I fatti recenti, da Reno de Medici ad Ilva, dicono che in questo Paese c'è la convinzione che le fabbriche non servano più.
Il comune denominatore sta tutto là, in un teorema amaro ma difficilmente confutabile. È quello per cui da tempo in Italia opera una classe politica che non mette la produzione in orizzonte di sistema e che quindi non fa economia. Al limite si spiaggia addosso alla finanza oppure viene colta da occasionali botte di pentimento. Solo che essendo quelle per lo più caselle emotive ed estemporanee – e non essendosi formata una classe orientata e competente – succede il guaio del progresso a scatti, cioè del progresso zero.
Cioè una cosa per cui anche quando la politica nostrana mette a fuoco i problemi e si occupa di industria ed economia sbaglia. Perché non lo sa fare più a livello sistemico e quindi arranca tra legiferati ad hoc e retromarce una tantum. E invece di sciogliere rebus incrementa il caos.
Il filo mesto che unisce quasi tutti gli spot nazionali di industria morente o piegata è quello che dal Cassinate conduce a Taranto, ad esempio.
Reno De Medici ed ex Ilva: cosa le unisce
Cioè da luoghi in cui Stellantis scommette sul futuro prossimo ma non tampona il presente o nei quali la Reno de Medici di Villa Santa Lucia langue negli slogan ovvi dei soliti serpentoni di maniera sui paventati licenziamenti. Il tema di fondo è che mancano le visioni di prospettiva, tutto viene abbandonato all’iniziativa dei privati ed alle loro scommesse sul territorio: non ci sono politiche di sistema con la quali attirare gli investitori, fornendogli un motivo per portare nel Lazio, in provincia di Frosinone e di Latina, i loro dollari, sterline, Yuan. Non c’è una classe politica sensibile al problema. ma che rincorre l’emergenza della chiusura. Tanto a Taranto e tanto a Villa Santa Lucia.
Un filo che conduce fino al luogo totem dove si sta consumando il de profundis della siderurgia italiana: l’ex Ilva di Taranto. Cosa hanno in comune questi (ed altri) casi?
Tre fattori: la confusione burocratica, la tardiva presa d’atto dei decisori ed il buio di lavoro e produzione. Cioè, a voler tradurre: carte e permessi a fottìo, politica che non sa che fare se non “essere sodale” a danno fatto e lavoratori a mollo nella palta di una povertà incombente. E da questo punto è vero come oro colato che “l’Ilva è uno specchio”. Di cosa?
Marco Bentivogli è impietoso: “Di un Paese in guerra con se stesso, che crede che le fabbriche non servano. E che il nostro Sud possa essere tutt’al più il buen retiro di chi ha avuto successo altrove nella vita”.
Bentivogli e il suo “J’accuse”
Queste cose aspre non le sta dicendo un qualunque pivello allevato nelle stie del lessico facile. Bentivogli è stato leader della Fim, i metalmeccanici della Cisl, ed oggi è alla guida di Base Italia. Cioè l’associazione che da ormai quattro anni ha fiutato l’aria ed ha capito, grazie anche al contributo di menti scattiste come quella di Luciano Floridi, che le cose sono cambiate. E che pensare ad un futuro di sviluppo è inutile se il verbo crescere non lo si coniuga al presente. Senza contare che se il tempo verbale è importante il modo, anzi, i modi, lo sono ancora di più.
Digitale, ecologia, etica politica e lotta a quel senso di stanca che ormai attanaglia l’elettore medio italiano sono solo alcuni dei temi chiave di Base Italia, che non è un Partito ma che punta anche ai Partiti. Cioè a farli scegliere da cittadini senzienti ed in maniera più senziente. A bordo ci sono saliti anche Carlo Cottarelli, poi la docente di Diritto del Lavoro Lucia Valente, il gesuita Francesco Occhetta ed il sociologo Mauro Magatti: lo spiega La Stampa.
Insomma, lo scopo era ed è quello di evitare paludi giganti come quella dell’ex Ilva, dove una narrazione volutamente cretina ha messo in risalto solo le responsabilità di Arcerlor-Mittal. Che ci sono. Ed ha omesso un dato agghiacciante: in quasi tutte le crisi del sistema produttivo italiano c’è lo zampino di una politica miope, bipolare e disancorata dalla sua mission. Perché chi arriva dopo deve fare tabula rasa di quel che ha messo a terra chi c’era prima. E perché chi c’era prima a volta fa tabula rasa di se stesso per rinnovate strategie di consenso. Un casino immane: una strategia che a ben vedere dovrebbe essere quella di agevolare rotte e non di bordeggiare non troppo lontano dalla costa.
Quote pubbliche e chiusura di Taranto
Taranto ne è paradigma, di questo sfascio, e su Il Foglio Marco Bentivogli, che è stato “protagonista delle trattative per l’accordo con i franco-indiani di ArcelorMittal”, ha fatto la sua diagnosi. Il dato è quello noto: i franco-indiani non ricapitalizzeranno Acciaierie d’Italia e quello che si avvicina per l’ex Ilva è il fallimento. L’effetto più immediato è invece quello per cui la palla è tornata al Governo, a questo Governo, che è successore di altri Governi che a loro volta la palla non l’hanno giocata benissimo. Perciò si gioca a cazziare il passato senza risolvere il presente, che è più comodo.
Primo step di diagnosi è quello che riguarda “l’amministrazione straordinaria, a cui l’azienda, secondo me, punta dalla fine del 2019, o la crescita di quote pubbliche che vanno verso la nazionalizzazione. Intanto Taranto andrà sotto i 3 milioni di tonnellate di acciaio prodotto all’anno”. Attenzione, ché senza dati monstre non si assaggia bene lo sfascio. Questo “in uno stabilimento che sotto i 5-6 milioni di tonnellate produce in perdita. Chiudere l’Ilva conviene a troppi, in Italia e all’estero”.
Ecco il segreto di Pulcinella: la chiusura come utility, che è il canto del cigno di ogni velleità di scommessa imprenditoriale da parte di coloro che a lavoro ed impresa dovrebbero fare tappeto.
Quando le Procure non possono non agire
Ma cos’altro unisce Cassino e Villa Santa Lucia a Taranto? Le Procure. Attenzione, non la “cattiveria” o il legittimo “pregiudizio” che le mette ad argine dello sviluppo, ma i vuoti normativi e le maniglie omissive che le obbligano ad intervenire, secondo una logica in cui andrebbe capovolta la clessidra cioè. Il caso Reno de Medici è solo l’ultimo esempio di una serie: abbiamo norme talmente ingarbugliate da essere interpretabili in maniera opposta. Oggi le cartiere riciclano una parte dei loro fanghi perché è piena di cellulosa, la norma ambientale non è al passo e li considera fanghi.
Sulla imprevedibilità dell’epilogo tra Mittal e Palazzo Chigi, Marco Bentivogli squaderna un “j’accuse” che non ha nulla di sornione o insinuante. Sono bordate secche, le sue: “Era imprevedibile per chi non si occupa di lavoro, industria ed economia. Mediamente la politica non se ne occupa e quando lo fa, tardivamente, fa errori colpevoli, di cui però non paga i danni”.
Poi una breve crono: “Arcelor Mittal, dopo enormi ritardi, si aggiudicò la gara nel 2017. Dal Governo guidato da Paolo Gentiloni si passò al Conte 1 che tentò per diversi mesi di invalidare la gara e ritardò ancora la discussione sul piano industriale e ambientale. Si arrivò all’accordo più significativo e importante di tutta la vicenda il 6 settembre 2018”. Fu quello per cui Bentivogli si scortecciò meningi e pazienza come segretario della Fim.
“Mi sorprese la mancata firma da parte del Ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, sul testo a cui eravamo arrivati dopo una trattativa durissima. Anche perché pochi minuti dopo lo stesso ministro si dedicò completamente alla spendita personale pubblica di quella intesa, come un risultato suo personale e di Giuseppe Conte”. La solita politica del cappello poggiato ma della testa altrove.
Il monito di Diurni e i rischi
La stessa che ha portato in questi giorni Miriam Diurni, presidente di Unindustria Frosinone, a lasciare sì che sia la politica a tracciare la rotta dello sviluppo provinciale. Tuttavia riservandosi il diritto-dovere di manovra e non l’harakiri della contemplazione di intenti mascherati da azioni. Luca Di Stefano è avvisato, insomma, e non solo lui.
L’accordo del 2018 tra Arcelor-Mittal e governo era netto: “Un piano ambientale, in parte poi portato avanti, per raggiungere i migliori standard ambientali della siderurgia a ciclo integrale europea”. Poi “investimenti per la riqualificazione industriale, l’occupazione”.
“Un totale di oltre 4 miliardi. Ci fu un periodo di relativo lavoro proficuo fino alla primavera del 2019, vi fu peraltro un calo di domanda d’acciaio a maggio, calo che AM inizialmente fece pesare su altri siti europei”. Il passaggio è importantissimo e poco noto: in tempi di vacche magre l’azienda non calò subito la scure in Italia, ma altrove. e “confermando la produzione su Taranto, per poi arrivare a chiedere la Cassa integrazione a giugno anche per l’Italia. (…) intanto montava un racconto che questa era la buona occasione per far pagare ad essa tutto quello che era stato fatto dal 1965 ad allora dai suoi vertici precedenti. A partire dai danni ambientali e sanitari”.
Retromarcia sullo scudo penale
Come sempre andammo a massa critica dopo aver individuato il “gonzo” e presentammo cambiale su tutto. Poi, come ricorda Bentivogli, arrivò uno di quegli snodi politici che in Italia fanno sempre la differenza tra propositi e realtà, e la fanno quasi sempre in negativo. I Pentastellati persero l’invincibilità e per la prima volta le buscarono sul serio e forte. “Alle elezioni europee di maggio il Movimento 5stelle andò molto male, era passato al 17,1% dal 32,2% delle Politiche di marzo 2018, e partì la resa dei conti interna. Tentarono di recuperare popolarità con alcuni passi indietro rispetto agli impegni presi e gli accordi sottoscritti”.
Quali impegni? Lo scudo penale ad esempio, cioè la possibilità per le aziende che operavano in Italia di risolvere pendenze fiscali censite in Cpp in maniera agevolata. “Da giugno 2019 si iniziò a parlare dell’intenzione di rimuovere lo scudo penale, introdotto nel 2015. Il 21 giugno si tenne l’assemblea generale nazionale di Federmeccanica a Taranto e l’Ad Matthew Jehl disse chiaramente che l’azienda voleva la conferma del quadro giuridico”.
Non andò così perché il Governo Conte 1 rimosse lo scudo penale e rimise (anche) Arcelor Mittal sulla graticola. “Il 31 ottobre, la Camera converte definitivamente in legge il cosiddetto decreto Salva imprese con la nuova maggioranza del Conte2. Prima di passare alla Camera, a Palazzo Madama il testo del decreto era stato modificato, sulla base di due emendamenti presentati dal M5s. Va ricordato che lo scudo penale non rappresentava un’immunità generale ma valeva solo per gli atti compiuti nell’applicazione del piano ambientale varato dal 2014 e integrato dall’accordo del 6 settembre 2018. E soprattutto che l’azienda veniva posta in vendita con l’area a caldo sotto sequestro giudiziario”.
Recuperare gli errori fatti, ma è dura
Iniziare a pensare di sfilarsi a quel punto non fu più solo cinismo d’impresa, ma anche conseguenza logica. Da allora solo traccheggiamenti di composita natura e soprattutto strategie fallimentari. Quali? Quelle per cui “quando ci si occupa di industria bisogna lavorare molto per recuperare una stratificazione di errori pregressi. Per fare questo bisogna avere passione e competenza per l’industria, e in questi anni devo dire sono mancati”. Il senso è questo: non tanto la condanna degli errori fatti, quando piuttosto ma constatazione che manca una strategia di risoluzione degli stessi che sottintenda un lavorio in combo tra politica ed industria.
Messa meglio: la classe politica, grazie anche ad una legge elettorale settaria, non ha quasi mai o quasi più imbarcato competenze, ma solo figure di opportunità e scherani di segreteria. Poi ci si rimpallano le accuse a seconda di chi sta al potere e si finisce in una delle due categorie che Bentivogli impietosamente indica.
Le due categorie che non aiutano
“In Italia ci sono solo due opzioni politiche: essere anti-industriali o essere a-industriali. La seconda è la più diffusa. Anche i migliori sull’industria sono stati piuttosto deludenti. Questo è invece un momento di sfida del capitalismo industriale. Ma servono politici che abbiano contezza di cosa vive il nostro Paese e di come guidarlo dentro le transizioni. Dall’industria all’innovazione, al lavoro abbiamo schiere di “bla-bla-tori” che col battutificio e gli slogan pensano che si possa governare l’Italia”.
Il risultato? Politica e produzione non vanno più a braccetto e il mondo di lavoro e lavoratori è di fatto alla deriva. E in un paese come il nostro che sta messo malissimo a materie prime azzoppare il settore che le trasforma e le aziende che lo fanno è da pazzi. Perché tra costruire le condizioni attrattive per l’industria e non vedere quanto l’industria ancora conti al di qua delle Alpi dà il senso di una sconfitta tonda.
E di un quadro assassino dove le sole “materie prime” sono il consenso e tutto ciò che si deve fare per ottenerlo o recuperarlo. Per vivere seguendo il proprio orizzonte corto, non quello ampio del paese. Non abbiamo Schroeder di pronto uso, riformisti sinceri che poi non li votano neanche più alle Pro Loco ma segnano le ere, perciò paghiamo pegno.
Perché da noi chi comanda non vuole edificare e passare, ma sopravvivere alle stesse macerie che crea. E su quelle prosperare più del dovuto. Più del diritto di un paese a prosperare esso prima dei singoli che lo compongono.