduardo Paolozzi – Picardy Place, Edinburgo, Scozia

Edoardo Paolozzi non seguì i familiari, non fu imbarcato sull’Arandora Star ma fu trattenuto in una prigione e poi inviato in un campo d’internamento sull’isola di Man. Nel 1943 venne arruolato nell’Esercito britannico (leva militare) e si finse malato di mente per essere congedato. “Gli fu data la scelta di rimanere in prigione o andare a combattere sul fronte“. Dopo aver vissuto la dolorosa l’esperienza di tre anni prima quando aveva perso il padre, lo zio e il nonno nell’affondamento dell’Arandora Star non voleva fare né l’uno né l’altro.

Andò quindi in una biblioteca e si documentò sulle malattie mentali. «Fece finta di essere schizofrenico e finì in un istituto per malati mentali. Una volta lì, chiese di poter andare in Accademia delle Belli Arti». Fu un modo incredibile per sopravvivere alla guerra ma allo stesso tempo fu un modo che gli dette l’opportunità di avvicinarsi al mondo dell’arte. Divenendo uno dei più importanti artisti della seconda metà del Novecento, significativo esponente della pop art inglese, precursore di Andy Warhol, 

Eletto membro dell’Accademia Reale di Gran Bretagna, nominato alla carica [a vita] di scultore di Sua Maestà «in Ordinario» per la Scozia (1985) e designato dalla regina Elisabetta II quale Cavaliere del Regno Unito (1989). Sir Eduardo Paolozzi fu anche docente di scultura in varie università, espose nei migliori e maggiori musei del mondo. E fra l’altro fu chiamato a disegnare la copertina del disco di Paul Mc Cartney, Red Rose Speedway.

Que futuro beat che fece i “Campi Balilla”

La copertina di Red Rose Speedway

Il rapporto con le origini italiane era stato sempre presente nella vita di Edoardo Paolozzi. Era stato portato per la prima volta a Viticuso dal padre all’età tre anni. Nonostante le non poche difficoltà di viaggio dalla Scozia a Roma, poi a Cassino e infine a dorso di un mulo fino al paesino delle Mainarde. Papà Adolfo orgogliosamente portava il suo primo figlio maschio nei suoi luoghi d’origine a far conoscere alla famiglia. Poi dall’età di nove anni Edoardo vi faceva ritorno per tre mesi in estate.

A quel tempo si svolgevano i «campi Balilla» dove poté maturare una significativa esperienza nella quale ebbe la possibilità di imparare la vita di campo che lo aiutò ad affrontare la prigionia negli anni di guerra.

La preparazione artistica di Edoardo Paolozzi fu solida al pari di quella culturale. Ebbe modo di conoscere abbastanza presto il pensiero di Ludwig Wittgenstein, viennese tra i più importanti filosofi del panorama culturale europeo trasferitosi per studio in Inghilterra. Accadde tramite un articolo sul suo conto e poi leggendo le due opere del filosofo austriaco allora disponibili. Il rapporto dovette venirsi a cementare anche perché, per un verso o per l’altro, tutti e due erano legati, seppur indirettamente, al Cassinate.

Paolozzi per l’origine di Viticuso della famiglia, Wittgenstein invece era tenente dell’Esercito austro-ungarico: venne fatto prigioniero il 3 novembre 1918, il giorno antecedente alla firma dell’armistizio di Vittorio Veneto. E per questo aveva vissuto per otto mesi da internato nel Campo di concentramento di Caira-Cassino, fino al 21 agosto 1919 quando fu liberato.

Wittgenstein: ispiratore e guida di pensiero

Ludwig Wittgenstein

Paolozzi ne fu talmente preso che parte della sua produzione figurativa è stata ispirata da Wittgenstein. Come provano le statue, le serigrafie e i collage che egli realizzò nel corso degli anni con esplicito riferimento al filosofo viennese. La serie serigrafica, formata da 12 elementi, rappresenta uno dei primi esempi di stampa pop in Inghilterra e fa riferimento alla vita, agli scritti e alle teorie del filosofo austriaco. Riportando citazioni provenienti da scritti di Wittgenstein oppure a riferimenti biografici.

Poi nel 1963, attratto dal pensiero del filosofo austriaco, l’artista italo-scozzese realizzò due sculture in alluminio pressofuso e saldato. Sculture di cui una porta come titolo una proposizione del filosofo mentre l’altra Paolozzi volle dedicarla direttamente a Wittgenstein. Tuttavia non si fermò lì perché volle aggiungere nel titolo anche un altro elemento caratterizzante che lo legava al filosofo austriaco. Infatti associò al nome del filosofo il dato territoriale della città nella quale era stato internato, cioè Cassino. E così gli dette il titolo di Wittgenstein at Cassino.

L’opera è oggi esposta all’Henry Moore Institute di Leeds nel Regno Unito. Secondo alcuni studiosi, oltre al dato territoriale del Cassinate c’era anche un altro elemento comune che univa Paolozzi a Wittgenstein. Era rappresentato dal fatto che tutti e due, l’uno proveniente da Vienna e l’altro da una famiglia italiana, si sentissero in qualche modo degli stranieri in Gran Bretagna.

L’ultima volta nella sua Viticuso

Wittgenstein at Cassino (Henry Moore Institute di Leeds)

Edoardo Paolozzi tornò per l’ultima volta a Viticuso nel 1952. Il Comune delle Mainarde volle rendere omaggio all’illustre artista concedendogli nel 2004, un anno prima della scomparsa, la cittadinanza onoraria.

Quando giovani e meno giovani del Cassinate vanno («da ospiti e non da turisti») a Edimburgo, l’affascinante città con il suo storico castello e le belle strade del centro, hanno la possibilità di respirare un po’ di aria di casa. La metropoli scozzese ha voluto ricordare sir Eduard Paolozzi collocando una delle sue più imponenti opere all’interno del tessuto urbano. Si tratta di una scultura in bronzo formata da tre parti distinte (una mano, un piede e una caviglia), originariamente posizionata a «Picardy Place».

Cioè l’area cittadina edimburghese abitata un tempo da emigrati italiani e da cui è possibile vedere la casa natale di Paolozzi. Ma poi ricollocata all’inizio del 2020 in uno spazio appositamente ricavato di fronte alla scalinata che conduce alla Cattedrale cattolica di St. Mary.

Il tributo a Montecassino e l’appello di pace

La visione di insieme dei tre pezzi di ‘MS of Monte Cassino’ – Picardy Place, Edinburgo, Scozia

La scultura porta il  titolo di The Manuscript of Monte Cassino e appare come un tributo dell’artista italo-scozzese all’abbazia di Montecassino distrutta durante la Seconda guerra mondiale.

È un’opera dispersa come le parti di un corpo smembrato da un’esplosione per cui è divisa in tre gigantesche parti: un piede, una mano aperta e una caviglia. Su quest’ultima è incisa una epistola scritta da Carlo Magno e diretta a Paolo Diacono, monaco cassinese. Un testo che fa appello alla pace e alla bontà offerta da Montecassino e dai suoi monaci.

È come se l’artista, di fronte al cumulo di macerie di Montecassino si fosse chiesto incredulo: ma è così che gli eventi bellici del secondo conflitto mondiale hanno ridotto «questo luogo di pace e amore?»