Da Cassino alla Sardegna nel nome del funzionalismo in politica: che è tornato

Il "nuovo" mood della politica italiana: si urla ancora ma alla fine si cerca il compromesso. Perché quel che serve conta più di quel che si è

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Sta tornando di moda e di gran carriera. E la “colpa” sta tutta nella sbornia di sovranismo con la quale il Paese è stato ubriacato negli ultimi 15 anni. Adesso che l’Italia inizia ad accusare l’hangover da polarizzazione accade quasi il contrario. Che cioè il funzionalismo rischi di far ammalare la politica. Spieghiamola meglio: l’Italia viene da e per parte congrua vive ancora una lunga stagione polarizzata, in cui i partiti ostentano con fierezza la loro ricetta identitaria per far guarire il Paese. O meglio, specie a destra: quella sola parte di Paese che essi sentono sodale e sintonizzata.

E nel nome di quella, spesso attuano una purezza di intenti che testardamente va a discapito di soluzioni mediate. Cioè di scelte in cui perdi un po’ di quel che sei e guadagni un po’ di quel che ti serve. Giorgia Meloni è la testimonial perfetta di questa necessaria metamorfosi ed è ormai perennemente in bilico tra ciò che è e ciò che vorrebbe. Ma la premier è, appunto, una premier, cioè una che ha il fardello del controllo del Paese oltre che quello della leadership di Fratelli d’Italia.

Diciamo che traccheggiare je tocca, via.

Quel che che serve sotto l’abazia

Giorgio Di Folco e Giuseppe Sebastianelli dopo le Primarie in cui si sono sfidati

Il fenomeno però si sta pian piano spostando nei Partiti, ed ecumenicamente dai massimi sistemi a quelli di cabotaggio più territoriale. La riprova? Cassino. Per battere Enzo Salera se ne sono provate e se ne stanno provando tante e tali che la Bisanzio costantinea a paragone pare una palazzina Ater della Corea del Sud. Dalle Primarie indicate da tutti come step necessario per individuare l’anti-Pitbull alle Primarie sconfessate in corso d’opera proprio da chi le aveva più di tutti teorizzate. Come nel caso dell’ex vicesindaco Benedetto Leone che dopo averle pensate, reclamate, organizzate, le ha alla fine abbandonate per sostenere la candidatura dell’avvocato Arturo Buongiovanni jr.

Primarie resettate ma portate a termine dai due resistenti Giuseppe Sebastianelli che le ha vinte – e Giorgio Pistoia, che ha vinto comunque. Ma questo è scenario locale, e lì il funzionalismo più che upgrade è regola. Tuttavia con qualche considerazione che però spiega che non è proprio così.

Fratelli di tattica: osservatori interessati

Massimo Ruspandini

Prendiamo Fratelli d’Italia, ad esempio. In crono step: all’ombra dell’abbazia arriva un commissario per equalizzare i bollenti spiriti locali. Lo stesso, prima di sortire risultati apprezzabili può buttare la palla in tribuna grazie ad una chiamata ad incarico altro che lo toglie dal fosso di spine cassinati. Tocca perciò al capoccia provinciale, quel Massimo Ruspandini che si ritrova a dover fare il funambolo, più che il conducator. E che pur essendo il leader provinciale di un Partito che poteva fare come Brenno coi romani diventa “funzionale”.

Quindi non indica (ancora) un candidato sindaco di Partito e si stempera morbido nella necessità superiore di fare squadra. Cioè sommatoria possibile di voti con Partiti e civici del centrodestra. Quelli che hanno sconfessato le primarie ed additato Arturo Buongiovanni jr., persona in gamba ma oggettivamente “oscuro” come Eraclito che veniva chiamato così, “o skoteninòs” perfino dai vicini di casa.

Attenzione: questo senza rinunciare a spedire (o no?) un folto gruppo di osservatori alle primarie di domenica 18, sia in fase di voto che di spoglio. E presenti perfino alla cena gigiona dopo il medesimo con commensali tra cui il candidato “vero” (tenuto in riserbo di funzione per giorni) ma poi sfilatosi da Fdi, Silvestro Petrarcone. Come l’Onu, che manda i suoi a vedere se gli altri scarrocciano e poi si indigna, ma non risolve.

Calenda e Bonino: ma non avevano litigato?

È il funzionalismo baby, e non è solo roba cassinate. Pochi giorni fa Ettore Rosato, “fresco” di ingresso ai vertici di Azione di Carlo Calenda e di divorzio da Matteo Renzi a cui a fatto da Grillo Parlante per anni, ha detto una cosa importante. In un’intervista alla testata ha spiegato che per le Europee “Azione ha l’ambizione di costruire un soggetto plurale. Dialoghiamo non solo con Più Europa ma anche con diverse realtà di ispirazione popolare, socialista, liberale, repubblicana”. (Leggi qui: Rosato: “Da noi troppa burocrazia, ma Stellantis ha già deciso, e su Renzi…”).

Carlo Calenda e Alessio D’Amato (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

Certo, ma +Europa è il Partito di quella Emma Bonino che prima delle Politiche, in occasione dello “strappo” di Azione dall’asse con il Pd di Enrico Letta, con Calenda ci si era baruffata in maniera gagliardissima.

Sì, è il funzionalismo baby, anche se in questo caso emendato dal fatto che si parla di Partiti che ne fanno totem e protocollo da sempre, non per sopravvenuta necessità.

Salvini pro Navalny, necesse est

“Navigare necesse est”, spiegava il motto della Lega Anseatica che doveva giustificare le necessità del commercio in comunella da parte di tedeschi e fiamminghi che erano come la fame e la sete. E Matteo Salvini che china il capoccione e manda i suoi a ricordare quel Navalny di cui aveva detto peste e corna prima che morisse in aura di martirio putiniano? Certo, lì la sola presenza di Salvini garantisce una bipolarità certificata, ma il sugo è sempre quello. Come il sugo sardo, a mollo nel quale ed in vista delle Regionali perfino uno come Giuseppe Conte, il più duro e puro del bigoncio, alla fine ha riesumato il campo largo col Pd.

I fatti sono noti: dopo la crasi messa in piedi da Nicola Zingaretti con il modello in Regione Lazio i due Partiti sono andati ognun per sé. E praticamente ad ogni occasione le loro divergenze sono emerse come barriere fattesi insormontabili, più che come fisiologiche e sanabili differenze di rotta. Conte in particolare non ha mai perso occasione per additare perfino il Nazareno mezzo massimalista di Elly Schlein come un posto infido.

Poi è arrivata la faccenda della Sardegna. E con essa la necessità di battere il destra centro che ci comanda e che cerca il bis con altro candidato. Perciò tutto è tornato in odor di possibilismo funzionale. Non è un paradosso singolo e singolare da additare, è l’effetto di un ritorno di fiamma della necessità di farcela anche abrogando un po’ della tua mappa identitaria. “Insieme al Pd si può mandare a casa la destra”.

Sì, moriremo tutti democristiani

Trasformismo? Sì, se la si vuol leggere come iperbole pubblicistica. Funzionalismo? Sì tre volte, se la si vuol leggere come necessità strategica che batte tre a zero la purezza degli intenti.

Elly Schlein e Giuseppe Conte a Firenze (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

In Sardegna correrà per la Presidenza regionale Alessandra Todde, che è vicepresidente del M5S. Conte ha stemperato la sua visione con precondizioni nette quanto accademiche. “Serve un patto serio. Chiedo solo che ci sia un progetto serio e autentico e non un cartello elettorale dettato dall’ansia di potere.

E la chiosa piaciona: “Il mio obiettivo non è mai stato attaccare il Pd”. Opinabile, quanto meno opinabile. Ma il dato è un altro: è quello per cui sbraitare della propria purezza è sport che funziona nei momenti di stasi. Ma non serve quando si deve andare a meta. E siccome in Italia c’è una “meta” più o meno ogni 15-20 mesi pian piano la tattica del momento sta diventando mood concettuale di ritorno. E che “moriremo tutti democristiani” non è mai stato vero come oggi.