La camera ardente del maestro Vincenzo Ludovici: opera postuma di uno dei più grandi nell'Arte contemporanea
Se non fosse in una camera ardente sarebbe un’opera d’arte: vestito in una delle sue giacche d’un elegante verde informale, una lunga sciarpa pronta per essere girata al collo, pennelli in mano e quattro gessetti di colore diverso appoggiati sull’inseparabile berretto tondo deposto ora sul quadricipite. L’artista Vincenzino Ludovici si presenta così di fronte alla morte: con un’ultima risposta ribelle e beffarda a quel Destino che credeva di riuscire a toglierlo, in meno di un anno, alla sua arte.
Invece il maestro Vincenzino, docente per vent’anni alle Accademie di Belle Arti a Firenze come a Carrara, Reggio Calabria come a Roma, testardo e ribelle fino all’ultimo, va all’appuntamento finale esibendo i colori che hanno illuminato la sua lunga vita da artista, stringendo gli strumenti con i quali per più di quarant’anni ha dato forma all’arte.
Umilia la morte, la tiene fuori anche dalla stanza dove si celebra l’ultimo incontro con gli amici venuti a rendergli omaggio: si fa tenere compagnia da una dolcissima Madonna con Bambino che Vincenzino ha finito di dipingere appena due giorni prima di entrare in agonia, talmente bella che è impossibile togliere lo sguardo. In quella camera ardente i protagonisti sono lei ed il suo creatore, non la morte.
L’ultima beffa poi è degna di un maestro. Mentre a Ferentino Vincenzino Ludovici chiudeva gli occhi, a Mantova si apriva una mostra nella quale la prima opera all’ingresso della galleria è uno dei suoi vetri. Nel momento in cui finisce la creazione inizia la celebrazione: senza nemmeno un minuto di oblio. Già immortale.
Proprio come è ogni artista del suo calibro. Come era diventato lui che aveva iniziato a dipingere che era ancora un ragazzino, durante quegli Anni Settanta pieni di ideali, illusioni e rivoluzione. Maestro dell’informale e del concettuale, si muoveva sulla scia dei grandi che lo avevano ispirato: Schifano, Toti Scioloja, Tano Festa.
Inquieto ed insoddisfatto, scappava ostinatamente dalla banalità: temeva di rimanere intrappolato in un genere. E a lui non bastava.
Così come, nel momento in cui poteva considerarsi un pittore affermato, decide che i pennelli non gli bastano più per esprimere a pieno ciò che ha dentro. E’ una voglia che sgorga sotto forma di arte, in continuazione, ogni volta diversa, con la quale non raccontare necessariamente uno stato d’animo ma anche solo “gesto istintuale”. Vincenzino era artista per il piacere di fare arte.
Inizia allora il periodo in cui si appassiona ai materiali, alla plasticità, si innamora di loro e di quello in cui può trasformarli per dare forma alla sua insaziabile voglia di bello e di libero. Finiti tra le sue mani, elementi come bronzo, plexiglas, legno, marmo, resina, smettono di essere oggetti ed assumono forma e anima, talvolta espressione e diventano veicolo di emozione.
L’Italia è uno scenario troppo piccolo per contenere un genio così eclettico. Arriva il momento di girare. Risiede per un periodo in Libano dove di lui resta oggi una scultura che rappresenta il martirio della Terra dei cedri, lo chiamano a Cipro e realizza due vetrate ed un mosaico nella chiesa di santa Caterina dei francescani di Terra Santa.
Ma il cuore è Ferentino. E’ li che fissa la sua sede, il suo laboratorio, l’asilo per la sua creatività lasciata libera di scorrazzare e prendere forma, in un quadro o un mosaico oppure una scultura. E’ lì che dipinge quella Madonna: come i grandi della musica, Beethoven o Mozart che si composero la Messa da Requiem, Vincenzino si è disegnato la Madonna con cui dire alla Morte che ha portato via solo Vincenzino. E non la sua arte.