“Rivogliamo il Discobolo Lancellotti”: storia di una richiesta irricevibile

Il direttore della Gipsoteca di Monaco di Baviera ha inteso riaprire un caso che affonda le sue radici in sopraffazioni, trucchi e imbrogli

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

In queste ultime ore è rimbalzata sui mezzi di comunicazione italiani la richiesta avanzata dalla Germania (per la precisione dal direttore della Gipsoteca di Monaco di Baviera) di restituzione di una statua. Quella del «Discobolo Lancellotti» o «Discobolo di Mirone» o «Lanciatore di disco». Era già successo incredibilmente a fine della guerra e ora si ripresenta di nuovo a distanza di un’ottantina di anni.

Il «Discobolo Lancellotti» è una statua di marmo di m. 1,54 di altezza, copia romana di una scultura bronzea realizzata intorno al 455 a.C. da Mirone. Proveniente da Villa Palombara sull’Esquilino a Roma e trasferita poi a Palazzo Massimo Lancellotti. Prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale era di proprietà del principe Lancellotti. 

Della statua si era innamorato Hitler. Infatti la fiera potenza plastica del «Discobolo di Mirone» aveva stregato la fantasia di Hitler. Questo complice il film di Leni Riefenstahl dal titolo Olympia girato in occasione delle Olimpiadi tenute a Berlino nel 1936. Nel film la millenaria statua romana si animava evocando ed esaltando la figura di un atleta ariano. Hitler allora pose la statua al primo posto nella lista di opere da acquistare in Italia.

La Commissione voluta dal Fuhrer

Filippo von Essen-Kassel

Il führer aveva persino istituito una speciale Commissione che era giunta nel 1937 a Roma con lo specifico scopo di provvedere all’acquisto di opere d’arte italiane. Commissione che aveva una importante dotazione finanziaria in franchi svizzeri e che era stata affidata al principe Filippo d’Assia. Che fu il facilitatore della transazione di opere come il «Discobolo», ma anche di molte altre, esportate illegalmente in Germania.

Infatti Filippo von Essen-Kassel (1896-1980), langravio d’Assia, ufficiale delle SS presso il quartier generale di Hitler, aveva sposato Mafalda di Savoia, la figlia di re Vittorio Emanuele III. Fu poi arrestato dopo l’8 settembre 1943 con l’accusa di aver preso parte al complotto del suocero che aveva portato alla destituzione di Mussolini. Fu internato nel campo di concentramento di Flossemberg mentre la moglie, la principessa Mafalda, fu deportata nel lager di Buchenwald dove morì in seguito a un’operazione chirurgica non necessaria.

La statua del «Discobolo» fu venduta a Hitler il 18 maggio 1938. Il 9 giugno del 1938 giunse a Monaco di Baviera. Nonostante facesse parte del patrimonio italiano come opera di alto interesse nazionale e dunque seppur vincolata dalle leggi italiane che ne impedivano il trasferimento al di fuori dei confini nazionali. Vi giunse in attesa di essere portata al Führermuseum, il museo che secondo le intenzioni di Hitler a fine guerra doveva diventare il più grande e il più importante d’Europa. (Leggi qui: Quando il tesoro di S. Gennaro e quello di Montecassino viaggiarono insieme).

Il no di Bottai e il blitz di Ciano

Benito Mussolini e Galeazzo Ciano

Ne aveva previsto la costruzione non in Germania ma in Austria, a Linz, città che doveva divenire la capitale artistica del Terzo Reich. L’idea che anche la Germania nazista dovesse avere un suo polo artistico-culturale era venuta in mente a Hitler in seguito alla visita che aveva fatto il 9 maggio 1938 a Palazzo Pitti. Ed agli Uffizi a Firenze. 

Il ministro dell’Educazione Nazionale, da cui allora dipendeva la gestione dei beni culturali italiani, Giuseppe Bottai tentò di opporsi all’esportazione del «Discobolo». Tuttavia intervenne Galeazzo Ciano, genero di Mussolini che impose lo sblocco della pratica di esportazione. Ufficialmente «per ragioni amministrative» e così la statua lasciò l’Italia. Il «Discobolo» fu la prima importante opera a raggiungere la Germania, cui fecero seguito molti altri capolavori.

Al ministero dell’Educazione Nazionale ben conoscevano gli interessi che i tedeschi avevano nei confronti dei beni artistici italiani. Una particolare attenzione dimostrata largamente negli anni prebellici.E in quelli di guerra quando parte del patrimonio italiano era stato minacciato dalle brame collezionistiche di Hitler, cui si aggiungevano anche quelle di altri gerarchi nazisti come Hermann Göring.

L’accordo “furbo” con Roma

Il discobolo Lancellotti

Per il «Discobolo» e per le altre opere d’arte era sempre stato emesso parere negativo all’esportazione da parte degli organismi nazionali preposti (Consiglio Superiore delle Scienze e delle arti). Per superare la rigidità del ministero dell’Educazione Nazionale, Hitler propose al Governo italiano un accordo. In cambio di una maggiore accondiscendenza alle richieste di esportazione di beni verso la Germania i nazisti si impegnavano a recuperare le opere d’arte italiane. Quelle «asportate durante il periodo napoleonico e non restituite dalla Francia dopo il congresso di Vienna»

I nazisti operarono una «incetta» di capolavori dell’arte, di preziosissimi beni culturali italiani non solo prima ma finanche nei mesi di guerra. Il fatto fu che l’«incetta» dei nazisti avvenne con il beneplacito, l’interessamento o la connivenza dei massimi esponenti fascisti. A partire dallo stesso Benito Mussolini o dal genero Galeazzo Ciano, che si adoperarono nel favorire la fuoriuscita verso la Germania dei capolavori d’arte italiani acquistati. Se non addirittura donati da loro stessi a Hitler o ai gerarchi nazisti nonostante il titolare del dicastero dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai avesse tentato di arginarne la fuoriuscita

Cosa andò a finire in Germania

La Torre di Marghera – Canal Giovanni Antonio detto Canaletto – Sec. XVIII – Collezione privata

Tuttavia finirono in Germania, destinati al Museo di Linz, in via di costruzione, regalate da Mussolini a Hitler, opere di Hans Makart (La peste a Firenze). Di Rubens (Ritratto equestre di un principe Doria). Poi di Canaletto (Torre di Marghera), Hans Memling (Ritratto virile o Ritratto di uomo, del Tiepolo, una Leda di scuola leonardesca e altri importanti beni. Nonché vari quadri di Bernardo Strozzi donati dal principe Filippo d’Assia a Hitler.

Dal canto suo Hermann Göring, che aveva ricevuto in dono per il suo compleanno, la Leda inginocchiata con i figli, nel 1942 aveva provveduto ad acquistare a Firenze 16 dipinti del Rinascimento italiano. (Tintoretto, Canaletto, Sebastiano Ricci, Sanchéz Coello, Veronese ecc.). Aveva anche provato a far acquistare Quattro portelle tardogotiche e due dipinti facenti parte dello stesso altare che i trovavano nel Museo civico di Vipiteno. Quando il ministro Bottai ne impedì il trasferimento in Germania intervenne Galeazzo Ciano.

E il 6 aprile 1943 le quattro portelle e i due dipinti giunsero a Berlino come dono al gerarca nazista da parte di Mussolini. Che aveva fatto appositamente comprare quelle opere dallo Stato italiano per una somma ingente e «contro la stessa volontà del comune» di Vipiteno. Inoltre Göring il 12 gennaio 1943 mostrò con orgoglio ai suoi invitati in occasione del suo cinquantunesimo compleanno nella sua tenuta di Carinhall a Berlino, il dono fattogli dalla «Divisione Göring». Cioè quattrodici casse con quadri e statue che i militari tedeschi avevano sottratto a Montecassino dove erano state portate in deposito provenienti dai musei di Napoli.

Un patrimonio in mezzo al sale

Rodolfo Siviero dopo aver recuperato la Danae di Tiziano

Si trattava di capolavori come la Danae e la Lavinia di Tintoretto, oppure quadri di Sebastiano del Piombo o di Jacopo Palma. E di reperti archeologici provenienti dagli scavi di Pompei e di Ercolano, statue come l’Hermes, l’Apollo citarista o una coppia di cerbiatti.

A fine della Seconda guerra mondiale parte dei beni razziati dai tedeschi in Italia e nel resto d’Europa (soprattutto in Francia quelli appartenenti alle collezioni di ricche famiglie ebree) furono rinvenuti in una miniera di sale ad Altaussee. E’ una cittadina ubicata vicino a Salisburgo in Austria. Altri beni furono rinvenuti sparsi in altri depositi in Germania.

Tutti quei capolavori furono portati al «Collecting Point» di Monaco di Baviera, punto di raccolta centrale aperto proprio nell’ex sede del Partito nazional-socialista. In quegli ambienti si costituì un immenso deposito usato dalla Commissione alleata per analizzare, catalogare, fotografare e poi redistribuire le opere d’arte e i materiali confiscati ai legittimi proprietari.

Il governo italiano inviò nel capoluogo bavarese una Commissione incaricata di provvedere a richiedere la restituzione dei beni sottratti dai nazisti. Della Commissione facevano parte Rodolfo Siviero e Giorgio Castelfranco e fu per merito loro se fu possibile convincere le autorità alleate, in particolare quelle americane, e giungere alla restituzione del patrimonio artistico-culturale sottratto. Non fu, per la verità, facile a causa delle istanze di altri Stati.

I Paesi che rivolevano le opere indietro

Il generale Clay con il generale Eisenhower al Gatow Airport di Berlino durante la Conferenza di Potsdam del 1945 (Foto: U.S. National Archives and Records Administration)

Ad esempio la ex Jugoslavia e la Grecia avevano avanzato richiesta che quei beni italiani venissero loro assegnati come risarcimento danni delle opere d’arte danneggiate o distrutte nel corso dell’occupazione militare italiana in guerra. Alla fine però gli americani ritennero valide le ragioni addotte da Siviero e Castelfranco e i beni razziati, sottratti o rubati furono restituiti all’Italia. Il primo agosto 1947 il governatore militare americano della Germania, generale Lucius Clay, riconsegnò alla delegazione italiana le opere trafugate.

Opere che furono portate a Bolzano e poi a Roma dove furono esposte in una mostra allestita, a villa Farnesina, nella sede dell’Accademia dei Lincei, inaugurata il 9 novembre 1947 alla presenza delle maggiori autorità politiche italiane, diplomatiche e militari americane. Quindi aperta al pubblico a partire dal giorno successivo fino al 10 gennaio 1948.

Rimaneva però aperta la questione della restituzione di tutti quei beni che non erano stati rubati o razziati ma acquistati da Hitler e Göring. Oppure donati da Mussolini e Ciano. Fra essi il «Discobolo Lancellotti» e tanti altri capolavori. Per Siviero e Castelfranco fu ancora più difficile in questo caso far prevalere le motivazioni italiane. Infatti la questione non rientrava nelle clausole del Trattato di pace né del regolamento generale delle restituzioni.

Scende in campo la diplomazia

Giorgio Castelfranco

Allora fu necessaria la predisposizione di tutta una serie di relazioni, la trasmissione di documentazione e richieste, nonché dovettero essere imbastite sottili trattative diplomatiche. Questo perché il Governo militare alleato in Germania riconoscesse la validità delle ragioni italiane. Alla fine le autorità americane autorizzarono la riconsegna di 39 opere

Tuttavia mentre a Monaco di Baviera quei beni stavano per essere imballati nelle casse per essere riportati in Italia le operazioni finirono per arenarsi. Ecco che il 30 giugno 1948 alcuni studiosi d’arte tedeschi, archeologi e soprintendenti di Musei in Germania, inviarono una lettera al responsabile delle operazioni, il generale americano Lucius Clay. Lo fecero chiedendogli di bloccare la restituzione.

Quindi le pressioni tedesche contrarie alla riconsegna delle opere all’Italia andarono aumentando d’intensità tanto che l’intera questione fu di nuovo riesaminata. In sostanza i tedeschi sostenevano che quelle opere d’arte non erano state trafugate, non erano state razziate, non erano state rubate. Ma che erano giunte in Germania dopo essere state regolarmente acquistate in Italia oppure erano arrivate come dono. Dunque la «colpa dell’esportazione in Germania era del Governo italiano e non dei tedeschi»

Come ti ritocco un elenco

Madonna dell’Umiltà di Masolino da Panicale

Si intrecciarono note, informative, ricorsi, ordini e contrordini. Il 15 settembre 1948 Siviero inviò una lettera di chiarimento facendo leva, in particolare, sul fatto che quelle opere erano giunte illegalmente in Germania. Riuscì così a convincere gli Alleati che sì le opere erano state acquisite dai tedeschi ma erano state esportate. Quindi contravvenendo le leggi italiane in violazione del vincolo del 1909. Il gen. Clay riconobbe la validità dei rilievi avanzati dall’Italia e autorizzò la restituzione.

Ancora una volta i funzionari e addetti tedeschi incaricati delle operazioni di imballaggio presso il «Collecting Point» di Monaco di Baviera tentarono di boicottare il rientro in Italia di quei beni. Essi infatti giunsero a “maneggiare” la scheda riportante l’elenco autorizzato dagli americani, la modificarono. Avanzando anche dubbi che talune opere in elenco non fossero proprio quelle asportate dai nazisti. Per rendere ancora più incerta la situazione, nell’elenco erano state inserite anche due opere che erano mai giunte in Germania ma si trovavano in Italia.

Questo in quanto il principe d’Assia non era riuscito ad esportarle. Inoltre fu redatto un ulteriore elenco, inviato a Siviero, con il quale veniva informato di una serie di opere che non erano state rintracciate. Per di più per il dipinto della Madonna dell’Umiltà di Masolino da Panicale, che era stata avviato all’imballaggio, fu avanzata la richiesta da parte di un esponente del governo bavarese. Richiesta «di soprassedere» alla riconsegna anche nell’interesse dell’Italia. 

La nuova battaglia: nel ’49

Il presidente Harry S. Truman (Foto: U.S. National Archives and Records Administration)

Finalmente il 16 novembre 1948 giunse la notizia che parte delle opere incluse nell’elenco «sarebbero state rilasciate». In quello stesso giorno grigio, piovoso e freddo, poterono partire per l’Italia il «Discobolo» assieme a 19 quadri. Tuttavia non tutto era stato restituito, rimanevano a Monaco di Baviera altri beni come le Pale dell’altare di Vipiteno e altre opere.

La «battaglia» per la restituzione si riaccese nella primavera del 1949. Gli studiosi tedeschi avvisarono che null’altro sarebbe stato restituito all’Italia. Giunsero a indirizzare al presidente degli Stati Uniti, Truman, ulteriori proteste nelle quali esprimevano unanimemente la forte contrarietà alla restituzione delle opere all’Italia ritenendolo un atto «ingiusto».

Agli studiosi tedeschi rispose l’Accademia dei Lincei con una nota datata 12 novembre 1949. Nota firmata da una settantina di studiosi italiani, fra cui Benedetto Croce, e intitolata Protesta dell’Accademia Nazionale dei Lincei per le assurde rivendicazioni di alcuni studiosi tedeschi.

Alla fine però anche le Pale dell’altare di Vipiteno e altre opere tornarono in Italia. Fu organizzata una «Seconda Mostra delle Opere d’Arte recuperate in Germania». Una rassegna costituita dalle opere illegalmente esportate, tenutasi a Palazzo Venezia a Roma nel 1950 e poi a Palazzo Vecchio a Firenze nel 1952.

Ci mancano ancora ben 1500 pezzi

La restituzione del ‘Vaso di fiori’

All’Italia comunque mancano ancora più di 1500 pezzi di cui 800 dipinti, decine di sculture, arazzi ecc., importanti capolavori dell’arte. Alcuni finiti persino in Unione Sovietica prelevati in Germania da militari dell’Armata Rossa che tuttavia ogni tanto riemergono dalla nebbia. Nel 2007 a Zurigo furono rinvenuti quindici quadri che facevano parte della collezione privata di Göring.

Ancora più cospicuo per numero e valore il ritrovamento avvenuto nel 2013 in un appartamento di Monaco di Baviera. Lì furono rinvenute 1500 opere d’arte che erano state confiscate dai nazisti e che si riteneva fossero andate perdute mentre altri 60 quadri sono stati rinvenuti a Salisburgo. Siviero negli anni ’60 riuscì a recuperare negli Stati Uniti due tavolette appartenenti alle Dodici fatiche di Ercole del Pollaiolo. Opere che alcuni ex soldati tedeschi avevano portato oltreoceano quando erano emigrati e poi avevano messo in vendita a Los Angeles.

Un’altra opera, Il vaso di fiori che si trovava nell’anteguerra in esposizione a Palazzo Pitti a Firenze, finì in Germania. Se ne persero le tracce fin quando riapparve nel 1991. Dopo varie vicissitudini il ministro degli Esteri tedesco nel 2019 l’ha restituita all’Italia. Ed ora è ritornata nel suo posto originario (per anni era stata esposta una riproduzione in bianco e nero del piccolo quadro con un cartello che riportava la scritta «rubato» in tre lingue, italiano, inglese e tedesco. E una didascalia nella quale si ricordava come a sottrarla erano stati soldati della Wehrmacht. Anche il «Discobolo» tornò definitivamente a Roma, collocato però nel Museo nazionale romano di Palazzo Massimo. 

Riaprire un caso malgrado precedenti “cupi”

Villa Montesano

Adesso questa estemporanea e fuori luogo richiesta del direttore della Gipsoteca di Monaco di Baviera. Che ha inteso riaprire il caso del «Discobolo» (ma anche di altre opere) dopo tutti i danni provocati al patrimonio artistico-culturale italiano, in specie, ed europeo in generale. Dalle nostre parti basti pensare all’incendio appiccato dai tedeschi, mossi da intento vendicativo, a Napoli il 12 settembre 1943.

Tedeschi che dettero fuoco al complesso gesuitico che ospitava varie Facoltà dell’Università di Napoli nonché le sedi di diversi musei ed enti autonomi come l’Accademia Pontaniana. Oppure agli enormi danni determinati dall’altro incendio doloso appiccato dai tedeschi per ritorsione, mentre erano già in ritirata. Questo il 30 settembre 1943 a Villa Montesano ubicata nel Comune di San Paolo Belsito, vicino Nola.

L’incendio causò la perdita di un ricchissimo patrimonio storico e artistico italiano poiché a Villa Montesano erano state ricoverate 866 casse contenenti circa 80.000 pezzi tra documenti, volumi, pergamene. Poi collezioni di ceramiche nonché i fondi del Museo Filangieri e una cinquantina di quadri di elevato valore culturale.

Di queste questioni e di tante altre ancora si parla nel recentissimo volume: Il salvataggio dei beni artistici, culturali e religiosi nel 1939-1944 tra Montecassino e le località di deposito dell’Italia centrale, Cdsc-Aps, Cassino 2023