Stellantis, l'ex Ilva e la narrazione sbagliata di un Paese sedotto ad abbandonato dai capitali stranieri. E che invece ha le sue colpe
Se c’è un loop che in queste settimane sta passando in mainstream di analisi sul rapporto tra grandi investitori stranieri e Paese Italia è quello degli ammiragli di industria foresti e perfidi. Dei caimani di alta finanza cioè che, ad un certo punto della narrazione della loro voracità inappagata, scoprono zanne finanziarie ed opportuniste e vanno via dall’Italia. E lo fanno con il cinismo letterario di una nazione sedotta ed abbandonata, e dei suoi figli in tuta blu che restano orfani di pane e gravidi di guai. In parte è vero, Dio solo sa come soprattutto in ordine agli effetti sui più deboli sia vero.
A Cassino-Piedimonte San Germano Stellantis incarna oggi una regressione in attesa dello start con Stla Large per avviare la riscossa in segmento premium, ma nel frattempo produce numeri mesti. Appunto e nodo al fazzoletto: Stellantis è di fatto francese e con il governo transalpino è in endiade operativa. A Villa Santa Lucia la cartiera RdC vive una doppia realtà paradossale: punta di diamante di un segmento produttivo che fa macelli di fatturato e tomba probabilissima delle speranze di 300 famiglie, tra dipendenti ed indotto.
Il caso RdC di Villa Santa Lucia e non solo
Rdm, il gruppo di controllo, andrà via per un cavillo burocratico sui fanghi primari tra obblighi di depurazione e regole di produzione, cavillo non sanato dalla Regione Lazio. Movente o motivo? Il dato per ora è che il gruppo andrà via: adieu Bel Paese e amen. E questa situazione, presa in serissimo esame con gli Stati Generali della Provincia di Frosinone presieduti da Luca di Stefano, è paradigma per l’intera nazione. Una nazione in bilico perenne tra le sòle che le danno e le sòle che si chiama addosso da sé.
Basti pensare all’ex Ilva di Taranto ed alla vicenda che mette la spunta di cattivissimi ai franco-indiani di Mittal. Su Il Foglio un sontuoso Stefano Cingolani, non l’ultimo dei peones, quindi, ha incardinato la cosa ad un romanzo di Fruttero e Lucentini, “A che punto è la notte”. Lo ha fatto per dimostrare un paradigma scomodo per cui spesso l’estero industriale non è solo la Mecca infida di grandi fughe criminose, ma anche la sola soluzione possibile.
Perché si scappa via da queste terre
“Siamo nel 1979, poco dopo l’assassinio di Aldo Moro, quando le Br uccisero Guido Rossa, l’operaio dell’Ansaldo segretario della sezione del Pci”. E quando a Cassino si era finito di piangere per Carmine De Rosa, ex maggiore dei carabinieri e responsabile della sicurezza nell’allora Fiat di Piedimonte, ammazzato anche lui dal terrorismo rosso. Un tizio del management diventa “spallone” di pezzi Fiat da vendere all’estero perché è lì che si fanno i soldi veri. Eccolo, il problema. I “soldi veri”, quelli del turbocapitalismo che però produce onde di ritorno sulla base che lo alimenta, si fanno ancora in Italia?
Oppure, anche al netto di logiche produttive bucaniere, l’equilibrio si è rotto ed a noi resta solo il piagnisteo utile ma non del tutto corretto dei sedotti ed abbandonati? La notizia per cui gli indiani di Mittal “intendono spendere 1,8 miliardi di euro insieme al governo francese per decarbonizzare l’acciaieria di Dunkerque” è solo la prova provata della loro bieca fame o è anche sintomo dell’impossibilità di trovare la quadra da noi?
Mittal: patto d’acciaio con Parigi
Cingolani va in loop di casi: “La stessa domanda (perché non qui?) si può ripetere per Intel che va in Germania o per Stellantis, per l’americana Whirlpool o per la Italvolt messa in piedi da Lars Carlstrom con l’intento di creare una gigafactory”. A Cassino c’è la firma sotto un accordo che ne dovrebbe creare una di Fincantieri, un “centro di produzione industriale di batterie al litio per la mobilità sostenibile” nell’ex polo logistico Stellantis guidato da Nicandro Rossi.
Che significa? Che gli input per abbrancare le nuove sfide del futuro ci sono ma che alla fine pare sempre mancare qualcosa per trasformare il seme a dimora in pianta. Sì, ma cos’è che manca all’Italia oltre che la sventura melodrammatica di non trovare mai imprenditori francescani? E’ evidente che in un quadro di mercato non è la probità a funzionare come leva, né la sua negazione. Qui non è un problema di categorie etiche, ma di opportunità e preparazione del terreno.
Il capitalismo inaffidabile, ma non solo quello
E se c’è un capitalismo inaffidabile che troppo spesso fa il cuculo e poi abbandona il nido tricolore c’è anche un tasso di rischio tutto italiano che a quell’inaffidabilità gli mette un altro paio di ali per volare via. Volare più veloce e, ad esempio, mettere Alitalia in mano ai tedeschi.
Il caso Mittal ed il suo approdo francese la dice lunga: “Il contributo dello stato francese, in attesa dell’ok dall’Unione europea, ammonta fino a 850 milioni di euro per gli investimenti effettivi realizzati”. E “ArcelorMittal firmerà una lettera di intenti con la Edf (Électricité de France) per un contratto di fornitura a lungo termine di energia nucleare”.
Abbruzzese “nuke”, ma lo criticano
Nucleare che in Italia oggi sta in cima sdrucciola solo ai desiderata della Lega e di un Mario Abbruzzese che, per questa rotta, oggi sui social si sta beccando decine di improperi green in quanto candidato del Carroccio alle Europee. C’è un “letto strategico” insomma molto più scomodo su cui poggiare l’analisi delle grandi sòle che l’industria ci riserva. E’ scomodo perché molti dei chiodi sono nostri. Siamo il paese giolittiano di una burocrazia narcotica ed esasperante. Un Leviatano che fa diventare idrofobi anche i semplici cittadini, figuriamoci i nocchieri di sistemi complessi di produzione.
Siamo (ancora) il ventre molle di un’Europa che perfino nella sua veste più nordica ha perso appeal per i grandi investimenti da almeno un decennio, ed in favore di Cindia ed est brado. Siamo periferia della periferia, insomma. E soprattutto siamo il paese dei bonus a pioggia, di una visione sistemica che Paolo Cirino Pomicino (sì, quel Paolo Cirino Pomicino là) definì “mediocre” in ordine alle Leggi di bilancio dell’ultimo ventennio.
Senza visione di lungo raggio. Senza statisti e pieno di politici a scadenza medio-breve che puntano fino all’orizzonte per sé. Un paese che blatera di riforme sistemiche ma che sforna solo leggicole contingenti.
Periferia della periferia: son guai
Il Foglio cita dati Mediobanca a loro volta snocciolati dall’economista Fulvio Coltorti. “Il fatturato delle prime dieci imprese controllate dallo stato nel 1991 era di 75 miliardi di euro e nel 2016 era raddoppiato. Quello delle maggiori aziende private italiane è crollato da 55 a 29 miliardi. Il vuoto è stato solo in parte compensato da società estere o italiane ‘emigrate’”.
E soprattutto siamo un paese protezionista per esigenze di consorteria con la piccola impresa – da cui governi e partiti spremono consenso – ma avaro e bradipo coi macrosistemi. Certo che quelle sono la trama del tessuto economico italiano, ma non possono essere solo slot unici a discapito delle grandi innervature produttive con cui allettare grandi investitori.
L’abbiamo fatta passare come regola aurea, quella del “piccolo è bello”. Lo abbiamo fatto con la stessa sicumera per cui, nella gastronomia, abbiamo promosso la panzana massima per cui “genuino è buono”, ma almeno lì abbiamo brandizzato il Paese. Cioè un paese dove non serve salvare le banche, ma farle fallire e ricostruire da capo, perché un fallimento è e resta una benedizione, in economia di scala.
Genuflessi alle Pmi, bene ma non benissimo
E dove non si concentrano forze su grandi spot che massimizzano profitti ma si incentiva la figliolanza di tante piccole realtà uggiolanti. Il che va benebenissimo, ma se poi lo Stato lascia scoperte le grandi caselle è evidente poi che in quelle nicchie ci fanno il nido i privati.
Privati che poi, appena vedono gli investimenti a rischio, bancali di cavilli, commi e codicilli stronzi spiccano il volo. Come a Villa Santa Lucia, come a Roccasecca con Francesco Borgomeo e Saxa Gres, come a Taranto. E come in altri cento posti italiani.
E lasciano campo libero ai dolori delle persone che non hanno pane da mettere in tavola.
A quelli ed alle penne argute degli analisti bravi. Quelli che piangono al capezzale di un paese ferito e non vedono che molte delle coltellate quel paese se le è date da solo. Perché alla base del pane che manca a valle c’è sempre un piano che manca a monte. Sempre.