La favola di Adesh, il venditore di parole (Il Duro del weekend)

Luciano Duro

Narratore e Sognatore

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Luciano Duro
di LUCIANO DURO
Narratore e Sognatore

 

La storia che sto per narrarvi viene da un paese lontano. Il vecchio uomo che me la narrò, non molto alto, curvo e dalla folta barba bianca, non riferì esattamente in quale luogo avvenne, ma il suo modo di parlare, lento ed essenziale, con voce profonda e la sacra immagine del Buddha che pendeva dal collo, mi fecero propendere per un posto indefinito dell’Oriente. I fatti li racconto così come quell’uomo, che in quel posto era nato e vissuto, me li riferì.

C’era una volta, tanto tempo fa, ai piedi del monte di smeraldo, la città dei poeti. Gli abitanti erano buoni e gentili, le parole sgorgavano dalle bocche, chiare e cristalline, come l’acqua limpida della sorgente. Spesso volavano alte nel cielo, si liberavano nell’aria come le rondini in primavera, percorrevano sinuose i sentieri verdi della valle e si fermavano, scolpite da una grande mano magica, sulle pareti del monte di smeraldo.

La perfida “Dakini”, invidiosa di quella straordinaria armonia, di quel misurato dire, della semplicità di quel dialogo, operò un orribile maleficio: tolse le parole dalle bocche degli abitanti della città ai piedi del monte di smeraldo e tutto tacque. La comunicazione divenne difficile, i sentimenti si inaridirono ed il gesto, il fischio, i suoni gutturali, furono l’unico mezzo di espressione.

Nella città senza parole, arrivò da un paese lontano il mercante Adesh. Aveva occhi vispi e l’aria di chi la sapeva lunga, portava sulle spalle un grosso e rigonfio sacco, il cui contenuto era così pesante da renderlo chino e provato dalla fatica.

Una città senza parole! …Una città che non canta! …Una città dove i nonni non raccontano fiabe ! …Una città senza discorsi, senza proclami, senza prediche, senza comizi, senza banditori ed avvocati …credo che diventerò ricco !

Tirò fuori dal sacco centinaia, migliaia di parole, le espose in bella evidenza e attese che all’alba gli abitanti della città uscissero dalle loro case.

Al chiarore del giorno, uno ad uno, uomini, donne e bambini, in un lungo corteo, si avvicinarono, sorpresi da quella esposizione piena, zeppa di parole colorate che splendevano alla luce di un’alba primaverile. “Vendo parole, parole per ogni occasione, evenienza e convenienza: parole leggere come piume e pesanti come macigni, parole dolci come lo zucchero e amare come il fiele, parole buone come il pane e cattive come il veleno, parole penetranti come la lama e tenere come il burro”.

Alzò la voce per essere ancora più convincente: “Parole in vendita, non sono care, tutti le possono comprare… parole corte e parole lunghe, parole tanto per dire, parole per fare, parole bugiarde e parole vere, parole di conforto e di circostanza, parole di guerra e di pace, parole di speranza e parole disperate, parole a caso… ”.

Non ci fu un concreto interesse per quell’assortito banco di parole e man mano, alle prime ombre della sera, tutti si ritirarono nelle loro case. Adesh, stanco e deluso le ripose nella juta e sistemò un giaciglio per la notte. Mentre dormiva, fu svegliato da qualcuno che furtivamente frugava nel suo sacco.. “Cosa frughi, che cerchi?… Non sapresti che fartene, le parole hanno un significato, vanno dette nel modo giusto, al momento opportuno, non puoi usarle senza precauzioni, le parole potrebbero esplodere, ferire o uccidere, potrebbero bruciare con la velocità degli sterpi o scaldare come il fuoco nelle notti d’inverno. Ma quale è “ladro di parole” il tuo mestiere?

L’uomo dall’aspetto distinto, avvolto in un lungo mantello rosso, fece capire a gesti di essere Bramha, il sovrano di quella piccola città muta.

Ho le parole adatte alle tue necessità.” Le tirò fuori con la lentezza e la solennità di un prestigiatore. “Eccole: Apparenza, clemenza e indulgenza, chiedere e pretendere, affermare e negare, scontro e confronto… consenso… conquista… dominio…ricchezza …forza… potere! Fanno cinque danari“.

Il re con il suo fardello di parole si incamminò verso il castello, ripetendo soddisfatto: “ricchezza… forza… potere” e pensò con eccitazione al discorso da fare ai suoi sudditi.

Al mattino i fischi degli araldi chiamarono tutti a raccolta. Il re Bramha, rinvigorito, dal balcone, con voce decisa ed autoritaria declamò: “Chiedere il consenso per il potere e la ricchezza, negare con la forza il confronto per la conquista e il dominio”.

L’eco risuonò nella valle, quella voce forte, ernergica e risoluta aveva il fascino discreto del nuovo. Egli apparve come guida morale e intellettuale e allo stesso tempo, destò stupore per quell’inatteso ed improvviso esprimersi, non più con il fischio e i gesti, ma attraverso le parole. Così si recarono dal mercante Adesh ed una folla supplicante incominciò ad acquistare la preziosa merce.

Calma signori, uno alla volta per carità !…Quale è il tuo mestiere, commerciante? Ho le parole pronte per l’uso: profitto… ed una d’importazione, molto usata nei paesi di civile ed avanzato progresso…marketing. Tu sei cortigiana del re, mi par di capire … prima i tre danari : …sorridere , acconsentire e tramare. Avranno per te una strategica importanza”.

Per tutti Adesh aveva quelle giuste. Restò un bambino dall’aria triste che guardava senza chiedere. “Cosa vuoi? Io non regalo, vendo !

Il piccolo agitò le braccia come fossero ali, poi incrociò le gambe, si sedette a terra ed iniziò ad emettere suoni sommessi e ritmicamente ripetuti, a bocca chiusa come un melodioso mantra che narrava una storia: “Uccello viveva un tempo nei dintorni del villaggio. Non aveva né i colori variopinti della primavera né quelli tenui dell’autunno, non aveva il canto allegro del fringuello e non era neppure grande e maestoso come l’aquila. Un giorno Uccello partì, superò la montagna di smeraldo e sparì all’orizzonte. Volò su interi continenti, nuovi mondi scoprì e più grande fu il suo sapere. Quando tornò al villaggio apparve agli uomini più bello. I suoi occhi erano diventati luminosi come diamanti, le piume brillavano come l’argento ed il canto era melodioso come il flauto di Pan. Uno stolto lo imprigionò, con il desiderio di avere solo per sé tanta bellezza, ma Uccello in poco tempo perse le piume e gli occhi divennero vitrei ed inespressivi. Continuò tuttavia a cantare e tanto inesorabile il tempo scorreva, così dolce e melodioso fu il suo canto”.

Adesh fu toccato nel profondo, “Ho una parola che nessuno ha voluto comprare e penso che non abbia un grande mercato: Libertà’. Te la regalo, guarirà Uccello e lo renderà libero, perché il canto non ha prigione, è alto e chiaro senza padrone”.

Il bambino corse verso la casa dove Uccello era prigioniero e quella parola fu la chiave adatta per aprire la gabbia. Volò via, oltre l’arcobaleno dove i sogni diventano realtà; riacquistò colori e bellezza ed il suo canto risuonò per tutta la valle come un monito di libertà ed un richiamo ad un risveglio spirituale che inducesse la comunità a vivere armoniosamente, senza ignorare le esigenze e i disagi di chi avesse bisogno di aiuto.

Nessuno ascoltò Uccello. Tutti ormai correvano ad acquistare le parole che potessero garantire una prospera condizione di fortuna e agiatezza e ciò fu la sola unica preoccupazione. Qualcuno, spinto da una sfrenata ambizione, pensò di esercitarsi in discorsi solenni e appelli, tipici di un capo di stato o di un comandante militare supremo, con il recondito desiderio di prendere un giorno il posto del re. Fu scoperto ed esiliato oltre il monte di smeraldo.

Non molto tempo trascorse, cominciarono così a praticare l’uso delle parole ed allo stesso tempo si resero conto di quanto apprezzabile fossero oro e potere. E presero a edificare e risparmiare, a commerciare e a prestare danaro, chi aveva un banco al mercato doveva al più presto possederne uno più grande; chi aveva avuto tre garzoni doveva averne dieci o venti. E più rapidamente le molte braccia lavoravano, tanto più in fretta si accumulava danaro nelle mani di coloro che avessero l’abilità necessaria per farlo. Una Banca aprì, per iniziativa di una ristretta cerchia e sul lussuoso edifico comparve una scritta: “ Prestiti agevolati, diponibilità immediata a basso tasso d’interesse”.

Un giorno, qualcosa di strano successe nella città ai piedi del monte di smeraldo. Le parole incominciarono ad uscire dalle bocche come gnomi dispettosi. Fu come se gli uomini non ne avessero il pieno controllo, come se il dire non avesse corrispondenza con il fare e l’equivoco regnò ai piedi del monte di smeraldo. La mamma cantava una strana ninna nanna: “Dormi amore tesoro bello, dormi in pace mio porcello, il sole e la luna ti regalerei, quasi ti strozzerei !”. Il grande sacerdote così indicava ai suoi discepoli la via della saggezza: “Non siate come animali, abbandonate i bisogni materiali, percorrete le strade della conoscenza, il benessere è un rosso vino da bere, Il cibo sano per la mente è cervo arrosto e spaghetti al dente”. Nella scuola il maestro insegnava a far di conto: “Due per quattro otto, organizziamo un bel complotto, tre per nove ventisette, alla mamma tagliamo le tette, cinque per quattro venti le strapperei tutti i denti, sei per sei trentasei, io mi faccio i fatti miei, se a papà non garba, gli bruceremo la barba“. L’uomo di legge, nel comporre una controversia tra vicini: “Vuoi un consiglio, ammazza un coniglio, Se non hai soddisfazione sgozza pure un montone, se non provi emozione, al tuo vicino taglia il capoccione”.

Mentre le parole, senza freno alcuno, uscivano dalla bocca e si sovrapponevano nella piazza, un cavaliere ferito, giunto da un lontano paese in guerra, irruppe tra la folla attirando l’attenzione di tutti. “Vi prego aiutatemi, ho fame, sono stanco e ferito, non lasciatemi morire”.

Nessuno aveva le parole adatte per quella tragica occasione, nessuno seppe esprimere conforto, anche i gesti erano freddi ed insignificanti. Tutto tornò come prima. Le lunghe braccia della perficda “Dakini” avvolsero nuovamente in un tetro presente la città.

Un bambino si fece largo, ero lo stesso che aveva liberato Uccello dalla sua prigione, ne aveva ascoltato il canto che giungeva dal cielo e penetrava nelle case ma gli altri con superficialità lo avevano ignorato. Lui era l’unico ad avere ancora l’uso della parola. “Cerchiamo Adesh, saprà come fare per aiutare il cavaliere sconosciuto”.

Il venditore di parole apparve tra la gente come materializzato da un’improvvisa magia: “Avete svuotato il mio sacco per riempirlo di oro zecchino, avete ciarlato con sfrenato egoismo, calpestato i bisogni degli altri; avete ignorato il canto di Uccello. Avete parlato senza senso tanto che le parole si sono ribellate e sono fuggite dalle vostre bocche, ma tra esse una è ancora nel mio sacco. Non è magica, ma esprime quel valore inestimabile per il vivere armonioso di una comunità. Se la ripeterete insieme a me l’incantesimo svanirà”.

In un coro che sembrò diretto da un abile direttore d’orchestra, all’unisono, pronunciarono quella parola che nessuno aveva comprato ed era rimasta nel sacco di Adesh come una merce invenduta: Solidarietà. Tutti corsero ad aiutare il cavaliere sconosciuto.

Un tiranno… una guerra… distruzione … sangue …. fame… malattie… “.

Resta con noi – supplicarono – guariremo le tue ferite e questa sarà la tua nuova casa”. L’uomo si senti avvolto dal caldo teppore delle tante mani che sostenevano il peso delle sue sofferenze e decise di restare. Al termine di una convulsa giornata, ognuno tornò nella propria abitazione, sopraggiunse la notte e al mattino, quando gli abitanti della città ai piedi del monte di smeraldo uscirono dalla porta, notarono con stupore una verde distesa d’erba impreziosita da fiori variopinti e luccicanti come pietre preziose. I piccoli correvano e giocavano, anche l’arcigno sovrano Bramha, tornato bambino saltellava tra di loro. La perficda “Dakini” nulla potè, i suoi incantesimi ed i malefici si infrangevano contro un’ideale barriera costruita con i mattoni dell’amore, dell’umana solidarietà e della compassione. Uomini e donne si incontrarono per parlare del bene comune. Qualcuno pensò al giardino incantato, altri alla magia di un mago buono, molti attribuirono quella straordinaria metamorfosi al mercante Adesh, il venditore di parole.

In realtà gli uomini avevano imparato a guardare al di la della superficiale apparenza, a condividere e distinguere i beni materiali da quelli spirituali senza esserne gelosamente legati. Fu così che la vita divenne per tutti più serena senza la bramosia del danaro e l’arroganza del potere.