Cosa ci ha lasciato Gianrico Ranaldi e dove sta nascosto

Ora che l'emozione ha lasciato posto per il ricordo. Ora che la commemorazione di superficie cede il posto agli aneddoti più sinceri. Ora possiamo dire cosa ci ha lasciato Gianrico

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Nelle pieghe di ciò che siamo stati al meglio: ecco dove sta nascosto il meglio vero di noi. E Gianrico Ranaldi non fa eccezione, anzi, quella necessità di scrutare oltre il successo di un uomo-simbolo a tutto tondo, lui la incarna allo stato dell’arte.

Ci sono due modi per lasciare una traccia importante di sé. Il primo: fare cose eccezionali per il sistema complesso dove operiamo. Oppure, il secondo: essere una persona egregia e lasciare che quel che siamo tracimi nella vita pubblica che via via ci avvolge. E che poi significa la più parte della nostra vita.

Gianrico: Cassino, il calcio e il cuore

Gianrico Ranaldi

La più parte ma non tutta. Gianrico ad esempio ai più sembrava un algido british ma in realtà era un “benevolo matto” che prestava una fetta di sé all’Apollineo. Era capace di centrarti con un gavettone d’acqua nel bel mezzo di un conciliabolo. Era stato un fedayn del Cassino. Con il cuore, la tigna e l’ugola alta e sincera di chi vive le sue passioni fino alla beva finale.

Amava lo sport. E se da ragazzo con lui cercavi la rissa dove andavano a frizione quelli di San Silvestro coi “Margiottini” non lo trovavi mica un “vitello” borghese pronto a fare dietro front. Tutt’altro. Perché se sentiva di essere nel giusto e di aver chiesto troppo a Cartesio, lui ti veniva addosso senza troppi complimenti. E comunque finisse, avevi un guaio da risolvere. Guaio grosso.

Sta tutto là, è sempre stato tutto là, anche quell’altro Gianrico: dove c’era da fissare i cardini della Giustizia il vigore che l’avvocato Ranaldi ci metteva nel fissarli era secondo solo alla sua bravura nello scegliere quali. Poi agiva, mettendo indole ed intelletto a giogaia perfetta appaiata.

Lo strafalcione in prima pagina

Gianrico Ranaldi

Anni fa mi telefonò nel bel mezzo di una serata placida e dopo una slavina di lavoro duro. Gianrico era già un penalista coi fiocchi che non si godeva l’ombra grossa di un padre immenso e cassazionsta ferino. Era già goloso ed enciclopedico nel fascicolare e cane da polpaccio nel dibattimentale, dove in arringa ti rubava l’ossigeno dal sangue. (Leggi qui: Pietro Ranaldi e la parabola del biliardino).

Io ero già scafato ma non immune da cappellate. E un po’ borioso di certe mie aperture a cui oggi darei fuoco col napalm. Imprudenze di gioventù professionale. Parliamo una di quelle sere in cui piuttosto che sentir squillare il telefono mi sarei fatto derviscio in Sudan.

Arrotando le “r” come solo lui sapeva fare, introducendo cioè la massima soglia di attenzione per cose che si sapeva già sarebbero state delicate, mi redarguì. E aveva ragione a farlo: in un pezzo e citando una testimonianza dibattimentale io avevo citato una “escursione testimoniale”. Un dannatissimo refuso sfuggito al controllo aveva trasformato un 499 del Codice di Procedura penale in una scampagnata. “Il termine giusto è ‘escussione’, dal verbo escutere, cavo”.

Non c’era affettazione nel dirlo, ma il sincero amore per la Procedura e la cura parentale e pignola a ché ogni suo step fosse declinato bene.

Correggere un errore per correggere il mondo

Gianrico Ranaldi

E sciorinato al meglio anche da chi, da cronista, sul tema era più mestierante che asso. Sobbalzai e masticai amaro: all’epoca di più non si poteva fare ché col cartaceo già fuori, il danno ormai era fatto.

Ci pensai solo dopo, al dato che Gianrico non mi aveva chiamato per correggere un articolo che parlava di un “suo” procedimento, ma di un dibattimento in cui era impegnato a difesa un altro legale. Aveva letto il pezzo e ci aveva visto una zoppia. Era successa una cosa immensa e didattica a tutto tondo: l’avvocato Ranaldi mi aveva chiamato per correggere una stortura che non era intestabile a lui. Ma che stortura restava e in quanto tale faceva fare una figura mesta al Diritto ed una barbina a me.

Semplicemente era giusto telefonarmi e rimettere le cose a posto. La sua idea di “Dike” passava per le declinazioni sottili e settoriali della Legge, ma quello era solo il respiro ampio di una Giustizia che poteva sostanziarsi solo con la giustezza di ogni sua epifania.

Regi decreti e associazioni a delinquere

Da fiorettista del lessico procedurale era capace di impugnare un Regio decreto per far derubricare un’associazione a delinquere a reato in concorso. E poi vedere nella gioia partigiana del suo assistito il compimento di un Grande Disegno di civiltà giuridica. È quello che in molti non riescono a capire quando latrano di colpevolismo a tutti i costi.

Era un pignolo, Gianrico. Uno che in spiaggia, al mare, spesso aveva pile di faldoni sulla sdraio o brogliacci di lezioni accademiche. E che sotto un sole boia arrotondava concetti, brocardi e strategie processuali con la stessa cura con cui altri si umettavano la pelle cotta di creme solari.

Lo stop del pallone come modello di vita

Il funerale a Montecassino

Solo che poi se arrivava un pallone lui scattava in uno sbuffo di sabbia e lo stoppava alla perfezione, di collo piede tondo e perfetto. E questo di lui ti diceva moltissimo. Ti diceva che l’eccellenza professionale e la rotondità morale non sono solo appannaggio degli “sfigati” che non sanno da dove cominciare per allacciarsi le scarpe.

E ci ha detto, quando Gianrico è entrato in una bara ed a Montecassino il commiato si è fatto strazio vero, che da lui dobbiamo imparare una cosa che è cardine. Imparare molto di più che essere o bravi oppure fighi, senza possibilità di crasi. Gianrico Ranaldi ci ha spiegato in vita e ci ha ricordato in morte che ognuno di noi è molto più della somma dei suoi errori. E che non abbiamo solo il diritto di vivere, ma il dovere di farlo al meglio delle nostre possibilità. (Leggi qui È morto Gianrico Ranaldi).

Con garbo ma senza affettazione “da generone”, con stile ma senza la musoneria degli incompresi. Con forza ma senza la boria dei saccenti. Con un garofano a ricordare il suo cuore socialista ed una toga a ricordare la sua mente. E con la piena, incondizionata facoltà di invertire i termini.

Perché cuore e mente di Gianrico erano spaziosi. E intercambiabili.