Internazionale: protagonisti della settimana XXIX nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

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BRANDON LEWIS

Immaginatevi di salire sul pullman Cotral che da Frosinone, alle 9.00 circa del mattino, vi porta all’Anagnina a Roma. Ecco, adesso immaginatevi di prendere posto a sedere, preparare gli auricolari con la playlist, sacramentare contro la giornata orribile che vi aspetta in ufficio e buttare l’occhio distratto sul sedile di fianco al vostro… e trovarci la versione originale del Piano Solo con cui nel 1964 il generale De Lorenzo intendeva incarognire l’Italia anticomunista dell’ambiguo Antonio Segni. 

Brandon Lewis Foto: Richard Townshend

È più o meno quello che è accaduto nel regno Unito qualche tempo fa, quando un tizio qualunque e soprattutto anonimo ha trovato 50 pagine di informazioni riservate dei servizi di Sua Maestà in un mucchio fradicio di cartacce dietro una fermata d’autobus nel Kent. Il diligente cittadino britannico in questione ha chiamato la BBC, ha fatto spergiurare da non rivelare mai la sua identità al cronista-gancio ed ha consegnato la Gran Bretagna alla più grossa figura di roba calda e marrò dai tempi dello scandalo Profumo

Attenzione però: in quel report non c’era l’elenco delle marche di lingerie preferite da qualche alto papavero del MI6 con l’uzzo delle sciantose. No, quei fogli slabbrati portavano stampigliate le contromisure da adottare di fronte alla reazione russa contro la famosa nave HMS Defender, fatta diventare bersaglio nelle acque ucraine al largo della costa della Crimea in un incidente militare che ha quasi messo l’orso di Mosca e il Leone di Londra in modalità capocciate.

La reazione del Governo però è stata fra il tiepido e il lassista, come ad accreditare che a quella fermata non ci fossero documenti top secret ma lo scontrino della lavanderia dei Sas a Hereford. 

A quel punto è intervenuto lui, Brandon Lewis, segretario di Stato per l’Irlanda del Nord, economista, conservatore di ferro e falso bonaccione con la faccia da trangugiatore di pudding a casa della zia amante dei cani nani. E ha detto a Sky News: “Certe cose non solo non dovrebbero accadere, ma se proprio dovessero succedere dovrebbero andare a risoluzione subito e bene. Mi aspetto che i Servizi relazionino, che il governo tagli teste e che quelle teste non tornino subito sulle spalle a bufera finita. Io non sono stato messo qui per essere simpatico”. 

E mentre Lewis dice cose così soavi e congrue è sembrato di vedere un’ombra gigante e benevola stagliarsi di profilo dietro il pacioso ministro che ha messo il coraggio prima del suo doppio mento: un ombra grande e curva con uno spuntone di sigaro fuori dalla bocca piccola e golosa, una gran pancia e un collo tanto corto e tozzo da essere di fatto torretta per quel testone pieno di intrighi e contromosse. Un testone grosso e pieno di burbera genialità praticona come solo quello di sir Winston Churchill sapeva essere. Perché se nel Regno Unito sei un tory non fai di testa tua, ma segui il modello arcigno e perfetto di chi non mise mai il potere dietro la correttezza.

Versategli uno scotch.

IL JEP COLOMBIANO

Il giudice Julieta Lemaitre della Jurisdicion Especial para la Paz (Foto: JEP)

In Colombia si ammazzano i “falsi positivi” e lo ha stabilito una corte speciale, il Jep. Chiariamo di cosa di parla e soprattutto cosa sono i falsi positivi, prima di farci venire una sbornia di darwinismo virologico spinto. Anzi, partiamo proprio dall’ultima: qui, almeno qui, il coronavirus non c’entra un beneamato. I “falsi positivi”, per denominazione a dire il vero infelice dei giudici colombiani, sono i civili descritti e processati come combattenti a tutti gli effetti. Il Jep invece è il Tribunale di Giurisdizione Speciale per la Pace

Passato il brivido infido che corre lungo la schiena di qualunque occidentale che si rispetti quando alla parola “tribunale” ci trovi in comparaggio quella “speciale”, il Jep si rivela faccenda utile. Lo è perché è l’organo giurisdizionale che deve promuovere con specifiche azioni la riappacificazione fra le forze governative e le Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia.

Come accaduto in Sudafrica per il dopo Mandela serve una nuova stagione di pacificazione che passi per i processi a coloro che di quella pacificazione sono stati i più acerrimi nemici. Acerrimi ed attivi come i 10 membri dell’esercito regolare, generaloni e colonnelli sciolti, accusati di aver fatto sparire 24 persone e di averne uccise 120 incasellandole come combattenti. 

In realtà, si è scoperto qualche mese fa, erano civili inermi che nella mistica da bilancino truce delle forze regolari avrebbero dovuto equilibrare il rapporto etico fra chi si ammazzava e il perché si andava ad ammazzare in gloria come se non ci fosse un domani. Li hanno chiamato “falsi positivi”, quei morti cecchinati nelle giungle mentre correvano via dai villaggi, perché i regolari dell’esercito a volte, per dileggio e quando le circostanze delle loro sceneggiate mannare lo consentivano, li sottoponevano ad una sorta di test basico. 

Quale? Se erano positivi alla cocaina erano giocoforza guerriglieri, il che, in un Paese dove le foglie di coca le masticano anche i postini, equivale a dare del guerrigliero a più della metà della popolazione non inurbata, tre quarti di esercito incluso. I dati sono agghiaccianti e vanno al di là del singolo faldone: fra il 2002 ed il 2008 l’esercito colombiano ha effettuato almeno 6.400 esecuzioni extragiudiziali e le ha presentate come morti in combattimento. I morti sono stati fatti in particolare nella regione del Catatumbo, nella provincia colombiana del Norte de Santander, con una vera escalation fra il gennaio 2007 e agosto 2008. 

Catalina Diaz, che è il procuratore sul caso, ha detto: “Si è trattato di un vero modello di macro criminalità; stiamo parlando di almeno 120 omicidi in soli due anni, nella stessa regione da parte dello stesso gruppo di persone associate a un’organizzazione criminale, il tutto seguendo lo stesso modus operandi”. Quello della “positività”, come se il dissenso fosse un virus, solo che adesso è arrivato il vaccino della Giustizia.

Signori, la Corte.

FLOP

MIN AUNG HLAIN

Min_Aung_Hlaing (Foto: Mil.ru)

Loro sono come i proverbiali topi delle navi che se li vedi scappare ti annunciano che presto la chiglia gratterà il fondo. Nel terzo millennio i “topi” sono le compagnie telefoniche e le navi sono gli Stati, perché se uno Stato va giù in punto di economia e libertà allora la gente non si telefona, non naviga in rete, non gioca a Ruzzle e non sbircia ricette e donnine.

Nel martoriato Myanmar ridotto a larva dal mese di febbraio dal generale Min Aung Hlain uno dei “topi” più grossi è Telenor. L’operatore telefonico norvegese ha venduto e fatto bagagli con la stessa velocità con cui nella Germania nazista del ‘44 li fecero i tagliatori di diamanti olandesi che, informati dalle barbe finte di Sua Maestà, presagirono la bandiera russa svettante sul bunker della Cancelleria. 

L’economia reale ha le sue regolette basiche e fonda su un assunto da cui prescindere è impossibile: la gente, per sperdere sghei, deve averne ed essere libera di farlo. E dal primo febbraio in Myanmar spendere soldi per comprare un frullino su Amazon o mandare un audio sornione alla morosa è cosa difficile assai. Perché? Perché con la presa del potere, l’arresto di San Suu Kyi e il risultato elettorale contestato in punta di mitra sono successe due cose che di solito vanno a braccetto: da un lato la vita è diventata un inferno di manette, uccisioni, carceri e brutalità sciolte, dall’altro quelle brutalità sciolte hanno preso sostanza con il controllo della rete

L’ha spiegata bene Sigve Brekke, presidente e CEO di Telenor Group: “Noi puntavamo sul fatto che l’accesso a servizi mobili a prezzi accessibili avrebbe sostenuto lo sviluppo e la crescita del Paese”. Telenor offriva una politica sparagnina e i cittadini ne approfittavano insomma, ma ad un certo punto i generali hanno iniziato a filtrare e reprimere il libero accesso alle informazioni on line ed alle telecomunicazioni perché i dissidenti si sentono in gruppi whatsapp e postano storie di libertà su Instagram e Facebook, che è stato vietato assieme alle antenne paraboliche. Perciò è partito il solito intranet di controllo che dove non blocca mette soggezione. 

Telenor ci ha pensato un paio di settimane e da due giorni ha venduto tutto il cucuzzaro a M1, una holding di investimenti guidata dall’uomo più ricco del Libano, per 105 milioni di dollari. Brekke, che è nordico, miliardario e spiccio, ha chiosato: “La situazione in Myanmar negli ultimi mesi è diventata sempre più difficile per Telenor per motivi di sicurezza delle persone e di rispetto delle regole di libero mercato”. 

E il generale Min Aung Hlain, che sta assistendo compiaciuto allo sfacelo che la sua verve dittatoriale ha innescato e che come tutti i tiranni guarda il suo popolo morire mentre dice di volerlo far vivere meglio, non trova altro di meglio da fare che far arrestare sei ex compagni. Sono commilitoni di quando, nel 1974, il leader era un cadetto musone e sfigato alla Defense Services Academy. Il motivo? Quel soprannome che gli avevano appioppato in usta goliardica non gli era mai piaciuto, ma prima non aveva galloni sufficienti per dirlo. Come lo chiamavano ieri quegli amici nel paese da cui oggi scappano i topi? “Merda di gatto”.

Le fusa del tiranno.

MIGUEL DIAZ CANEL

Il presidente Miguel Diaz Canel con il presidente Vladimir Putin Foto: Kremlin Press Service

Odiamo profondamente ricordare che lo avevamo scritto, ma odieremmo ancora di più il fatto di non averci provato, a dire che già allora c’era del marcio nei Caraibi. Ecco cosa scrivevamo il 3 giugno del 2020, quando il mondo intero era sperso fra la graduale fine del primo lockdown, la campagna elettorale per le Presidenziali Usa e le scalmane dello scacchiere libico:

“Cuba è in razionamento alimentare da due anni ormai e la morte di Raul Castro ha consegnato all’isola un leader gelatinoso che manca di due cose. Cose fondamentali nel copione caraibico del socialismo, che sente l’usta dei capi veri. La prima è il carisma ma, dopo i Castro, averne è difficile e farne succedaneo valido è impossibile. La seconda è la capacità di surfare l’onda del tempo, e in politica non averne è l’anticamera dell’agonia. Anche quando il tuo consenso è blindato da un regime”. (Leggi qui: Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana).

Ecco, quell’agonia è arrivata. Cuba era polveriera già allora e Miguel Diaz Canel era in predicato di fallimento prima ancora di insediarsi. Lo era perché il modello cubano aveva fallito l’obiettivo nel momento stesso in cui era sorto e, come dicono in meravigliosa perifrasi gli indios della Guajira quando coniugano il verbo nascere, aveva “iniziato a morire”.

Vero è però che l’arrivo di un leader di quarta categoria quel processo ineluttabile lo ha accelerato, esacerbato e portato ad estreme conseguenze, tanto estreme che per la prima volta dai moti del 1994 la gente è scesa in piazza a prendersi la sua dose di randellate, desaparecidos e balle spaziali. 

Balle come quella con cui Canel attribuisce tutti i guai di Cuba al tignoso embargo Usa a cui Donald Trump aveva aggiunto altre 200 voci non ancora cancellate dal “democratico” Joe Biden. Non è vero: i guai di Cuba sono in parte attribuibili all’isolamento a cui l’hanno portata socialistese e contiguità geografica con il nemico numero uno del socialismo, ma in parte prevalente ad altro. Alla condotta di un presidente che non è più abbastanza socialista da cementare il suo pueblo e non ancora abbastanza occidentale da rimetterlo in asse con l’economia reale. 

Miguel Diaz Canel aveva l’occasione di fare la storia e invece la sta subendo, scrivendone pagine horror col sangue di chi affama chiamando affamatori gli altri. E quando non trovi meglio da fare che puntare il dito contro la pagliuzza negli occhi altrui per non vedere la trave nei tuoi, come insegna qualcun altro pure lui in predicato di sfratto a Cuba, allora hai già perso.

Cuba libre.