Top e Flop, i protagonisti di venerdì 2 febbraio 2024

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 2 febbraio 2024

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 2 febbraio 2024.

TOP

FABIO TAGLIAFERRI

Fabio Tagliaferri (Foto © Stefani Strani)

La vita è anche saper attendere: soprattutto in politica. Ne è esempio lampante Fabio Tagliaferri, assessore ai Servizi Sociali di Frosinone fresco di dimissioni dalla Giunta dopo 26 anni di Consiglio Comunale a Frosinone. Va a fare il presidente ed amministratore delegato di ALeS SpA partecipata dal Ministero della Cultura. (Leggi qui: Cosa succede ora che Tagliaferri è andato via).

Nell’ultimo anno e mezzo Tagliaferri aveva seguito una dieta a base di rospi politici da ingoiare. Grossi. Molto grossi. Il primo: la rinuncia alla sua legittima aspirazione a candidarsi come sindaco dopo un quarto di secolo trascorso in Aula ed una sfilza di incarichi da assessore tra cui anche quello di vicesindaco. Aveva dovuto rinunciare per una questione di equilibri politici: l’indicazione del candidato a Frosinone spettava alla Lega ed il nome è stato quello di Riccardo Mastrangeli.

A marzo scorso aveva già un piede nella Giunta regionale di Francesco Rocca. E altrettanto aveva dovuto fare un passo indietro. Sempre per una questione di equilibri di componente e di geografia politica.

In entrambi i casi aveva ingoiato. E digerito. In silenzio. Un senso di disciplina che in politica è spesso fondamentale. Ed in questo caso lo è stato. La nomina è frutto dell’esperienza, della competenza di Tagliaferri. Ma anche della sua affidabilità.

Ora si apre una partita sulla sua successione. E non è scontata.

L’attesa del piacere è essa stessa piacere.

GIANCARLO GIORGETTI

Giancarlo Giorgetti

La politica di dar via tutti i gioielli della Corona non sta facendo benissimo da un punto di vista politico a Giorgia Meloni. La vicenda legata a Poste Italiane fa fede e, al netto di considerazioni macro economiche in purezza, le opposizioni sono all’attacco del governo. La notizia che si è diffusa nelle prime ore del mattino di ieri quindi arriva come una sorta di boccata di aria fresca. Ed anche a considerare aspetti tecnici e toni ancora da trattativa mette al centro la figura di Giancarlo Giorgetti.

Il titolare del Mef è un po’ l’uomo di raccordo tra le strategie di moneta del governo e il metodo politico dello stesso, perciò si è sempre trovato in una posizione nevralgica. Proprio il Mef, come si apprende, ha quindi rotto gli indugi ed ha presentato a Tim l’offerta per l’acquisto del 100% di Sparkle. Lo comunica il Mef. Il “guizzo” è arrivato in perfetta coincidenza con gli step di un calendario inflessibile.

Tim ha ricevuto l’offerta ed ha fatto sapere con una nota “di aver ricevuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) un’offerta per l’acquisto di Sparkle. Nella stessa, si fa riferimento altresì all’eventualità di negoziare una diversa opzione. Quale? Quella con cui Giorgetti spera di tenere a casa il “gioiello”. Cioè “con possibili adeguamenti delle condizioni contrattuali, nel caso Tim mantenesse una quota minoritaria per un determinato arco temporale e supportasse la realizzazione del piano strategico”.

La strategia del ministro
Giancarlo Giorgetti

Che significa? Che Giorgetti punta ad una crasi tricolore che tenga l’azienda dentro: a se stessa ed al controllo italiano. L’offerta avrà efficacia per 15 giorni e “verrà sottoposta all’esame del Consiglio di Amministrazione di Tim programmato per il prossimo 7 febbraio. Questo significa che non c’è stata alcuna richiesta di proroga dell’esclusiva e che di fatto si è formalizzata una nuova offerta migliorativa.

Milano Finanza l’ha spiegata in punto di strategia: “Sarebbe molto forte, infatti, la volontà politica di portare sotto il controllo diretto del governo un asset considerato strategico. E questo “anche per la sicurezza nazionale in un momento tanto delicato dal punto di vista geopolitico. Seppure la chiusura non sia scontata, appare meno probabile che l’affare possa collassare”.

E Giorgetti, almeno per adesso, incassa un doppio risultato: forse ha blindato un’azienda cruciale e di sicuro ha silenziato gli avversari politici del team di cui fa parte.

Chiude la vetrina.

FLOP

SERGIO CRESCENZI

Sergio Crescenzi

La vita è anche saper attendere, soprattutto in politica: vedi sopra l’esempio di Fabio Tagliaferri e la sua nomina alla guida della ALeS SpA partecipata dal Ministero della Cultura. Il consigliere comunale di Frosinone Sergio Crescenzi ha adottato una tattica diametralmente opposta: e con ogni probabilità questo gli costerà la nomina ad assessore nella Giunta Mastrangeli al posto del dimissionario Tagliaferri. (Leggi qui: Cosa succede ora che Tagliaferri è andato via).

Con quasi ogni certezza non sarà il suo il nome che farà Fratelli d’Italia per ricoprire l’incarico. E la spiegazione è elementare. È sufficiente andare sulla sua bacheca Facebook e scorrere la timeline indietro di alcune settimane. Sembra quella di un esponente dell’opposizione. Anzi, a dirla tutta, nemmeno i Consiglieri di minoranza a Frosinone sono stati così corrosivi.

Crescenzi è amareggiato per via della mancata elezione a Consigliere provinciale: alle elezioni di dicembre la sfiorata mancandola per un soffio. E dai suoi conti, il soffio che è mancato era quello che si aspettava da parte della maggioranza di cui fa parte. Ne ritiene politicamente responsabile il sindaco.

In queste condizioni Riccardo Mastrangeli non accetterebbe mai nella sua giunta uno che gli ha sparato fino al giorno prima a palle incatenate. Senza la sua nomina ad assessore non entrerà in Consiglio a surrogarlo il primo dei non eletti: Marco Ferrara. Che non avrebbe la stessa linea di leale collaborazione tenuta fino ad oggi da Fratelli d’Italia ma anzi metterebbe in evidenza una serie di distinguo.

È anche per questo che il prossimo assessore in quota FdI sarà un esterno.

L’attesa del piacere è essa stessa piacere.

LINO RICCHIUTI

Lino Ricchiuti

Lui è vice responsabile nazionale del Dipartimento Imprese e Mondi produttivi di Fratelli d’Italia. Quindi ha un ruolo importante che occhieggia in maniera bilaterale sia alla politica che all’economia. Ed entrambe, piaccia o meno, sono fatte anche di un certo lessico. Lino Ricchiuti però quel lessico un po’ se lo è scordato ed è riuscito a trasformare alcune sue (in parte condivisibili) considerazioni sulla riforma fiscale di Palazzo Chigi in un mezzo comizio.

Un prospetto tecnico lardellato di spot che, se solo fosse stato esposto con più equilibrio, avrebbe fatto fare un figurone al suo latore. A lui ed alla polpa del progetto fiscale in sé, che ha luci ed ombra ma che obiettivamente non pare tutto da cassare. “Alla sinistra e parte dei sindacati non piace questa riforma fiscale. Vuol dire che siamo nella giusta direzione”.

Ecco, l’esordio è il solito, quello da lessico polarizzato e sardonico con cui, invece di spiegare, si taccia di ignoranza chi non la pensa come te. La sottigliezza di tener fuori la Cisl poi, non è passata sottotono. Ricchiuti spiega ancora; stavolta nel merito anche se con un tono decisamente magniloquente: “La nuova riforma fiscale è la più grande dall’epoca di quella Visentini. Un cambio totale di paradigma dove il contribuente non sarà più colpevole di dolo fine a prova contraria”.

Perché? “Oggi l’Agenzia delle Entrate in caso di incongruenza parte già con una contestazione che dà vita a un atto fiscale. Con la riforma l’ente dovrà solo informare il contribuente di alcune discrepanze prima di procedere e il contribuente avrà 60 giorni di tempo per rispondere con le proprie osservazioni”. Fin qui tutto bello o quanto meno neutro.

Poi la derapata sintattica: “Tutto il regime sanzionatorio sarà notevolmente rivisto in ribasso e non ai tassi usurai attuali. Cioè, Ricchiuti ha dato (traduciamo in iperbole) dei “cravattari” a quelli dell’Agenzia delle Entrate prima che ai loro intenti mettesse mano il suo partito. Poi ha spiegato che grazie al suo partito quei “cravattari” verranno tenuti al guinzaglio.

La chiosa è da bar dello sport: “Se gli imprenditori aderiranno alla proposta del fisco, per due anni non risponderanno ad alcun accertamento fiscale e se guadagneranno di più lì terranno in sacca. Già, bellissimo, istituzionale e pertinente: “In sacca”.

Fammi un cappuccino.

GIULIANO AMATO

Giuliano Amato (Foto Alessia Mastropietro / Imagoeconomica)

Premessa: la vicenda di cui era stato protagonista Giuliano Amato qualche settimana fa e per la quale aveva mollato la Commissione governativa AI dà oggettivamente più ragione che torto al Presidente emerito della Consulta. Amato non era mai piaciuto a Giorgia Meloni “a prescindere” ed alcune sue affermazioni, sottili ma non troppo equivocabili, rilasciate a Repubblica avevano fatto il resto.

Meloni aveva citato Amato come esempio in negativo ed aveva suggellato quel che già si sapeva. I due non si amano e chi doveva ricoprire incarico ha preferito mollarlo, togliendosi anche lo sfizio di lanciare un melomane “mi rimpiangerete” a chiosa. Fin qui tutto bene. Il guaio di quel che si attribuisce oggi a Giuliano Amato però non sta tanto nel merito, quando nella tempistica.

Una tempistica quasi pervicace che, sempre su Repubblica, ha visto uscire di nuovo il “Dottor Sottile” in esternazione. Cioè sul quotidiano che, a a ragione o a torto, oggi sta incrociando le lame con la premier in maniera forse netta come mai prima nella storia repubblicana recente. Amato è tornato a condannare… che cosa?

Il criterio con cui il Governo ha deciso in ordine alla Commissione? Il protocollo autocratico di una sua rimozione incentivata dalle parole di una premier che non le manda a dire neanche sui possibili equivoci e li trasforma subito in capi d’accusa ideologici? No, Amato ha sposato la causa di Repubblica sulle libertà di stampa, causa che è nobilissima e che, in quanto tale, non abbisognava di sparring.

Sparring di una battaglia “non sua”
Giuliano Amato (Foto: Sergio Oliverio © Imagoeconomica)

Insomma, l’ex presidente della Corte Costituzionale ha dato la netta impressione di essersi voluto togliere uno “sfizio due” contro chi lo snobbò. E di averlo voluto fare saltando in arcione ad una diatriba di cui lui non è mai stato parte attiva in causa, né parte marginale arruolabile. “Disconoscerne l’autonomia cancellando la libertà di stampa contrasta con la democrazia”.

Poi uno spiegone nobile, condivisibile in ogni sua parte ma avvelenato da un pregresso che lo lardella da apodittico slogan. “Lo disse Pietro Nenni al principio della vita repubblicana: ‘Se avete una critica da muovere, criticate sempre le idee e mai le persone, perché questo lo facevano i fascisti e noi siamo diversi. Qui c’è qualcuno che non è diverso, evidentemente”.

Repubblica, che fa il suo mestiere e che arruola legittimamente truppe sulla sua (legittimamente nutrita) sponda, ha parlato di “lezione di metodo democratico”. Ed ha fatto bene, tanto che ha pucciato di nuovo sul pregresso tra Amato e Palazzo Chigi: “Succede infatti che è bastata una intervista su questo giornale. Intervista su alcuni principi essenziali di diritto costituzionale – la solitudine delle Corti davanti alle destre populiste e i rischi di derive autoritarie – per trasformare il dottor Sottile in un nemico del governo”.

Quindi “un pericoloso estremista da scaricare pubblicamente (conferenza stampa della premier) e mettere alla pubblica gogna sui giornali della destra. Tutto giusto, ma per come la vediamo noi Amato è anche titolare di un decoro che forse lo avrebbe dovuto spingere a conservare il vantaggio del suo nobilissimo gesto aventiniano.

Perché se prima fai un’uscita elegante in mezzo agli applausi ma poi, ad aura acquisita, riscendi lo scalone e torni in zona baruffa non ci fai una figura eccelsa.

Dottor (troppo) Sottile.