Internazionale, i protagonisti della XII settimana MMXXII

I protagonisti della XII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP

IVAN KRASTEV

C’è un’incoerenza fra quel che pensiamo e quel che facciamo noi europei. Noi cerchiamo sempre di normalizzare ciò di cui ci occupiamo“: Ivan Krastev ha inquadrato l’orrore ucraino nell’unico modo in cui è possibile vederlo se si vuole capirlo e magari risolverlo: l’ottica russa, anzi, l’ottica di Vladimir Putin. E il politologo direttore del Centro per le Libertà Strategiche di Sofia, in un chiacchierata con il Corsera, ha fatto uno dei centri concettuali più ricchi di polpa delle ultime settimane.

Ivan Krastev

Il sunto è che l’approccio europeo occidentale agli effetti di una visione “slava” della geopolitica è il modo sbagliato di affrontare la questione

Da dove parte di solito l’Occidente nel giudicare questioni e condotte? Ovviamente dall’aspetto etico, cioè dal sistema valoriale che una determinata azione mette in crisi secondo una scala che dalla singola condotta politica arriva all’iperbole tremenda delle guerra. In pratica ad ovest noi valutiamo un tiranno se un dato giorno fa picchiare una folla dalla sua polizia, incarcerare dissidenti o alla fine invade un paese in punta di cannone. 

E a quel punto parte l’opera di “normalizzazione” di quella anomalia: passa per condanna mediatica, diplomazia, sanzioni, aiuti a chi è aggredito e scontro bellico in ultima e tremenda ipotesi. Ecco, oltre i Balcani secondo Krastev non ragionano così, nel senso che loro non vedono alcuna anomalia da raddrizzare, ma solo un’invasione di campo gratuita verso un mondo che antitetico all’Occidente lo sarà sempre e non c’è muro caduto o gorbaciovismo che tenga.

Ha spiegato Krastev: “Ora abbiamo questo oltraggio morale, crediamo che Putin abbia perso il senso della realtà, ma siamo convinti che la nostra realtà sia quella vera e quella di Putin sia marginale, deformata“. 

Foto Kremlin Press Office

Insomma, la tesi per cui Putin sia un matto mattissimo che ha perso la sua bussola etica proprio non regge per il semplice fatto che lui non ha perso proprio nulla, ha solo un altro tipo di bussola e segue altre rotte. Ed una di quelle rotte è quella che passa per la saldissima convinzione-ossessione di Vladimiro non tanto di vedere la Russia “perdente”, ma lui stesso deposto e tolto di mezzo. Il cesarismo d’altronde è fenomeno cannibale e si nutre solo di sé, non certo della preservazione dei sistemi complessi che domina, quelli coi ducetti sono solo sfondo.

Krastev l‘ha spiegata benissimo, questa ossessione di Putin, richiamando i fatti libici del 2011. “Allora Obama riuscì a convincere Mosca a sostenere l’operazione in Libia, dicendo che era solo una No-fly zone e che non si puntava al cambio di regime. Poi è andata com’è andata“. Come andò? Che il cambio di regime ci fu eccome e che Gheddafi venne non solo deposto, ma anche fatto secco praticamente in diretta web. “Putin ha finito per convincersi che, qualsiasi cosa faccia, l’Occidente vuole sempre il cambio di regime“. Ed è vero: da noi se non rovesci il tiranno non sei andato a meta.

Perciò il sugo è quello: Putin non sta lottando per Madre Russia, ma per se stesso. “È noto che Putin ha passato ore a guardare e riguardare gli ultimi minuti di vita di Gheddafi. Quel video in cui veniva preso e messo a morte. Ci dice qualcosa del suo umore apocalittico. È chiaro che si identifica con Gheddafi“. E che la fine di Gheddafi proprio non la vuole fare, perciò fa la sola cosa che in questo momento gli pare finalizzata allo scopo: tira dritto.

Tutta colpa di Freud.

RECEP ERDOGAN

Foto: Marco Castro / UN Photo

Il vero jolly della diplomazia che sta cercando di sedare i bollori geopolitici della guerra di Mosca a Kiev è proprio lui, lui più di un nevrastenico Emmanuel Macron che ha cercato di spostare la campagna elettorale per l’Eliseo ad est di Parigi. Sia chiaro, Recep Erdogan sta alla democrazia come Enrico Montesano sta al Green Pass, ma nel fare il ciambellano di pace ha i suoi motivi. E al di là delle cause, se effetto ci sarà sarà effetto che porterà anche le sue impronte digitali. 

Il dato crudo è che il presidente della Turchia si è proposto subito come quello dotato delle migliori skill per provare a mettere ordine nella faccendaccia brutta della guerra in atto. È membro Nato, ma di quella Nato borderline e “raccomandata” che ad occidente è uno scandalo e ad oriente è una finestra di opportunità. E’ fornitore di armi all’Ucraina con i suoi prodigiosi droni Bayaktar ma è anche partner della Russia putiniana nei grandi step strategici in affaccio sul golfo di Aden. 

E ancora: è pieno di gas come un uovo ma ha il gas nel Mar Nero, dove attualmente a gasarsi sono solo le fregate da guerra davanti a Mariupol e Odessa. Infine, esattamente come l’arringante Zelensky alle Camere italiane e soprattutto Vladimiro, è un governante ibrido che sta a metà fra dispotismo carismatico e regolette “democratiche”. Erdogan e i suoi summit di pace sono il mix perfetto per fare una cosa che le democrazie occidentali in purezza non sanno fare più: mettere d’accordo due persone prima ancora che due idee e blandirle entrambe sulle loro vanità più evidenti, alla bizantina via. 

Erdogan e Putin (Foto © Kremlin Press Office)

Non è un caso che il prossimo vertice a tre, con Zelensky, Putin e lo stesso Erdogan per trovare una eventuale e flebile quadra alla macelleria ucraina potrebbe tenersi proprio ad Ankara, scalmane di Preskov (cioè di Putin) permettendo. E non è un caso che il suo spionissimo ministro degli Esteri Cavusoglu si sia lasciato scappare che dei 15 punti dell’accordo possibile fra Mosca e Kiev forse 4, pochini per Mosca, hanno trovato sistemazione bilaterale. 

Perché Erdogan è come i bracchi da penna: se non vai a caccia non servono a fare gli sboroni nel parco perché son buoni solo a a metterti in imbarazzo grufolando nella cacca di ghiandaia, ma se devi puntare una quaglia allora diventano insuperabili. Insuperabili e pronti a portarti la preda ben stretta nella bocca. Però poi vogliono la ricompensa.

Mezza luna a me, mezza luna a te.

DOWN

ALEXEI VLADMOROVIC PARAMONOV

Aleksey Vladimirovich Paramonov

Nelle fiction italiane sulla mafia e nelle monumentali opere Usa di Coppola quella che proprio non doveva mancare mai dalla sceneggiatura era la battuta del “minacciatore“. Che fosse trucemente affidata allo straordinario De Niro-Vito Corleone o al verace e vernacolante Toni Sperandeo, la sospensione di trama che calava greve quando un mafioso minacciava un minacciabile di cose vaghe ma truci era il vero clou di tutta l’opera. E in Russia, dove lo stesso concetto di mafia ha trovato negli anni una dignitosa declinazione autoctona, pare lo abbiano capito bene. 

Lo ha capito benissimo ad esempio Alexei Paramonov, primo dirigente della sezione europea del comparto ministeriale Esteri di Mosca, che ha minacciato l’Italia ed il ministro Lorenzo Guerini di “conseguenze gravissime” se solo si azzardassero a sposare la linea economica dura proposta dal ministro francese Le Maire contro la Russia di Putin. 

Il movente? Mosca aiutò l’Italia accordandosi proprio con la Difesa quando nel 2020 arrivò la slavina della pandemia, quindi se la Russia non belligerante di ieri ti aiutò all’epoca sanzionare la Russia belligerante di oggi proprio non sta bene. Il motivo? L’Italia non raggiungerà (se mai la raggiungerà) l’indipendenza energetica dalla Russia prima di 5 anni e la Russia lo sa benissimo, perciò picchia sull’anello debole della catena per spezzare ciò che la catena dovrebbe abbracciare. 

Il contingente russo a Bergamo durante la prima ondata di Covid (Foto via Imagoeconomica)

E in geopolitica ci sta, solo che perfino in geopolitica “est modus in rebus“, specie se come Paramonov sei stato anche Console a Milano e fra risotti e prime alla Scala hai intessuto rapporti umani, oltre che diplomatici. Ma lui, Paramonov, che è ovviamente un esecutor di livello intermedio ma che avrebbe dovuto avere franchigia lessicale di essere garbato, dall’ossobuco è tornato al beluga. Perciò si è messo la coppola storta ed ha minacciato l’Italia come il più grezzo dei consigliori di cosca. Poi, dopo un contro cazziatone maiuscolo di Mario Draghi, ha chiuso il microfono ed è andato a prendersi il buffetto affettuoso del Capo dei Capi Vladimiro Putin che gli ha scritto la sceneggiatura. (Leggi anche Fai del bene e scordalo… altrimenti sei solo un cafone).

Don Paramonov.

I MISSILI IPERSONICI

Quanto più un’arma è perfetta tanto più chi la usa è insicuro“: George Patton diffidava delle Colt 1911 semiautomatiche, un must all’epoca di Kasserine, e portava fiero in fondina un revolver con le guance di avorio, a volte due: un Colt 45 o uno Smith & Wesson 357. E il principio era che Patton era talmente legnoso e pieno di sé che si compiaceva di usare armi desuete o non ottimali perché riteneva che la sua persona compensasse lo squilibrio. 

Il lancio di un missile Tzircon (Foto Voenno-morskoj flot)

Ecco, con i missili ipersonici Tzirkon e Kinzhal che la Russia sta cominciando ad usare contro i target ucraini sta andando un po’ così, questo in barba alle analisi pelose di tutta una pattuglia di strateghi al chinotto che popolano i nostri talk. Il Kinzhal non lo dobbiamo spiegare ormai più a nessuno, solo a qualche campesino del preserale che li ha associati alla bomba “Zar” non sapendo che se scoppiasse la medesima sopra i cieli di Kiev l’Italia andrebbe ad appiccicarsi al Guatemala.

E’ dannatamente veloce, fino a Mach 9 e semplicemente non lo puoi rilevare-intercettare-distruggere perché non lo vedi. Non lo vedi e non lo “senti” in spazzata radar perché a 11mila km/h genera un flusso di plasma che non solo riduce l’attrito, ma manda in pappa l’elettronica di base di rilevamento e proprio non compare sugli schermi. Compare invece sul bersaglio e per come va veloce potrebbe polverizzarlo meccanicamenteanche se la sua testata fosse carica di Girelle Motta, per semplice energia cinetica. 

E giù tutti a dire che la Russia nell’utilizzare quelle armi hi tech sta suonando le trombe della riscossa. E invece no, perché proprio il fatto che Mosca abbia tirato fuori l’argenteria buonissima sta a significare che Mosca sta accusando il colpo nella guerra da manuale ed ha bisogno di armi risolutrici. Ne ha bisogno per tirar su il morale di truppe a metà fra coscritte pivelle e specializzate ma senza logistica di prossimità, poi ne ha bisogno per ribadire una superiorità che il 24 febbraio credeva di dover solo lasciar trapelare. 

E che ora invece, grazie anche agli ucraini che picchiano come fabbri, è costretta a mostrare in tutta la sua massiva tracotanza. Come i bulli pompati che, credendo di stenderti con uno scappellotto distratto, alla fine ti stendono lo stesso, ma dopo aver sudato, preso lividi e perso il pacchetto di sigarette che portavano incapsulato nella manica della maglietta tamarra. E che quindi, a ben vedere, non ti hanno steso affatto. Proprio come diceva Patton, che di certe cose, buonanimaccia sua, se ne intendeva e come.

Quel razzo è un termometro.