La democrazia del capo di Meloni e Almirante che fu “nume ciociaro”

Finalmente premier per davvero: l'annuncio dell'elezione a suffragio universale per Palazzo Chigi e cosa c'è davvero dietro

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Dare più birra alla cabina di comando, allargare la visuale, aumentare i bottoni e “sparare” al copilota ché tanto quello titolare sa già tutto e ormai si merita una cloche unica. Per risparmiare battute di tastiera e surfare un anglicismo inesatto l’abbiamo chiamata così tante di quelle volte, “premier”, che alla fine Giorgia Meloni ci ha creduto davvero e pare non voglia essere più solo la (il) Presidente del Consiglio. No, adesso lei vuole essere capo di una democrazia parlamentare molto più di quanto non abbia desiderato di esserne simbolo.

Come succede con tutte le cose che devono avere vernice fresca di mistica quella che ha illustrato Giorgia Meloni è stata definita la “madre di tutte le riforme”. Roba di grancassa insomma, che punta dritta ad una capriola costituzionale a sua volta farcita da un aggettivo che sembra sottintendere una ritocchino indolore.

Quell’aggettivo è “minimale” che qualifica la modifica della Costituzione in questione. Eppure no, non è una faccenda minimal e va inquadrata per quella che è, non per quella che appare nel lessico dell’Esecutivo che l’ha partorita.

Il suffragio universale: pop e concreti

Foto: Marco Carli © Imagoeconomica

In buona sostanza quella che ha lanciato Giorgia Meloni è l’elezione a suffragio universale del Presidente del Consiglio dei Ministri . E con una “apposita votazione popolare che avviene contestualmente alle elezioni per le Camere con una stessa scheda”. E’ mercanzia mai vista. Ce la giochiamo un po’ random in ordine alla messa a terra della novità, nel senso che la stessa comunicazione istituzionale bascula tra vantaggi illustrati e caratteristiche tecniche. I primi sono roba da grancassa, le seconde avranno modo di riempire le colonne dei media per tutto il tempo in cui questa riforma annunciata, come tutte le altre, non passerà ma polarizzerà l’Italia dei sapienti un tanto al chilo.

Partiamo dallo scopo, che pare etico e solenne. Esso si condenserebbe nel “rafforzamento della stabilità del governo con la durata dell’incarico del premier fissata in cinque anni. Messa così pare la più cartesiana delle regole “anti-ribaltone”, cioè una cosa che a non lodarla dopo che per tante volte era stata ecumenicamente invocata sarebbe da grulli. Una cosa molto scenografica quindi. Un mood a cui lo stesso Makkox, alias Marco D’Ambrosio, aveva messo profetico suggello in una puntata a maggio di Propaganda Live: “Io non so se lei arriverà all’elezione diretta del premier ma er David di Donatello di sicuro lo pija.

Ma il problema è un altro ed emerge man mano che ci si addentra nei meandri cervellotici della nuova sterzata accentratrice della presidente del Consiglio. Bisogna partire da un considerazione di fondo, per capire quale sia il valore effettivo del premierato forte caldeggiato e messo in agenda da Meloni.

Ci voleva una cosa simile? Magari no

A lei oggi non serviva a nulla cambiare le regole da un punto di vista tecnico. Non serviva perché quella riforma costituzionale non mette il Governo al sicuro dalle sue zoppie e non aggiunge punti di forza al suo vigore. Ma allora perché è così importante avere una premier eletta direttamente invece che espressione di una maggioranza eletta da un dato quorum di elettori che sono entrati in urna “solo” per le Camere? Perché con quella riforma, che di fatto è un “unicum” planetario, entra prepotentemente in ballo la figura del capo di una democrazia, non più di una persona che ne sia referente massimo in regime di “primus inter pares”, e non è differenza da poco.

Quello che Meloni sta calando dunque è un ticket politico in purezza. Un asso con il quale lei e solo lei si sta assicurando la perpetuazione del suo mandato, forte di sondaggi personali altissimi e decisamente tarantolata dalle recenti cadute.

Mettiamola meglio: Meloni ha alleati necessari per la prosecuzione della sua avventura di governo ma eccentrici su gran parte dell’agenda politica. In più Meloni, che è oggettivamente in gamba, ha avuto più tempo per logorarsi che per fare centro. Accade a tutti i sistemi complessi politici ma per lei questo è inconcepibile, lo è perché lei è la “underdog” che avrebbe dovuto realizzare la perfetta eunomia della capopopolo a lungo attesa. Tra Ue, migranti e compagni gonzi invece le è andata male e la “premier” adesso punta ad essere premier-premier.

Più spazio per Cesare, meno per tutti

Cioè a darsi un margine di tempo più ampio, inattaccabile e diretto per splendere come lei ha sempre sognato di splendere. Ecco perché questo goffo tentativo di alchimia costituzionale risponde più a logiche personali e limbiche che ad esigenze collettive di massimo sistema. Il guaio è che c’è uno storico che da tempo bussa in quella direzione, cioè con la riforma in senso presidenziale, e proprio quell’elemento è la pezza perfetta per imbastire una narrazione di necessità pubblica dove invece ce n’è una di urgenza privata.

Quante volte la mistica italiana ci ha rimandato la grancassa della perniciosità dei governi “non eletti dal popolo”, delle ghenghe tecniche transienti e delle camarille di comodo per foraggiare poltronifici? Quante zoppie ha censito la Storia attribuendole a dinamiche che spesso avevano prodotto ricette e uomini imperfetti? Quell’imperfezione si chiama democrazia ma ora pare che i tempi siano maturi per un suo upgrade, per una “evoluzione” a principato pop.

Ecco, in quelle mezze verità, nelle pieghe sporche della loro immanenza ci sta accovacciata una Giorgia Meloni che ha tratteggiato una sorta di “rivoluzione attesa”. Un ossimoro, in buona sostanza, perché le rivoluzioni sono sempre estemporanee e l’attesa invece è concetto da strategia riformista volpina. Il progetto prevede “l’eventuale sostituzione del presidente del Consiglio in carica solo da parte di un parlamentare della maggioranza”.

Il premio di maggioranza che blinda tutto

L’Aula della Camera dei Deputati a Montecitorio

E la fine del mandato del “sostituto” che determina lo scioglimento delle Camere. Poi un premio “assegnato su base nazionale che assicura al Partito o alla coalizione di partiti collegati al presidente del Consiglio il 55 per cento dei seggi parlamentari, e infine lo “stop alle nuove nomine dei senatori a vita”. Cioè di quelle figure che della fisiologia tra volontà popolare ed esercizio della stessa sono da sempre considerate un “argine scostumato” ancorché formale. Cinque capisaldi insomma per dire a Sergio Mattarella di stare sereno, dato che la riforma non toccherà il Quirinale, e per dire all’osannato “popolo” di stare serenissimo. Perché blinderà la sacralità della sua volontà, che non sarebbe più in delega.

E c’è un mantra: “Mettiamo fine alla stagione del trasformismo e dei governi tecnici”. Il tutto però senza dimenticare di “preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, figura chiave dell’unità nazionale”. Capita la furbata? Il Colle è fuori dal mirino quindi non reagirà ove si trovasse (ancor più) fuori dai giochi. Una nota del Cdm spiega che “la riforma costituzionale ha l’obiettivo di rafforzare la stabilità dei governi, consentendo l’attuazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo. Consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della nazione”.

Quando a Frosinone si invocava Almirante

Bruno Magliocchetti con Giorgio Almirante

La battaglia per il presidenzialismo in Ciociaria ha radici datate. Nel 2018 l’allora portavoce cittadino di FdI Giuseppe Vittigli dichiarava dai banchetti allestiti a Frosinone: “Se il Presidente della Repubblica vuole nominare i ministri allora deve farsi eleggere dai cittadini.

Vittigli alludeva alla “storica proposta di Fratelli d’Italia e della destra italiana: elezione diretta del Capo dello Stato. Proposta che nasce dal nostro mondo politico che per voce di Giorgio Almirante è stata è e sarà una battaglia da portare avanti fin quando non sarà possibile esprimersi con un referendum. Ecco, a meta ci si è andati oggi, nel 2023, ma in intenti e con qualche aggiustamento tecnico che ha partorito un Frankenstein.

Ciao ciao transfughi, non si cambia più idea

E poi? “Favorire la coesione degli schieramenti elettorali, evitare il transfughismo e il trasformismo parlamentare. Sono tutti concetti a ben vedere sacrosanti, ma mascherano una realtà ben diversa, quella di una “democrazia forte” che proprio perché tale democrazia non lo è più. Non lo è nel nome della governabilità e con il sacrificio di uno dei tratti salienti della democrazia stessa: l’imperfezione e la provvisorietà di certe sue soluzioni. E’ un po’ come in quel programma tv Usa transumato in Italia, “Boss in incognito”, dove un capoccia si finge operaio per vedere cosa dicono le maestranze di lui e sgamare cosa non va nel sistema, ovviamente con un imbroglio e con il piacionismo verso la base.

Servivano paroloni per paludare la faccenda e il Cdm non ne ha lesinati. “La riforma introduce un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, eletto a suffragio universale con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere, mediante una medesima scheda. Il premier verrà eletto nella Camera per la quale si è candidato e che, in ogni caso, sia necessariamente un parlamentare”.

Palazzo Chigi

Resterà in carica 5 anni e la sua elezione garantirà “il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale conferito dagli elettori, prevedendo che il Presidente del Consiglio dei ministri in carica possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza. E solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo”.

L’eventuale cessazione del mandato del sostituto così individuato determina lo scioglimento delle Camere”. Si va a traino, dunque, non in parallelo.

Meloni: “Addio maggioranze arcobaleno”

Lei Meloni, l’ha messa giù meglio e di miele: “La riforma costituzionale che abbiamo presentato mette fine ai governi tecnici e alla possibilità di creare maggioranze arcobaleno. Oggi diciamo basta ai giochi di palazzo, restituiamo ai cittadini il loro legittimo diritto di decidere da chi essere governati e diamo maggior stabilità e credibilità alle nostre Istituzioni. Era un nostro impegno, lo porteremo a compimento”. Veramente l’impegno era un altro, quello presidenzialista, ma chi glielo va a dire a Mattarella che finora non ha respinto nulla dei legiferati diretti di Palazzo Chigi? Sarebbe ingratitudine a braccetto con harakiri, perciò eccoti un marchingegno che evita incazzature ai corazzieri.

Bisognava mettere la parte inossidabile della Costituzione a crasi con quella su cui sarebbe possibile sfregare la pialla ed “operare in continuità con la tradizione costituzionale e parlamentare italiana e da preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, figura chiave dell’unità nazionale”. Messa così è talmente bella che perfino la sua falsità di fondo passa in secondo piano.

Mattarella stai sereno, e muto

Tutto bello ma non bellissimo perché macchinoso e cervellotico. Giusto ma non giustissimo perché venato del sospetto che dietro ci sia la sopravvivenza di una leader e non quella di un popolo.

E utile ma non utilissimo perché pare occhieggiare alle Europee 2024, quando nulla sarà compiuto, ma itinerante al punto giusto a creare lo slogan perfetto sia per una scoppola che per un successo medio-mediocre: “Non ci fanno governare e decidere, ma noi non molliamo e la strada è questa”. Già, perché l’Italia è sempre stata piena di gente che non molla, e che in tempi più bui aveva dato anche del boia a chi lo avesse fatto.

Ma quelli erano altri tempi, tempi in cui la democrazia era stata sovvertita tutta d’un colpo e con l’imperio dei gesti truci, non con lo stillicidio delle sottrazioni graduali. Oppure no? Lo vedi che poi leggere i libri aiuta?