Tre anni senza Sergio Zavoli, il socialista di Dio che faceva inchieste

La figura del giornalista che "inventò" le grandi inchieste televisive e che seppe metterci una lucidità capace di far riflettere. E fare scuola

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Che fosse un ‘Socialista di Dio’ lo sapevano in molti. Cosa significasse davvero quell’endiade mezza eretica, anche a fare la tara alla digestione del paradosso, lo avrebbero capito in pochi. E solo dopo che quella formula aveva disvelato tutta la sua straordinaria efficacia. Quando la Rai entrò nei conati muscolari del passaggio da monopolio a sudato duello con la Tv privata quell’umanesimo totale che Sergio Zavoli mise sempre in punta di microfono si trasformò.

E da formula di sessappiglio misterico ed accettato per ignoranza coatta divenne chiave di volta di un’esistenza professionale che ha fatto scuola. E che ha dato frutti rigogliosissimi. Con un esempio di giornalismo di inchiesta talmente fulgido nella sua umiltà da risultare paradigma per gli anni a venire.

A ben vedere Zavoli ha sempre vissuto così. Sperso con bussola fra la ricerca della fantasia, dello stupore e l’ancoraggio ad una ortodossia professionale che faceva di lui icona di rigore assoluto.

Serio e pacato: e con il vizio della realtà

Sergio Zavoli (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Era serio, nei modi e negli approcci. Lo aiutava quella sua voce pacata, monocorde e quasi impiegatizia con cui riusciva a scarnificare la realtà tenendo al minimo le ingerenze di chi la raccontava. Lombrosianamente era uno che la riposta te la scippava via con naturalezza, con la sua grossa testa seria piazzata dietro al gelato come un totem di affidabilità borghese.

Era insomma la diga più cementizia, l’argine più fiero. Di cosa? Di quel principio di indeterminazione di Heisenberg che in senso lato del giornalismo è costante nemesi.

Perché quando studi un sistema complesso, nell’esatto momento in cui lo assimili lo cambi, ci metti qualcosa di tuo, del tuo vissuto. E dosare questi antipodi era la mission suprema a cui Zavoli si era votato. Lo fece in summa assoluta con La Notte della Repubblica. Con un capolavoro cioè in cui il suo essere riminese, amico di Fellini e sognatore dovette stemperarsi con il rigore di essere bardo asettico del periodo più buio della nostra storia recente.

La Notte della Repubblica, l’alba del giornalismo

Alcuni dei terroristi degli Anni di Piombo

Fu allora che il socialista di Dio rivelò tutta la sua straordinaria efficacia. E fece capire che non era figura retorica. Raccontare in 45 ore la storia dell’eversione italiana senza cadere nello spleen dietrologico e tenendo la barra narrativa dritta come un fuso sul rigore storico fu progetto immenso. Progetto che diede risultati ancor oggi inarrivabili. In due anni di messa in onda e con una trasposizione su libro che divenne best seller in una manciata di settimane, Zavoli riprese catodicamente la grande tradizione di Montanelli, Gervaso e Cervi.

E con quel mantra ben ficcato in capoccia si fece divulgatore storico di un periodo che però aveva più spine dei secoli passati da secoli. Questo perché non aveva ancora avuto modo di sedimentare da cronaca a storia. E mettere sotto il grugno degli italiani vicende ed orrori di cui erano ancora freschissimi testimoni e non distaccati esegeti ebbe il sapore delle scommesse vere. E forti. E vinte.

La follia onesta di chi crede in quel che fa

Perché il percorso di Zavoli in Rai e la parabola di Zavoli nel giornalismo, sostanziata solo dall’anagrafe e dal fatto che da tre anni non c’è più, questo avevano di bello. Che facevano perno sul rigore ma non eludevano lo scattismo della fantasia. Del coraggio, della onesta follia con cui una cosa ortodossa non deve necessariamente essere un palloso proscenio. Il segreto era tutto sommato una cosina tenue alla Pulcinella, ma per metterlo in pratica ci voleva uno che portasse a nozze Apollo e Dioniso.

Milano, Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia durante una manifestazione di protesta; foto di Paolo Pedrizzetti.

E che lo facesse turandosi il naso di fronte alla nuova televisione latrante che incalzava e sostituiva la tigna dei pionieri con la fuffa dei parvenu. Bisognava aprire una finestra di Overton che tenesse l’affaccio costante nella terra di mezzo fra ragionevole ed accettabile, ma con decise screziature di follia buona.

Quell’ascetismo cartesiano che fece identificare Zavoli con il giornalismo in maniera talmente massiva da spingere Edmondo Berselli ad una cosa netta. Definire la laurea in editoria che Tor Vergata gli diede honoris causa “una tautologia fatta e finita”.

Prendere gli opposti e metterli insieme

Per amare Zavoli ci volevano fede e raziocinio, speranza di scoperta e certezza di informazione, guizzo di patos e binario di narrato. Con un occhio alla pancia del popolo e un altro puntato al cielo che ne raccoglieva i borbottii intestinali. Come succede solo se sei uno che prende gli opposti e li mette ad abitare assieme nella casa della bravura senza ammalarsi di strabismo. O di vanagloria.

Uno che sa che gli italiani sono sempre a metà strada fra melodramma e diagnosi. Un tipo che alle sintesi buone ci crede davvero. Uno che se poi muore non lascia i vuoti retorici dei bardi un tanto al chilo. Uno che poi si chiama socialista di Dio, ci tira su un signor libro e nel battezzarsi così riesce perfino ad avere ragione.