I Monumenti che ricordano la “Grande guerra” che fece 10 milioni di morti

La fine del primo conflitto mondiale e i luoghi di Cassinate e Valcomino dove le genti vollero ricordare chi era morto in quel massacro

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

Il 4 novembre 1918 si concludeva per l’Italia la Prima guerra mondiale. L’Armistizio sottoscritto il giorno precedente a Villa Giusti a Padova poneva fine a una guerra che può essere racchiusa nella dicotomia coniata del professor Emilio Gentile di «Due colpi di pistola, dieci milioni di morti».

Gli spari erano stati quelli dell’attentato a Sarajevo da parte di Gravilo Princip che aveva ucciso l’erede al trono dell’Impero austro-ungarico e la moglie. Dando così avvio agli eventi bellici che mai nella storia dell’umanità erano stati così ampi in termini di territorio coinvolto, di nazioni partecipanti. E di morti (per la stragrande maggioranza militari caduti nei vari fronti di guerra differentemente alla Seconda guerra mondiale quando il numero di civili morti fu nettamente superiore). 

Curiosamente la lingua italiana utilizza lo stesso vocabolo, «armistizio», per quello del 4 novembre 1918 e quello dell’8 settembre 1943, così antitetici fra loro. Il primo adoperato per indicare la fine vittoriosa della guerra, il secondo per designare la resa senza condizioni dell’Italia. E l’inizio del più drammatico periodo che ha vissuto nel corso della sua storia.

Caporetto: la madre di tutte le disfatte

Fanti in trincea

Solo un anno prima della vittoriosa conclusione della Prima guerra mondiale, l’Italia aveva conosciuto una delle disfatte militari più dolorose, quella di Caporetto (a proposito quanti italiani sanno dove si trovi oggi Caporetto?). Tuttavia l’Esercito italiano riuscì a resistere attestandosi sulla linea del Piave, soccorso anche da contingenti militari francesi e inglesi. 

Poi dal giugno 1918 era iniziata la riscossa italiana reggendo l’urto di un nuovo poderoso attacco austro-ungarico nella cosiddetta «Battaglia del solstizio», come la definì Gabriele D’Annunzio. Battaglia combattuta dal 15 al 26 giugno 1918. Fra l’altro nelle prime fasi, favorevoli agli attaccanti d’oltralpe, gli austriaci erano riusciti a sfondare il fronte, oltrepassare il Piave e conquistare anche la cittadina di Nervesa, oggi chiamata, non a caso, Nervesa della Battaglia.

Sulle pendici del limitrofo Montello c’era l’abbazia benedettina di S. Eustachio che fu totalmente distrutta dalle cannonate. Cioè come qualche decennio dopo avverrà per Montecassino, ma che poi non è stata mai più ricostruita. A Nervesa della Battaglia trovò la morte Francesco Baracca, l’asso dell’aviazione italiana. Volava su un aereo che aveva come insegna un cavallino rampante.

Oggigiorno una delle aziende italiane più note nel mondo è la Ferrari che produce automobili sportive e da corsa. Ma pochi sanno che Enzo Ferrari adottò come emblema per la sua industria, per la sua scuderia di macchine da corsa, proprio il cavallino rampante in omaggio e ricordo di Francesco Baracca.

Il Piave mormorò

L’esortazione patriottica “Tutti Eroi! O il Piave o tutti accoppati!”, opera del generale del corpo dei Bersaglieri Ignazio Pisciotta

Molto spesso nel corso di una guerra ci sono fattori esterni agli eventi bellici in sé che possono contribuire a rialzare il morale molto basso di soldati e militari. Nel caso dell’Italia uno di essi è rappresentato da una canzone che in poche ma significative strofe racconta di quando il Piave «mormorava calmo e placido al passaggio dei fanti il 24 maggio 1915».

E con tutto il bagaglio di speranze e aspettative dei soldati italiani fino alla disfatta di Caporetto e poi la difesa strenua, coraggiosa, tenace, lungo i suoi argini. Questo quando il fiume «mormorò non passa lo straniero» e poi comandò «indietro và straniero» al momento della vittoriosa controffensiva.

Si tratta de La leggenda del Piave composta nel giugno 1918 da E. A. Mario pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta. La canzone ebbe un impatto positivo notevolissimo sul morale degli sfiduciati fanti italiani. Lo stesso comandante in capo dell’Esercito, Amando Diaz, telegrafò all’autore per fargli sapere che la sua canzone era servita a dare coraggio ai soldati. Nonché ad aiutare lo sforzo bellico più di un generale. 

Tra le Poste e la chitarra

Il poeta E.A.Mario nel suo studio (Foto: Archivio Di Domenico)

Giovanni Ermete Gaeta alias E. A. Mario era originario di Napoli. Era figlio di un barbiere. Un giorno, quando aveva circa dieci anni, un posteggiatore dimenticò nella bottega del padre un mandolino che da quel momento divenne il suo inseparabile strumento musicale. Iniziò a studiare musica da autodidatta.

Poi iniziò a comporre canzoni, scrivendo sia la musica che i testi. Quindi diciottenne fu assunto dalle Poste Italiane e andò a lavorare allo sportello dell’Ufficio postale di Napoli.

Ben presto però la sua bravura in campo musicale cominciò a circolare in tutt’Italia. La sua attività di musicista lo portò in giro in varie città ma le assenze sul posto di lavoro produssero il suo licenziamento per ingiustificato motivo. Salvo poi essere riassunto quando le Poste si resero conto dell’attività che svolgeva e della fama che lo circondava.

Mentre la sua notorietà cresceva sempre più, iniziò a utilizzare lo pseudonimo di E.A. Mario, dove la «E» sta per Ermete, il suo secondo nome; la «A» per Alessandro. Lo fece in segno di riconoscimento del direttore di un giornale di Genova che lo aveva aiutato agli esordi; e «Mario» in onore di un idolo della sua giovinezza e cioè Alberto Mario, patriota, politico e giornalista autore de La camicia rossa. Cioè il memoriale sulla spedizione dei Mille (Giovanni Ermete Gaeta era infatti un fervente repubblicano e mazziniano). 

Un mazziniano davanti al Re

Re Vittorio Emanuele III passa in rassegna le Associazioni dei Reduci della Grande Guerra nella Caserma Macao – Castro Pretorio

Nel 1922 E.A. Mario fu convocato da re Vittorio Emanuele III al Quirinale in occasione della cerimonia per l’inaugurazione del Vittoriano con il monumento al milite ignoto. Con la sua sfrontatezza disse al sovrano della sua fede repubblicana e mazziniana. E Vittorio Emanuele pacatamente gli rispose: «Vi sono parecchi repubblicani che come lei hanno reso grandi servigi alla monarchia» e lo nominò commendatore.

Un altro fatto singolare interessò E.A. Mario questa volta nel corso della Seconda guerra mondiale. Trascorse gli anni di guerra nella sua Napoli. La città si era liberata il primo ottobre 1943 e poi giunsero gli alleati, in particolare gli americani della V armata.

Nel gennaio 1945 il consuocero, Edoardo Nicolardi, direttore amministrativo dell’ospedale «Loreto mare», giunse trafelato a casa. Quella mattina l’ospedale e poi tutta Napoli era stata sconvolta da un fatto. C’era stato il parto di una ragazza napoletana, ma era nato un bambino mulatto. Un fatto che poi non restò unico ma si ripeté nei giorni successivi. Immaginate nella Napoli di allora come venne accolta la notizia. Perché tale fatto non venisse dimenticato fu composta una canzone (musica di E.A. Mario, testo di Nicolardi) e così nacque Tamurriata Nera «è natu nu criaturo, è nato niro, e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, sissignore ‘o chiamma Ciro»

Tutta colpa della Democrazia Cristiana

Alcide De Gasperi

La leggenda del Piave fu adottata come inno nazionale provvisorio italiano dal 1943 al giugno 1946. Alcide De Gasperi subito dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 convocò E.A. Mario a Roma prospettandogli di farla divenire Inno nazionale dell’Italia repubblicana appena costituitasi ma chiedendogli in cambio di comporre un inno per la Democrazia Cristiana.

Tuttavia E.A. Mario rifiutò sdegnosamente l’offerta rispondendo a De Gasperi che lui non componeva a comando ma solo quando era ispirato. La leggenda del Piave non divenne l’inno nazionale della Repubblica italiana.

L’Assemblea Costituente scelse come inno provvisorio italiano Il canto degli italiani, detto anche Fratelli d’Italia, e noto pure, poco appropriatamente, come Inno di Mameli. Ebbene Fratelli d’Italia mantenne la sua condizione di provvisorietà per decenni e solo dal 2017è divenuto, per legge, definitivamente l’inno ufficiale dell’Italia.

Ricordo e toponomastica

Il monumento ai Caduti di Atina (Foto: Csdc Centro Documentazione e Studi Cassinati)

A partire dalla fine della Grande Guerra, come fu definita la Prima guerra mondiale, e poi nel corso degli anni Venti e Trenta del Novecento, cominciò a svilupparsi la celebrazione del ricordo. La toponomastica cittadina di moltissimi Comuni d’Italia venne integrata con l’attribuzione di una strada, piazza, largario, ad esempio, a date simbolo. Come quella d’inizio delle ostilità il «XXIV maggio» [1915] o al giorno della vittoria, quello del «4 novembre» [1918]. Oppure inserendo i nominativi di militari scomparsi nel corso degli eventi bellici. 

Tuttavia l’aspetto più concreto si ebbe quando i Comuni d’Italia, come quelli d’Europa, si dotarono di testimonianze tangibili e concrete dedicate ai caduti della Grande Guerra. Fu tutto un fiorire di lapidi, cippi, giardini o viali della rimembranza, monumenti. Erano in onore dei tanti figli partiti per combattere e mai più ritornati nei loro luoghi d’origine. Già nel corso degli eventi bellici e poi immediatamente a fine guerra si giunse alla realizzazione di ricordi marmorei che avevano costi esigui, velocità d’esecuzione, impiego di mano d’opera locale.

Si trattava di lapidi con incisi i nomi dei caduti collocate, per lo più, all’interno o all’esterno dei Palazzi comunali, oppure, specie nelle frazioni, sulle facciate delle chiese.

Cosa resiste a Campoli Appennino

Lo splendido Parco della Rimembranza di Anagni, costruito in ricordo dei Caduti della I Guerra Mondiale

Un’altra tipologia di consacrazione del ricordo dei caduti si venne a sviluppare nei Comuni italiani quando fu ripresa un’idea di origine tedesca. Idea che aveva portato alla realizzazione di un particolare cimitero senza morti e senza tombe chiamato il «Bosco degli Eroi». In Italia vennero definiti come «Viali della rimembranza». Lungo una delle strade cittadine venivano messi a dimora degli alberi, normalmente dei cipressi, a ricordo dei soldati morti in battaglia.

A ogni albero veniva assegnato un nome di un caduto al fine di fargli riacquistare un «corpo simbolico». La custodia di questi «luoghi sacri» era affidata a una «guardia d’onore» composta da alunni delle scuole. Nel corso di un solo anno furono 5700 i Comuni d’Italia che si dotarono di luoghi della rimembranza. Ne sorsero anche in città. E paesi dell’odierno Lazio meridionale, ad esempio a Campoli Appennino, Picinisco, Pescosolido, Vallerotonda.

Pure Cassino aveva il suo «viale della rimembranza» ubicato lungo il «tracciato di viale Principe Umberto-via A. Diaz» che dal centro della città andava verso la chiesa di S. Antonio e il cosiddetto «quinto ponte».

Il viale era fiancheggiato ai due lati da giovani piante di platani, ciascuna con una targa in metallo smaltato con le indicazioni di un caduto in guerra. Quasi tutti i «viali della rimembranza» sono andati persi in seguito alle vicende belliche della Seconda guerra mondiale. Tuttavia ne sopravvivono taluni come ad esempio quello collocato al centro della deliziosa cittadina di Campoli Appennino.

Fanti eroici e donne in lacrime

Il monumento di Giuliano di Roma ai suoi Caduti nella I Guerra Mondiale: un fante con una colomba in mano

Tuttavia l’aspetto più appariscente del ricordo della Grande Guerra fu l’erezione in ogni Comune di un Monumento ai caduti. Normalmente venivano edificati su spazi più o meno ampi con al centro una o più statue che servivano a rappresentare l’evento bellico, tra eroismo e orrore della guerra. I gruppi marmorei dei Monumenti ai caduti riproducevano più frequentemente soldati, eroici e morenti, assieme alle personificazioni della libertà o della vittoria.

Il fante italiano veniva raffigurato in armi, in atteggiamento bellicoso mentre si apprestava all’attacco con un piede su un sasso a ricordare le rocce delle Alpi. Oppure morente tra le braccia di dolenti figure femminili, personificazione delle madri o delle mogli lasciate a casa. O talvolta anche esanime accompagnato da eroici commilitoni. Un altro soggetto frequentemente rappresentato dal repertorio simbolico utilizzato in quegli anni era una figura femminile alata o guerriera con corona di alloro a personificare la vittoria.

Inizialmente nei Comuni si costituirono dei comitati cittadini che avevano lo scopo di reperire i fondi necessari per la realizzazione dei manufatti. Per procacciare le risorse economiche furono organizzati veglioni, balli, lotterie, tombole. Oppure furono avviate sottoscrizioni anche presso le comunità di compaesani emigrati all’estero (soprattutto negli Stati Uniti). Ma in molti casi per giungere all’erezione dei Monumenti dovettero intervenire economicamente le Amministrazioni comunali (anche facendo leva su un aumento della tassazione locale).

Tamagnini e lo stemma a Cassino

La firma di Tamagnini (Archivio Csdc – Centro Documentazione e Studi Cassinati)

Anche a Cassino si giunse alla costituzione di un apposito Comitato per la costruzione del Monumento ai caduti e furono avviati i lavori di realizzazione. Senza, però, la redazione di uno specifico progetto e neppure un preventivo di spesa. Il Monumento fu realizzato «parte in economia», con i lavori di basamento eseguiti «da tal Franchitti».

Poi «parte mediante contrattazione diretta con lo scultore Tamagnini e la Ditta Laganà». Ai lavori avrebbero presero parte anche gli scultori locali Bartolomeo e Luigi Ricci. Dunque il Monumento fu opera di Torquato Tamagnini, scultore perugino, che in quegli stessi anni realizzò anche uno stemma in bronzo della città di Cassino. Stemma che fu collocato sulla sommità della grande lapide dedicata ai caduti posta all’ingresso del Palazzo comunale.

Il monumento era ubicato in Piazza regina Margherita, collocato di fronte al Teatro Manzoni. In un’area recintata da un’inferriata metallica intervallata da colonnette in marmo, tramite cinque scalini si saliva a un’area. Area nella quale c’era un piedistallo in marmo su cui era collocato un gruppo scultoreo formato da due statue in bronzo. Una, rappresentata da una figura femminile con le braccia aperte verso l’alto, simboleggiava la vittoria mentre ai suoi piedi c’era l’altra raffigurante un milite morente.

L’importo previsto per la realizzazione era sostanzioso. Poiché però le contribuzioni volontarie raccolte dal comitato cittadino non furono sufficienti a coprire i costi di realizzazione, fu necessario l’intervento economico del Comune. Tuttavia le varie crisi amministrative succedutesi in quegli anni, con cadute dei sindaci e commissariamenti, determinarono dei forti ritardi.

Ci pensa il Podestà Pinchera…

Il monumento di Cassino ai Caduti della I Guerra mondiale posto davanti al municipio. (Archivio Csdc – Centro Documentazione e Studi Cassinati)

Ritardi nella realizzazione e solo quando nel 1927 Caio Fuzio Pinchera tornò ad amministrare la città in qualità di podestà, pose il completamento dell’opera a carico del Comune. Ma non trovando fondi sufficienti per il saldo delle spese «stimò opportuno imporre un’addizionale provvisoria sulle riscossioni del dazio relativamente alle bevande alcooliche e vinose» e fu così possibile giungere alla definitiva realizzazione del Monumento. 

Poi si giunse all’inaugurazione del Monumento nel maggio 1929 (anno di importanti manifestazioni svoltesi in occasione del XIV centenario della fondazione del monastero di Montecassino). Avvenne alla presenza del ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Belluzzo, ingegnere, politico e accademico italiano.

Casi del tutto differenti per diversità dei temi rappresentati e dei materiali utilizzati, appaiono i Monumenti realizzati a Picinisco, Carnello di Sora, Ventotene e Cervaro.

Aquila asburgica prendi questo…

Il monumento di Cervaro in piazza XXIV Maggio (Archivio Csdc – Centro Documentazione e Studi Cassinati)

Nel caso di Cervaro il Monumento, voluto dall’allora sindaco della cittadina e presidente della Deputazione di Terra di Lavoro Vincenzo Casaburi, era stato progettato dall’ingegner Cataldi. Questo anche se l’idea originaria era ancora più imponente di quanto poi effettivamente realizzato. Alla fine fu realizzato un manufatto racchiuso all’interno di un’area delimitata da una ringhiera in ferro.

Ai lati erano poste delle lapidi con i nominativi dei caduti mentre al centro, al di sopra di una base, si trovava una imponente statua in marmo, allegoria della vittoria. Era opera dello scultore Nicola Brunelli, artista di Foligno il quale realizzò una statua che si andava a distinguere nettamente da tutte le altre poste nei vari Monumenti ai caduti in Italia.

Innanzi tutto la statua si caratterizzava per il materiale utilizzato in quanto era in marmo e non in bronzo o altro metallo. Ma soprattutto la differenziazione della statua di Cervaro derivava dalla simbologia utilizzata. Infatti la statua di Cervaro era costituita da un imponente corpo maschile nudo scolpito in un atto allegorico originale e insolito. Ritraeva un nerboruto uomo nell’atto di scagliare un masso posto tra le sue mani, su un’aquila a due teste che reggeva con uno dei piedi.

(Archivio Csdc – Centro Documentazione e Studi Cassinati)

Allegoria della vittoria sull’impero asburgico, l’impero austro-ungarico il cui stemma era rappresentato da un’aquila bicefala. Il Monumento venne inaugurato il 4 novembre 1923. Per tale l’avvenimento il cielo di Cervaro fu lungamente sorvolato da aerei che lanciarono sulla cittadina in festa centinaia di manifestini inneggianti a Cervaro e alla Patria. E che riportavano la scritta: «Il bacio delle ali d’Italia / Alla pietra che eternerà la memoria / Dei Caduti di Cervaro / Per la grandezza della Patria».

Oro alla Patria, e non solo quello

Lo smantellamento delle inferriate del monumento di Atina ai Caduti (Foto: Archivio Biblioteca Comunale / Csdc)

Lo scoppio del Secondo conflitto mondiale provocò primo lo smantellamento e poi la distruzione totale o parziale dei Monumenti ai caduti della Grande Guerra. Infatti ancor prima che gli eventi bellici facessero la loro comparsa nelle città e paesi della Linea Gustav vari Monumenti ai caduti subirono l’asportazione delle loro statue e delle parti in metallo. Le pressanti esigenze militari che richiedevano ingenti risorse anche di materie prime come oro, argento, bronzo e ferro, avevano indotto il fascismo a chiedere alla popolazione di privarsi di beni personali. Ed alle comunità locali di offrire metalli, inseriti negli arredi urbani pubblici.

Inizialmente furono le fedi nuziali, poi toccò alle parti in bronzo e ferro e cioè alle campane delle chiese, alle statue, alle inferriate, agli inserti e accessori dei Monumenti ai caduti. Materiali questi che furono asportati per essere fusi. Anche la prefettura di Frosinone emanò delle disposizioni con le quali si sollecitavano le autorità locali alla consegna di oggetti in metallo. Inizialmente fu ingiunta la rimozione delle campane pubbliche, con l’esclusione, inizialmente, di quelle degli edifici di culto.

Quando poi ci accorse che solo in nove degli allora 89 Comuni della provincia erano presenti delle campane pubbliche (ne furono rimosse solo tre di cui due a Castelliri e una a Ferentino) l’attenzione si spostò sulle campane delle chiese. Tuttavia si venne a generare una forte opposizione da parte delle autorità ecclesiastiche e delle popolazioni locali. E se alla fine non si giunse all’asportazione delle campane probabilmente lo si deve al fatto che le vicende belliche avevano oramai raggiunto il territorio. Per cui la loro rimozione e spedizione al settentrione presentava varie problematiche.

Arriva un’altra guerra

Lo smantellamento delle statue

Tant’è che molto più colpite risultarono le chiese del nord Italia.  Diversamente per le parti metalliche dei Monumenti ai caduti che furono rimosse e inviate a Terni o a Milano per essere fuse. Furono smantellate le due statue del gruppo scultoreo in bronzo del Monumento Cassino. Parimenti la statua e la ringhiera perimetrale del Monumento di Atina, così come quelle di Casalvieri, San Donato Val di Comino, San Vittore del Lazio. Invece a Cervaro proprio l’uso del marmo invece del bronzo preservò in quei momenti la statua dall’asportazione.

Poi il sopraggiungere del fronte di guerra fece scempio di questo territorio. La distruzione totale subita dalla città di Cassino nel corso dei cruenti eventi bellici della Seconda guerra mondiale ha determinato anche la scomparsa del Monumento ai caduti. Tuttavia alcuni suoi frammenti sono sopravvissuti. Tali reperti, reliquie laiche della Cassino che fu, sono stati impiegati per fare da rialzo al residuato bellico. Al carro armato che si trova in Piazza De Gasperi di fronte al Comune. Oggigiorno tra i vari ruderi si può ancora vedere un blocco di pietra che riporta la scritta «Tamagnini Roma», indicazione dello scultore che si trovava alla base del vecchio Monumento.

Diverso il destino del Monumento di Cervaro. Le pur tantissime bombe e granate cadute sull’abitato (che ha riportato il 98% di distruzione) non colpirono direttamente il Monumento. La statua fu scheggiata, gli spostamenti d’aria fecero cadere le braccia e il masso, ma non fu distrutta. Rimase all’impiedi, ferita sì ma dritta, austera, fiera del suo simbolico passato. Tuttavia nel corso dell’estate del 1948 andò maturando nell’Amministrazione Comunale l’idea di utilizzare lo spiazzo su cui si ergeva il Monumento. Di farlo per la costruzione di un edificio scolastico.

Un pannello per ricordare

Il Genio Civile di Cassino appaltò i lavori che erano a carico dell’Ericas (Ente per la ricostruzione del Cassinate) e fu costruita la nuova Scuola elementare di Cervaro. A inizio dei lavori edilizi di costruzione, l’imponente statua, benché mutila, sfregiata e danneggiata, fu rimossa. E da allora se ne sono perse le tracce, assieme alle altre parti del monumento cioè le lapidi con i nomi dei caduti. 

Sabato 4 novembre 2023, esattamente a cent’anni dalla inaugurazione del Monumento ai caduti, la città di Cervaro si è arricchita di due nuovi preziosi manufatti. Sono un pannello in fotoceramica e una lapide esplicativa, che sono stati collocati sulla parete esterna dell’Edificio Scolastico in Corso della Repubblica. Questo al fine di tramandare alle nuove generazioni la visione di uno scorcio del paese che ora non esiste più.

La lapide in travertino (m. 1×0,90) ha funzione esplicativa in quanto specifica come nell’immediato secondo dopoguerra quello spiazzo detto anticamente dell’(h)ortola (un toponimo oramai anch’esso dimenticato) sia stato utilizzato per collocarvi l’Edificio Scolastico. E con scomparsa del Monumento ai caduti. Il pannello fotoceramico raffigura il largo spiazzo dove si innalzava l’imponente Monumento ai caduti della Prima guerra mondiale con la sua ragguardevole statua in marmo.

Il pannello (delle dimensioni di m. 2×1,40) è stato realizzato da Enrico Todisco. E nella parte alta riporta una frase che ricorda la committenza («cervariensis natione, non moribus, sua pecunia fecit, in memoria»). Sulla falsariga dell’importante archeologo Amedeo Maiuri e della munifica matrona romana Ummidia Quadratilla.

Cenacolo e Centro Studi: il binomio

Si legge in una nota pubblicata sui social per divulgazione: «Al recente evento ha partecipato orgogliosamente e fattivamente l’Associazione culturale Il Cenacolo. Che ha rimarcato lo stretto connubio culturale instauratosi con il Centro documentazione e studi cassinati-Aps. Centro il cui presidente Gaetano de Angelis-Curtis ha ideato, progettato e fatto realizzare a sue spese il pannello che ha inteso donare alla città in memoria dei caduti di tutte le guerre, della popolazione cervarese”.

“E in particolare di Gaetano Curtis, procuratore capo della Procura del Regno del Tribunale di Cassino, il quale affacciandosi dai balconi di casa sua poteva godere della vista dello spiazzo e del Monumento. Ma che poi nel novembre 1943 fu costretto a sfollare raggiungendo Alatri dove si spense il 7 luglio 1944 senza mai più far ritorno e rivedere la sua amata città natìa».