La donna che ballando riuscì a distrarre Bobby “Blue” Bland (Il Duro del Weekend)

Luciano Duro

Narratore e Sognatore

Luciano Duro
di LUCIANO DURO
Narratore e Sognatore

 

Quella sera, a New Orleans, la delegazione si divise, Bruno e Gianni si recarono alla Preservation Hall, per ascoltare jazz tradizionale, io preferii andare all’House of the Blues dove si esibivano due grandi bluesmen che avevo ascoltato solo su dischi mai dal vivo e la mia aspirazione era quella di includerli nel cast artistico del “Liri Blues”. Il primo era il giovane Corey Harris, una laurea in antropologia e un bagaglio musicale che includeva in un comune denominatore le tendenze che muovono la musica dei neri d’America. L’altro Bobby “Blue” Bland, un pioniere fondamentale per l’evoluzione del blues.

Fui affidato ad una guardia del corpo che fungeva anche da autista, era un grande uomo di colore che somigliava per statura e robustezza ad un pugile peso massimo, aveva il piglio e la determinazione di chi si appresta a salire sul ring. Non mi fece scendere subito dalla macchina, entrò nel locale che sembrò essere da lui frequentato spesso, conosceva i gestori e li avvisò che aveva un importante ospite italiano, dopo di ciò tornò consigliandomi di seguirlo lentamente. Con mia grande sorpresa e soddisfazione notai tra i tanti manifesti dei festival che tappezzavano la hall anche uno del Liri Blues era del 1994, sicuramente portato da un musicista che si era esibito ad Isola del Liri. Seguii le indicazioni dell’uomo che mi accompagnò sulla balconata che cingeva l’intero locale, come ospite di riguardo, in una postazione privilegiata proprio sopra al palco.

New Orleans deriva dall’incredibile puzzle di popoli e culture assemblato sulle rive del Mississippi, lungo il percorso, erano raffigurati i simboli di quelle espressioni culturali: le effigi dei nativi pellirossa, i teschi inquietanti dei riti voodoo, la grande foto di una formosa donna creola, una teca che custodiva strumenti musicali arcaici, costruiti dai primi schiavi forzatamente importati dall’Africa ed il dipinto di un Cristo sofferente che pareva racchiudere le umiliazioni ed il travaglio del popolo afro – americano. Ancor più sorprendente era il palco, sopra il sipario di velluto rosso, ancora chiuso, c’erano in bella mostra le immagini sacre di ogni religione: La Santissima Trinità, Buddha, Maometto e persino quella del santone indiano Sai Baba. Prima che iniziassero i concerti, e senza che io avessi chiesto alcunché, una giovane donna arrivò con della birra ed un piatto che conteneva specialità della casa: catfish (pesce gatto), crawfish (gambero rosso), pezzi di anguilla e patate fritte, un insieme assai piccante e gustoso. Il locale era così ampio da contenere più di mille persone, una struttura che sicuramente in Italia sarebbe stata dichiarata inagibile, anche perchè l’impianto luci era fissato sul soffitto in modo così “anomalo” da non dare nessuna sicurezza.

Corey Harris aprì la serata con uno stupendo concerto acustico, alternandosi alla chitarra, ed al banjo, il pubblico ascoltò con attenzione e rispetto ma era chiaro che la star era il mitico Bobby “Blue” Bland e l’attesa era tutta per lui.

Tra una esibizione e l’altra ebbi modo di dare un’occhiata di sotto e mi accorsi che forse ero l’unico “viso pallido” di quella serata, non ne notai altri. L’audience era molto eccentrica e colorata, uomini con cappelli di varie forme ed elegantemente vestiti di viola, arancio, turchese, azzurro, il più sobrio era interamente di giallo chiaro. Le donne sembravano più a loro agio, sebbene non fosse una stagione propriamente calda, non avevano un’eccessiva propensione a coprirsi ma anche il loro abbigliamento era di colori cangianti, certamente non delicati.

Terminato l’opening di Harris il sipario si chiuse nuovamente ed iniziò uno strano rito che sicuramente era abituale nell’House of the Blues: un piccolo uomo, dispettoso come un bimbo viziato, tirò fuori la testa dal rosso velluto e gridò ai presenti: «Volete che suoni Bobby “Blue” Bland?» Tutti ovviamente ad alta voce dissero si ma lui, con la faccia di chi sta per offrire un qualcosa di prezioso ed è restio a concederlo, rispose no ed a quel punto si scatenò il finimondo, insulti, oggetti che volavano sul palco, accendini cappelli, scarpe, indumenti anche intimi. Il gioco continuò per altre tre volte poi improvvisamente il sipario si apri e la musica scosse tutti come un forte vento, non c’era nessuno che stesse fermo, tutti ballavano ed un urlo di gioia risuonò come un boato, quando apparve il vecchio bluesman che sembrò ringiovanito da quella esplosiva energia che il pubblico emanava.

Un reggiseno volò sul palco e planò sui piedi di Bland, una donna in trance, ballava agitando prosperosi seni, con un cenno della mano stoppò la musica e smise di cantare, poi sussurrò al microfono: «Baby non fare così, mi fai morire», una fragorosa, generale risata, un ulteriore cenno e la musica riprese. Mentre tutto ciò accadeva, arrivarono dalla Preservation Hall, Jackie, Bruno e Gianni, si sedettero allo stesso tavolo ed insieme ascoltammo la parte finale del concerto. Fu un’esperienza indimenticabile e mi resi anche conto che i musicisti di blues, a differenza di altri, danno il meglio nel loro contesto quando suonano per la propria gente, è qualcosa che hanno nel bagaglio sin dalla nascita, una tradizione culturale che parte dall’anima e si espande fuori come un fluido magico, il pubblico è una componente essenziale ed è parte integrante di un rito tribale.

Non feci in tempo a portare al festival Bobby “Blue” Bland, non amava andare troppo lontano e ci ha lasciato qualche anno fa. Riuscii in un paio di occasioni ad inserire nel cast Corey Harris, ha sempre suonato divinamente dando forti emozioni, oggi è ancora più famoso per aver lavorato con Martin Scorsese, come protagonista nel film “The Blues – Dal Mali al Mississippi” ma ascoltarlo all’House of the Blues fu certamente un’altra cosa.