Le province d’Italia e la provincia di Frosinone che volle Mussolini

La complessa vicenda storica ed istituzionale che portò alla nascita dei governi di territorio, tra reset moderni e input del Ventennio

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

Nel mondo politico italiano si sta tornando a parlare finalmente della riattivazione totale e completa delle province. Le province sono state per secoli il pilastro della vita amministrativa dell’Italia unita e di quella preunitaria.

Alla base del sistema amministrativo c’era, come oggi, il Comune. Più Comuni assieme confinanti l’uno con l’altro, erano aggregati fra loro a formare i ‘mandamenti‘ dove operavano le Preture e funzionavano le carceri mandamentali. (nel caso dei Comuni di grandi dimensioni essi erano ripartiti in più mandamenti). Più mandamenti, sempre limitrofi l’uno all’altro, formavano i Circondari che erano sede di sottoprefettura e di altri enti statali.

Al vertice della piramide amministrativa c’era la Provincia con gli organi di gestione (Consiglio provinciale, Deputazione poi diventata Giunta, Presidente) e di controllo. E con il Prefetto che era il rappresentante dello Stato sul territorio.

Tale impalcatura amministrativa è stata parzialmente smantellata sotto il fascismo. I mandamenti hanno terminato di funzionare nel 1923 quando competenze e personale delle Preture sono state riassorbite nei Tribunali competenti territorialmente. Invece i Circondari sono stati aboliti nel 1927.

Come ci si organizzò dopo fascismo e guerra

I sindaci

Le Province ed i Comuni sono stati poi riconosciuti dalla nuova Italia uscita dal ventennio e dalla guerra. Sono stati infatti inclusi nel Titolo V della Costituzione italiana. Che ha introdotto anche un nuovo elemento di novità fin ad allora sconosciuto: la Regione come ente amministrativo, suddividendole in quindici a statuto ordinario e cinque a statuto speciale.

Dal primo gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana italiana e per i successivi anni la situazione per gli enti territoriali non cambiò. Poi nel 1970 entrarono ufficialmente in funzione le Regioni. E le principali materie di competenza attribuite all’ente Provincia furono quelle della tutela dell’ambiente, della viabilità (manutenzione delle strade). Poi della gestione dell’edilizia scolastica di istituti superiori.

Nel 2001 è cominciata l’aggressione al Titolo V della Costituzione con l’introduzione di un nuovo ente territoriale, la «città metropolitana». Che nelle intenzioni doveva garantire una maggiore efficienza amministrativa ad alcune metropoli italiane capoluoghi di regione (si pensi a Milano, Genova, Bologna ecc.).

Arriva la “città metropolitana”

La città metropolitana di Roma capitale

Uno status ancora più speciale avrebbe meritato Roma. Che è contemporaneamente sede di Comune (con 15 municipi) come altri 8000 in Italia e capoluogo di Provincia come altre 109 in Italia. Poi è capoluogo di Regione come altre 19 ma è l’unica che è capitale dello Stato e sede degli organi di governo centrale. Al suo interno poi si ritrova con uno Stato autonomo e indipendente come la Santa Sede con una sua capitale, la città del Vaticano. Tuttavia nulla è stato mai fatto in tal senso.

Tornando alle città metropolitane, alla fine ne sono state istituite dieci. Che però non hanno apportato nessuna significativa modifica giacché non hanno fatto altro che cambiare nome alla Provincia.

Questo in quanto tutte quelle create risultano composte dagli stessi Comuni che prima facevano parte della Provincia. In più la Sicilia, regione a statuto speciale, ne ha istituite altre tre. La regione Sardegna altre due con la città metropolitana di Cagliari che fra tutte è quella più rispondente agli intenti originari. Lo è essendo formata solo dal capoluogo e da altri sedici comuni dell’hinterland.

La “crociata” del 2014: l’origine di tutti i mali

Il ministro Graziano Delrio che avviò la riforma delle Province

Quindi nel 2014 la politica italiana ha individuato nelle Province l’origine di tutti i mali amministrativi d’Italia. E di conseguenza si è deciso di abolirle. Lo smantellamento avviene con legge ordinaria e da allora le Province vivono una vita asfittica con finanze ridotte all’osso. (Quanti scioperi in inverno negli istituti superiori anche di Cassino per il freddo e il gelo nelle aule a causa della mancanza di combustibile?). L’abolizione invece non è stata possibile perché la si voleva fare tramite legge ordinaria. Qualcuno poi spiegò che le Province erano ricomprese nella Costituzione italiana. Quindi c’era bisogno di una legge costituzionale.

Inserita all’interno di una proposta molto più ampia di revisione della Costituzione che fu presentata all’approvazione del Parlamento: dove non ottenne l’elevato quorum richiesto. Dovette essere sottoposta a referendum che non fu approvato dagli Italiani. Generando una situazione monstre: le competenze erano state passate alle Regioni e con loro si erano trasferiti i dipendenti provinciali di quei settori; resisi conto che certe incombenze richiedevano anche la presenza sul territorio e la sua conoscenza, le Regioni rimandarono alle Province alcune delle competenze; ma i dipendenti non tornarono indietro, restando con i ben più soddisfacenti stipendi regionali. E non fu possibile rimpiazzarli: perché nel frattempo era scattato il divieto di fare assunzioni nelle Province.

In più: presidente e Consiglieri dovevano assumersi responsabilità milionarie senza che per loro fosse prevista un’indennità. Dovevano farlo a zero, secondo la riforma. La magistratura stabilì che il lavoro gratis non esiste. Così da quasi una decina d’anni le Province sopravvivono con competenze e finanze residuali. Mentre a loro devono essere riassegnati il ruolo, le competenze e le dotazioni finanziarie che le spettano.

I “subcapoluoghi” del Ventennio

Benito Mussolini

Si è detto che gli enti intermedi che esistevano tra Comuni e Province (Circondari e Mandamenti) furono aboliti dal fascismo. Tuttavia la politica amministrativa del ventennio riteneva che si potesse ovviare. Giungendo al recupero di molti dei quei subcapoluoghi di circondario ridotti a semplici Comuni, elevandoli a capoluogo di Provincia. Non fu allora un caso che sotto il fascismo furono create 24 nuove Province. Quattro nel 1923 e una nel 1925 (nei territori annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale). Ben 17, tutte assieme, nel 1927 e due successivamente.

Inoltre il movimento di ridefinizione territoriale attuato dal fascismo fu ancora più ampio. Lo fu giacché si concretizzò nella soppressione di un migliaio di Comuni minori. Nello spostamento di interi quartieri, borgate o contrade da un Comune ad un altro. Poi nella fusione di comuni limitrofi (ad esempio nel 1927 dall’aggregazione di Porto Maurizio e Oneglia nacque Imperia. E nel 1939 dall’unione di Intra e Pallanza si costituì il grande comune industriale di Verbania).

E ancora: nella fondazione di nuove città. Ben sette nell’agro pontino e romano (Littoria oggi Latina, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia, Colleferro e Guidonia). Tre in Sardegna (Mussolinia oggi Arborea, Fertilia e Carbonia). E poi due nella Venezia Giulia (Arsia e Torviscosa). In definitiva la geografia amministrativa italiana risultò profondamente modificata. Giacché l’istituzione di 24 nuove province comportò necessariamente la riorganizzazione di alcune già esistenti con lo spostamento di vari Comuni da una ad un’altra.

Lo smembramento della provincia di Caserta

Terra di Lavoro in una cartina borbonica

Questo per «riequilibrare la consistenza di territorio e di popolazione» (come per Livorno e Novara). Così come quattro province (Genova, Firenze, Perugia e Lecce) furono «particolarmente mutilate». Inoltre ci fu un unico caso di abolizione di una provincia, quella storica di Terra di Lavoro. Dunque l’unica soppressione riguardò la provincia di Caserta. Era la più popolosa tra quelle campane (dopo quella partenopea) con i suoi 868.000 abitanti nonché la più estesa con i suoi 5.269 Kmq. Il suo territorio fu smembrato.

Gran parte fu aggregato alla provincia di Napoli, altri Comuni furono assegnati a limitrofe circoscrizioni come quelle di Benevento (16 comuni), di Campobasso (8 comuni) e di Frosinone. I motivi che portarono Mussolini a sopprimere un’unica provincia, quella di Terra di Lavoro, non sono mai stati acclarati totalmente. Si sono fatte delle ipotesi. Fra cui la più accreditata fa riferimento all’iniziale affermazione nella provincia del nazionalismo e non del fascismo. In Terra di Lavoro l’iniziativa squadristica era nelle mani del nazionalismo (le camicie blu). Per i cui rappresentanti le camicie nere del fascismo rappresentavano un avversario politico molto più temibile del socialismo.

Ci fu un forte scontro politico fra i leader dei due schieramenti. L’onorevole Paolo Greco per i nazionalisti e Aurelio Padovani (amico personale di Mussolini, una delle pochissime persone che poteva permettersi di dare del tu al duce) per i fascisti. Poi nel febbraio 1923 venne decretata a livello nazionale la fusione dei due movimenti. Tuttavia Padovani non volle ammettere nel partito fascista Paolo Greco e i suoi. Il duce, a cui servivano i voti dei deputati nazionalisti per l’approvazione della nuova legge elettorale ‘Acerbo’, sconfessò l’operato di Padovani. Che si dimise dal Partito e morì nel 1926 in seguito alla caduta del terrazzino del balcone di casa sua a Napoli. Accadde mentre salutava una piccola folla che lo acclamava nel giorno del suo onomastico.

Il Lazio odierno “disegnato” da Mussolini

Quindi nel 1927 si giunse alla soppressione di Terra di Lavoro. Ed è singolare che nel governo che adottò quella decisione ne facesse parte anche un’alta personalità originaria di Minturno. Cioè il senatore Pietro Fedele, uomo di studi, ministro dell’Istruzione, il quale non fece nessun tipo di opposizione al progetto. Anche la proposta alternativa avanzata dal fascismo provinciale, cioè quella di dividere la provincia in due creando quella di Cassino naufragò. Perché la città, secondo alcuni studi, era invisa a Mussolini in quanto sede di un tribunale. Di quello «e di molti arroccati ciarlieri» e «chiacchieroni», cioè avvocati che si erano particolarmente distinti a livello nazionale nel condannare il delitto Matteotti.

Si giunse così alla seduta del Gran Consiglio tenutasi il 6 dicembre 1926 quando fu approvato il disegno di legge di istituzione di 17 nuove province. Che poi entrò in vigore come Regio decreto n. 1 del 2 gennaio 1927, convertito nella legge n. 2584 del 29 dicembre 1927. Fra le nuove 17 circoscrizioni amministrative ce ne sono tre che hanno diretta attinenza con il nostro territorio. Furono infatti elevate a capoluogo di provincia le città di Viterbo, Rieti e Frosinone (poi nel 1934 con la bonifica pontina si aggiunse Littoria-Latina).

In sostanza il movimento di ridefinizione territoriale operato dal fascismo ha determinato la nascita del Lazio odierno. Che risulta formato dalle aree facenti parte del residuale Stato Pontificio cui vennero aggiunte terre umbre (il circondario di Rieti era stato annesso fin dal 1923). Mentre nel 1927 furono aggregati territori abruzzesi (circondario di Cittaducale) e territori della Campania (i circondari di Sora e in parte di Gaeta della abolita provincia di Terra di Lavoro). Tale ridefinizione operata a tavolino ha produrre una «innaturalezza» dei confini del Lazio. Questo a causa della mancanza di omogeneità territoriale. (Leggi qui: Tra regnicoli e papalini: una provincia, due identità).

Il telegramma del Duce e lo stupore del podestà

La prefettura di Frosinone (Foto © Stefano Strani)

Per tale motivo gli storici ed i geografi fornirono delle definizioni forti. Come quella di Leonardo Musci di «regione indefinita» oppure di Alberto Caracciolo di «regione residuale».

Dunque la provincia di Frosinone nacque nel 1927 sulla base delle decisioni assunte quel 6 dicembre dall’anno precedente. Quando a Frosinone giunse il telegramma del duce che avvertiva dell’elevazione della città a capoluogo di provincia, la notizia colse tutti di sorpresa. A cominciare dal podestà del tempo cavalier Turriziani, nessuno se l’aspettava, nessuno l’aveva chiesta.

D’altra parte i dati economico-sociali non erano a favore di Frosinone. Se si considera la consistenza demografica del 1926 Frosinone, con i suoi 13.380 abitanti, era la settima città come popolazione. Ben al di sotto di Cassino (19.001), Sora (18.076), Alatri (16.874), Ferentino (16.321), Veroli (15.527) e Pontecorvo (15.015). Neppure aveva la titolarità della diocesi né era sede di residenza del vescovo.

Qualcuno farebbe derivare tale scelta dal fatto che durante la Prima guerra mondiale a salvare Mussolini fu un commilitone ciociaro. Un militare di Frosinone che poi avrebbe ringraziato premiando la città nel 1927.

Una provincia collage

Il palazzo della Provincia di Frosinone (Foto © AG IchnusaPapers)

Un aspetto curioso è dato dalla differenza in termini territoriali che esiste tra il disegno di legge licenziato nella seduta del Gran Consiglio e poi il Regio decreto n. 1 del 2 gennaio 1927.

Infatti l’organo di governo fascista aveva approvato l’istituzione di una più ampia ed estesa circoscrizione provinciale di Frosinone, dotata di una propria fascia costiera. Complessivamente avrebbe dovuto essere costituita da 116 comuni appartenuti all’ex omonimo circondario (42), di Sora (41), di parte di quello di Gaeta (i 26 a nord della foce del Garigliano), di parte di quello di Velletri (7 fra cui Segni e Terracina). Al momento dell’effettiva costituzione invece si vide privata di tutto il territorio litoraneo, lungo la costa tirrenica.

Ci dovettero essere convulse trattative intercorse nel mese di dicembre dopo la seduta del Gran Consiglio e prima della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Questo perché la provincia di Frosinone disegnata dal Regio decreto ha un’estensione territoriale più ridotta. Poiché non raggiunge più il litorale tirrenico non essendo più inclusi i sette comuni appartenenti all’ex circondario di Velletri e 15 dei 26 comuni dell’ex circondario di Gaeta. (poi aggregati alla provincia di Roma e dal 1934 a quella di Littoria-Latina).

Via il mare: non ci sono comunicazioni

Gaeta Vecchia (Foto © DepositPhotos.com)

La motivazione ufficiale fornita faceva riferimento alla mancanza di efficienti comunicazioni tra il capoluogo con il litorale. Ma in realtà perché quei Comuni giudicavano l’eventuale aggregazione al capoluogo ciociaro alla stregua di una umiliazione. Fra l’altro in quel mese di dicembre del 1926 i funzionari del ministero dell’Interno nel provvedere a ridefinire il territorio della provincia di Frosinone, commisero un errore. Lo fecero in quanto dimenticarono di includere nella nuova circoscrizione tre comuni. Quelli del mandamento di Vallecorsa (Amaseno, Castro dei Volsci e Vallecorsa).

Comuni che poi dovettero essere aggregati a Frosinone con Decreto del 31 marzo 1927. Sostanzialmente la nuova provincia di Frosinone, ridimensionata nella sua ampiezza territoriale in quanto privata di tutto il litorale tirrenico, risultò costituita da 89 comuni. Di essi 52 erano ex campani (41 dell’ex circondario di Sora e 11 dell’ex circondario di Gaeta), mentre 37 provenivano dall’ex circondario di Frosinone.

Oggigiorno l’estensione territoriale è rimasta identica ma il numero di comuni è salito a 91 in seguito al riconoscimento delle autonomie di due comuni.