I have a dream: FdI fa democrazia invece di proclamarla

Non chiamatelo paradosso, è solo una realtà che faceva comodo ignorare: il partito più a destra di tutti non cade nel trappolone delle acclamazioni

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I Partiti di estrazione destrorsa si portano appollaiata sulla spalla una croce vecchia e pesante: quella di dover usare la democrazia come lasciapassare invece che come metodo. Il concetto è ovvio, e tanto “razionale” che a volte pecca di irrazionalità o quanto meno di miopia. Ed è quello per cui se il mio albero genealogico porta dritto agli “immancabili destini” di un’epoca in cui a Montecitorio ci potevano bivaccare i manipoli allora quello è tatuaggio indelebile. Perciò anche quando un sistema complesso come, ad esempio, Fratelli d’Italia, compie la sua metamorfosi democratica assodata e stabilizzata qualcosa di quel passato resta.

E non resta nelle dinamiche istituzionali, dove la democrazia è binario obbligato, no. Quell’antica indole verrebbe a palesarsi nelle dinamiche interne. Cioè dove un Partito di destradestra può fare l’occhiolino più a quello da cui viene che a ciò verso cui sta andando. Ecco, Fratelli d’Italia questo teorema un po’ da stereotipo per vignetta non solo lo ha superato, ma lo ha resettato.

Superare gli stereotipi: nettamente

Riccardo Del Brocco

Dove e come? Nella articolata stagione congressuale di questi giorni su province e territori. E semplicemente applicando criteri che per paradosso nessun altro applica, nel destra centro d’area. Il caso di Fratelli d’Italia di Frosinone sta là, monolitico e sornione, a dimostrare che non è di una chiave di interpretazione che si sta concionando, ma di una realtà tridimensionale, non da fondale di teatro.

Massimo Ruspandini, che presidente provinciale ci è stato eletto con il controllo assoluto dell’80% abbondante del Partito in quanto ad area, non ha strafatto. E per questo ha vinto due volte. In che senso non ha strafatto? Nel senso che il paventato modello dell’acclamazione leaderistica, che a Ruspandini sarebbe calzato a pennello come uno di quei capi di sartoria figa che piacciono tanto a Daniele Maura, non c’è stato.

Il caso Ruspandini, presidente perché leader

Il neo presidente e uomo forte di Giorgia Meloni ha saputo fare in modo che la sua forza fosse centellinata dall’esercizio di ogni singola volontà di asseverarla. Perciò è stato votato e non scelto, individuato con intenzioni individuali e non proclamato con i moschetti a fare carosello in aria. Quello che è andato in scena al cinema Dream di Frosinone è stato il severo protocollo di una gestione unitaria ma figlia di robe ad alto tasso di democrazia. Cose come il voto segreto, l’urna, lo spoglio, la vidimazione dei risultati e gli stessi comunicati a fine procedura.

Non pare proprio essere roba da Ettore Muti selezionato a voce e bollo tondo al posto di un offesissimo Achille Starace. Ed appare faccenda ancora più forte in lettura critica a contare che sul piano nazionale quel mood è ecumenico e poggia sulla contraddizione palese di altri Partiti che scelte del genere non le hanno fatte quasi mai.

Meloni “usurata” e tuttavia coerente

Giorgia Meloni sapeva benissimo che la stagione congressuale di fine 2023 sarebbe stata un slalom tra le baionette. Lo sapeva perché essa giunge a più di un anno dall’arrivo a Palazzo Chigi, cioè in regime di usura severa per l’esercizio di un potere decisionale che non è stato immune da scossoni. In più, la stessa è arrivata dopo il lento ed inesorabile peppiare di pulsioni interne che avevano condotto, ad esempio, la componente rampelliana dei “Gabbiani” a trovarsi più di una volta testa contro testa con quella maggioritaria che fa capo alla leader.

Sui territori era un po’ la stessa cosa, con la dicotomia tra lo zoccolo duro di generazione Atreju quando non da campi Hobbit e le schiere di approdati al Partito nelle legittima fisiologia di un momento secondo. Eppure è stato tutto equalizzato e con un tono di fondo che ha reso il processo ancor più evidente, come quando una pennellata di porpora sciabola un tessuto giallo.

Prendiamo gli altri partiti che compongono la maggioranza di governo, cioè formazioni che sono anch’esse di destra ma non di “quella destra là” brevettata e patentata dalla storia come allergica alle scelte collegiali. Forza Italia è quello che più di tutti, fra i tre maggiori, è nato e vissuto sotto l’egida di un mood democratico in purezza, non foss’altro perché non ha “antenati”. Certo, è partito figlio del leaderismo assoluto del suo patriarca fondatore, è Partito-azienda e la democrazia sta all’aziendalismo come le Giovani Marmotte stanno al Nono Col Moschin. Tuttavia il dato è inattaccabile: gli azzurri, anche per timing di agone politico, avrebbero dovuto tenere più congressi di quante sono state le barzellette del suo leader.

Forza Italia e Lega non lo fanno più

Antonio Tajani davanti all’immagine di Silvio berlusconi (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

E invece? Tolta la primissima fase, quella in cui Silvio Berlusconi era magnanimo al punto da potersi contrabbandare come amante della collegialità, nulla di nulla. I segretari, presidenti, referenti, responsabili e compagnia casermando sono stati sempre individuati, scelti e messi a regime con un paio di telefonate ed una Pec.

Idem dicasi per la Lega di Matteo Salvini. Dopo l’ascesa del Capitano gli atti di democrazia in purezza per individuare i responsabili d’area si possono contare sulle dita delle mano di un cuoco etilista con un frullatore grosso sul banco.

Ad Isbuscenskij nel 1942 il Savoia Cavalleggeri, in piena guerra meccanizzata, osò caricare coi cavalli e sciabola in resta un reparto motorizzato sovietico. A fine carica e coi nemici dispersi un ufficiale tedesco, ammirato, disse al comandante, colonnello Bettoni Cazzago: “Noi queste cose non le sappiamo fare più”. Ecco, ci sono Partiti che quello per cui erano nati non lo sanno semplicemente fare più.

La lezione di democrazia dei “Fratelli”

Massimo Ruspandini

Poi ti arriva Fratelli d’Italia che porta sulla giacca i refoli della polvere della stagione più antidemocratica della storia nazionale e che ti fa? Piaccia o meno ti dà una lezione di democrazia attuata e non sceneggiata. Ti strappa il copione di un passato che tutti fanno sventolare davanti a quel Partito come una muleta nera davanti ad un toro iracondo e fa mettere i suoi in fila davanti ad un’urna invece che in riga davanti ad un capo manipolo.

E li spedisce, convinti e coinvolti, a fare una cosa che finora solo i “democratici veri da gargarismo” facevano. Il che a ben vedere è un ossimoro, perché se fai cose democratiche e le fai come le ha fatte Fdi non sei uno che aspira alla democrazia. Sei la sua legittima espressione, e stavolta il “boia” è chi non ci credeva.