Quel 14 ottobre quando dall’abate andarono in due: fedeli al Reich

Quando una coppia di ufficiali del Reich, un abate premuroso ed un gruppo di "angeli" salvarono le opere d'arte del monastero

Gaetano De Angelis Curtis

Università di Cassino Laboratorio di Storia Regionale Dipartimento di Lettere e Filosofia

14 ottobre 1943. Due ufficiali germanici si ritrovarono casualmente nello stesso giorno, alla stessa ora, minuto più minuto meno, a Montecassino nel lungo e spazioso corridoio che immetteva nello studio dell’abate monsignor Gregorio Diamare prima di presentarsi al suo cospetto.

Non si conoscevano pur essendo ambedue ufficiali della stessa unità militare, la Divisione Göring, pur provenendo ambedue dallo stesso luogo, cioè da Teano dove erano alloggiati i reparti logistici e sanitari. Non si erano coordinati né l’uno sapeva dell’altro. Si incrociarono mentre uno usciva dall’incontro e l’altro stava per fare il suo ingresso. Nel fugace incontro il primo informò di aver già prospettato a monsignor Diamare la situazione per cui «non c’era motivo, né era desiderabile» che l’altro parlasse con l’abate. Tuttavia il secondo, seppur meravigliato, decise di conferire ugualmente con mons. Diamare.

Il primo era Julius Schlegel, un tenente colonnello austriaco, di Vienna. Una persona di «natura gioviale», dotato di capacità d’intrattenimento, che ostentava di essere un esperto d’arte sciorinando nomi famosi, che parlava in modo colorito, «spesso ai confini della spacconeria» dipingendosi come «spericolato aviatore». Oppure di essere stato un artigliere a cavallo, di avere un’approfondita esperienza nel settore dei traporti gestendo a Vienna una ditta di spedizioni, che si vantava di essere tra i primi fondatori del partito nazional-socialista in Austria.

Uomini di cultura a servizio del Reich

Julius Schlegel (a sinistra) e Maximilian J. Becker (a destra)

L’altro era Maximilian J. Becker, un capitano medico tedesco, laureato in medicina a Berlino, dotato di un tasso culturale superiore proveniente dalla sua formazione accademica e dalla sua estrazione familiare. Infatti lo studio universitario nelle Facoltà di medicina in Germania non si limitava solo a una preparazione scientifica sulle specifiche materie inerenti il corso accademico. Ma era di più ampio spettro poiché per la laurea andavano sostenuti anche esami di stampo umanistico.

Esami come il latino scritto oppure di storia dell’arte tanto che Becker aveva partecipato pure a una campagna di scavi in Turchia (sulla scia delle importanti scoperte dell’archeologo Heinrich Schliemann con la mitica città di Troia e il tesoro di Priamo). Poi quando era giunto con la sua unità militare in Sicilia aveva visto Siracusa e i suoi templi. Oppure transitando a Pompei aveva colto l’occasione per visitare gli scavi disegnando a matita su un suo quadernetto i resti archeologici.

Dunque Becker aveva nel suo bagaglio personale questa sensibilità storico-artistica ma non solo perché ne aveva anche una di tipo poetico-letterario che gli proveniva dall’ambiente familiare. Infatti aveva un segreto inconfessabile per il tempo e che era anche il «suo tormento personale» in quanto aveva «doppia cittadinanza». Poiché il padre era tedesco e la madre inglese. Proprio la doppia cittadinanza gli avrebbe consentito di lasciare Berlino per trasferirsi in Gran Bretagna. Aveva fatto richiesta di iscrizione alla Facoltà di medicina dell’Università di Edimburgo che però non riconosceva gli esami già superati in Germania.

Dalle lettere alla chiamata alle armi

Henry Wadsworth Longfellow

Decise allora di rimanere a Berlino dove si laureò, si sposò, ebbe un figlio finché con lo scoppio della guerra fu richiamato alle armi, inquadrato nel reparto di sanità della «Divisione Göring» e giungendo in Italia. Anni prima, in gioventù, il padre gli aveva fatto conoscere il suo autore preferito, lo scrittore e poeta americano Henry Wadsworth Longfellow il quale, viaggiando in ferrovia da Roma era giunto a Cassino nel marzo 1869 ed era salito in abbazia.

In tale occasione aveva scritto una «lunga (e quasi didascalica)» poesia intitolata Montecassino (Terra di Lavoro) che è quasi premonitrice. La poesia si riaffacciò nella mente di Becker anni dopo, proprio quando si trovava a Montecassino impegnato nelle operazioni belliche precedenti l’attacco alla Linea Gustav e ricordò i suoi versi finali. «Il conflitto del nostro tempo e del passato, fra l’ideale e la realtà della nostra vita, mi tiene avvinto come su un campo di battaglia, mentre il nostro mondo si trovava in guerra con il resto del mondo».

Schlegel era giunto a Montecassino con l’autista e un interprete. Nel tragitto aveva attraversato la città di Cassino e «malgrado la nebbia mattutina» aveva potuto constatare i danni inferti dai bombardamenti alleati all’abitato. Invece Becker aveva raggiunto l’abbazia con la sua Fiat cabriolet, accompagnato da due frati francescani del convento di Teano. I due ufficiali erano andati dal padre abate di Montecassino per prospettargli la difficile situazione nella quale si sarebbe venuta a trovare l’abbazia di lì a qualche tempo.

Un fronte caldissimo e il grave rischio

Dom Gregorio Diamare

Infatti la città di Cassino era ed è ancora ora attraversata per tutta la sua lunghezza dalla Casilina, allora unica strada di collegamento tra Napoli e Roma (c’era sì anche quella litoranea, l’Appia, ma troppo esposta militarmente ad attacchi navali). Dunque l’esercito alleato, che ormai aveva raggiunto Napoli, per liberare la capitale d’Italia doveva utilizzare la Casilina e passare per la città Cassino, dominata dal suo monte omonimo sulla cui sommità si trova l’abbazia benedettina.

Ecco che i tedeschi avevano scelto il luogo dove sarebbe stata più dura e intensa la difesa all’avanzata alleata, la zona di Cassino-Montecassino. E già alla data del 14 ottobre 1943 prevedevano che l’abbazia e la città sottostante sarebbero state distrutte (come in effetti si verificò il 15 febbraio e il 15 marzo dell’anno successivo). L’annientamento della millenaria badia avrebbe significato anche la grave perdita per il mondo culturale mondiale dei beni del patrimonio storico-artistico conservati nel monastero

La sollecitazione che i due ufficiali fecero all’abate Diamare era quella di mettere al sicuro quei beni trasportandoli altrove. La «Divisione Göring» si rendeva disponibile a offrire automezzi, carburanti e uomini per la messa in sicurezza

Le ombre nel petto dell’abate Diamare

Il colonnello Schlegel con l’abate Gregorio Diamare (Bundesarchiv)

Bisogna immaginare lo stato d’animo dell’abate Diamare. Le avvisaglie erano già giunte in abbazia con i primi bombardamenti di Cassino. Le prime parziali distruzioni che avevano interessato anche la Curia, il palazzo Badiale, i conventi delle monache (quelle della Carità, le Stimmatine con le orfanelle che si riversarono in massa in abbazia assieme a centinaia di cittadini di tutto il Cassinate che si facevano profughi).

Ma all’improvviso due ufficiali gli andarono a dire che il monastero Montecassino si ritrova sulla linea di fuoco del fronte, che sarebbe stato entro breve tempo distrutto. E che pure i beni del monastero andavano trasferiti, e subito, per evitare la loro perdita.

Mons. Diamare era un uomo di fede, un uomo di pace, quasi sull’ottantina, aveva visto molte cose nella sua vita. Le preoccupazioni e le difficoltà della Prima guerra mondiale per cui aveva dato sostegno e assistenza alle famiglie bisognose, si era adoperato per organizzare l’invio di pacchi a combattenti e prigionieri. Aveva fatto collocare nel Palazzo Badiale un servizio di scrittura per tenere rapporti tra le famiglie e i soldati al fronte, lo aveva trasformato in un centro di smistamento di vestiario e di prodotti alimentari per la popolazione.

I Fasti del ’29 e la minaccia del ’44

Il cardinale Gasparri firma i Patti Lateranensi con Mussolini

Aveva visto anche i fasti del XIV centenario della badia benedettina del 1929 con migliaia di persone, di fedeli, di pellegrini, di autorità fra cui il cardinale Gasparri (colui che poco prima aveva firmato i Patti Lateranensi con Mussolini) saliti a Montecassino. Si era sempre prodigato a favore dei bisognosi e proprio in quei giorni era riuscito a scongiurare una rappresaglia di civili nella frazione di S. Antonino di Cassino. In quei frangenti gli ritornò in mente un fatto accaduto molti anni prima.

Cioè quando, poco dopo essere stato eletto abate, era andato al Santuario di S. Alfonso de’ Liguori a Nocera dei Pagani (Nocera inferiore in provincia di Salerno). Aveva fatto visita a padre Losito, un padre redentorista poi morto in odore di santità, e mentre era solo nella stanza aveva sentito una voce che piangeva e ripeteva tra i singhiozzi «Montecassino, Montecassino, Montecassino». A distanza di anni quel segno premonitore di pianto misterioso per i pericoli grandissimi che correva l’abbazia stava per avverarsi.

D’altra parte cosa poteva fare, cosa poteva rispondere ai due ufficiali venuti a prospettargli i pericoli imminenti? Non era in condizione di poter intavolare una trattativa, non gli erano state offerte molte possibilità di poter rifiutare il non disinteressato “aiuto” della «Divisione Göering». I tedeschi avevano una totale superiorità, con la forza, volenti o nolenti, potevano in qualsiasi momento sgomberare i beni da Montecassino d’autorità anche senza la sua approvazione. Non gli rimase altro che cercare di sfruttare al meglio la situazione.

Correre il rischio e superare la difidenza

Il tesoro di San Gennaro

Non dette mai esplicitamente il suo consenso al trasporto dei beni ma anche di fronte a forti resistenze interne, basti pensare al grande archivista del tempo dom Mauro Inguanez che manifestò apertamente il pericolo di razzia, di furto. Pur di preservarli dalla distruzione decise di correre il rischio della loro perdita nelle fasi di trasporto o della loro sottrazione da parte dei tedeschi e acconsentì alla rimozione. Tuttavia operò affinché i tedeschi accettassero, innanzi tutto, la divisione dei beni in base alla loro proprietà.

Quelli di proprietà di Montecassino viaggiavano separatamente dagli altri e raggiungevano direttamente la basilica di San Paolo fuori le mura a Roma e quindi quella parte aveva maggiori probabilità di essere messa al sicuro senza suscitare le mire d’accaparramento da parte dei tedeschi, come in effetti successe.

In più, con lungimiranza, fu possibile celare tra i beni cassinesi anche altri come il Tesoro di San Gennaro. Quello e i beni del Museo di Siracusa senza che i tedeschi ne fossero mai venuti a conoscenza. (Leggi qui: Montecassino, il Tesoro di San Gennaro e il suo salvataggio).

Il trucco: i beni nascosti tra la gente

Julius Schlegel consegna una pergamena a dom Attanasio Miller

L’altro aspetto importante messo in atto da mons. Diamare fu quello di sfruttare gli automezzi, i camion che portavano nella capitale italiana i beni di proprietà cassinese per mettere in salvo monaci, sacerdoti, religiosi, religiose, orfanelle, studenti, collegiali, alunni. Una corposa comunità religiosa che si trovava o si era rifugiata in abbazia e che monsignor Diamare riuscì a far trasferire, tutta e in poco tempo assieme ad alcuni civili, a Roma. Ponendola al riparo dai pericoli della guerra e tutelando la vita di qualche centinaio di persone.

Diversa fu la questione che riguardò i beni di proprietà statale sia quelli di cui i monaci cassinesi erano custodi. Sia quelli trasportati in abbazia qualche mese prima provenienti dai Musei di Napoli (archeologico e Capodimonte).

La successione degli avvenimenti fu rapidissima: il 14 ottobre Schlegel e Becker erano saliti in abbazia. La sera stessa o l’indomani l’abate Diamare aveva riunito la comunità monastica per informarla della situazione; il 16 i due ufficiali erano tornati a Montecassino. In brevissimo tempo iniziarono le operazioni di imballaggio, con confezionamento e riempimento di centinaia di casse in legno. Il 17 ottobre partì il primo convoglio, due automezzi che avevano destinazione ignota per i monaci cassinesi. Invece il 19 ottobre partì il primo convoglio che traportava beni di proprietà cassinese diretto a Roma.

Alleati fermi sul Volturno: tempo utile

Una fase della battaglia del Volturno

Secondo i programmi iniziali, le operazioni di sgombero avrebbero dovuto essere circoscritte appena a due giorni. Tuttavia il ritardo dell’avanzata alleata, bloccata i quei momenti a nord del fiume Volturno, permise il prolungamento del piano di salvataggio. Tanto che furono effettuati un centinaio di viaggi utilizzando vari autocarri che, contemporaneamente e quotidianamente, continuarono a fare la spola tra il monastero, Roma e i luoghi di deposito a partire dal 17 ottobre e fino al 3 novembre, trasportando beni preziosi, cose e persone

Tuttavia nonostante il prolungamento delle fasi di sgombero molti materiali non poterono essere portati via da Montecassino e andarono poi persi con la distruzione del monastero.

Inizialmente, dunque, non si sapeva dove la «Divisione Göring» avesse portato i beni di proprietà statale. Un segreto che però rimase tale solo per una quindicina di giorni. Sulla questione gran merito va a don Tommaso Leccisotti inviato a Roma dall’abate Diamare. Proprio con lo specifico compito, nell’immediato, di allertare le autorità italiane e quelle diplomatiche tedesche, mentre l’altro incarico era quello di mettere in allarme le autorità vaticane sui pericoli di distruzione dell’abbazia che purtroppo non dette esito. Già alla fine di ottobre era stato appurato che i beni erano stati trasportati in Umbria, depositati a Spoleto.

Danni alle statue e due cerimonie

Una parte del tesore di San Gennaro portato via da Montecassino

I timori dei monaci di Montecassino e delle autorità statali del ministero dell’Educazione Nazionale era che i tedeschi volessero impossessarsi di quei beni. Per portarli in Germania

Quali fossero le intenzioni della Divisione Göring in merito ai tesori prelevati a Montecassino, se volessero appropriarsene di tutti o se volessero prenderne solo una parte, è difficile da stabilire. In merito si possono solo fare delle ipotesi. In sostanza il quesito posto da anni e se si trattò di un’operazione di furto-sottrazione-depredazione. O, al contrario, di un atto di salvaguardia dei beni e in quest’ultimo caso a chi eventualmente riconoscerne il merito della messa in sicurezza.

Fatto sta che un esperto d’arte, vicino al gerarca nazista Hermann Göring era stato mandato da Berlino a Spoleto a ispezionare le casse depositate. Molte furono aperte per verificarne il contenuto. Poi improvvisamente giunse l’ordine alla «Divisione Göring» di riconsegnare le opere rimosse da Montecassino e portate a Spoleto. Le casse furono chiuse in fretta e non da personale esperto, molte opere subirono danni (soprattutto le statue). La riconsegna dei beni fu fatta a Roma nel corso di due distinte cerimonie.

15 casse di meno e gli appetiti di Goering

La restituzione delle opere salvate a Montecassino

Una l’8 dicembre 1943 a Castel Sant’Angelo nel corso della quale furono riconsegnati i beni statali in custodia ai monaci cassinesi. L’altra si tenne il 4 gennaio 1944 a Piazza Venezia (luogo simbolico per eccellenza) con la restituzione dei beni statali provenienti dai Musei partenopei. In questa seconda cerimonia delle 177 casse che erano state portate a Montecassino nell’estate 1943 mancava un gruppo di 15 casse di opere d’arte.

Sul momento i tedeschi si schernirono. Asserirono che due autocarri si erano dovuti fermare a causa di guasti meccanici e che sarebbero arrivati il giorno successivo. Tuttavia nessun automezzo giunse. Le 15 casse erano già arrivate in Germania e su questo punto non ci sono dubbi. 

Il particolare fervore della «Divisione Göring» le aveva fatte giungere a Berlino per compiacere Hitler, ma soprattutto per accondiscendere Hermann Göring. La statua dell’Apollo citarista proveniente da Pompei fu donata a Hitler che la tenne in casa. Invece altri capolavori giunsero nella tenuta di campagna di Carinhall allestita da Göring dove riceveva Hitler e gli altri gerarchi nazisti. E dove aveva già concentrato migliaia di beni preziosi e che a fine guerra avrebbe voluto trasformare in Museo.

Il museo di Göring

Rodolfo Siviero dopo aver recuperato la Danae di Tiziano

Tra i beni provenienti da Napoli-Montecassino-Spoleto c’era il quadro della Danae di Tiziano che il 12 gennaio 1944, nel giorno del suo cinquantunesimo compleanno, Göring mostrò con orgoglio ai suoi ospiti. Göring, secondo la versione di Rodolfo Siviero, fece collocare la tela al soffitto della sua camera da letto in modo da poterla rimirare quando si sdraiava. «Poi stanco, ne fece una spalliera del letto. La fanciulla, chiusa una volta dal padre nella torre di rame, invece di Giove dovette accontentarsi della compagnia di Göring».

Se non ci sono tracce che attestino la ricostruzione fatta da Rodolfo Siviero, ci sono però varie fotografie che testimoniano la presenza dei due cerbiatti provenienti da Ercolano nei giardini di Carinhall. Alla fine della guerra Göring fu arrestato e processato a Norimberga. Negli interrogatori non confermò le sue responsabilità in merito alla vicenda dei beni di Montecassino imputando l’iniziativa all’omonima divisione.

Nonostante il ritrovamento di documenti che attestavano la sua proprietà «dichiarò di aver trattenuto per sé solo la statua di un santo … ritrovata tra le rovine di Cassino … un oggetto insignificante» dal valore «tra 50 e 60 marchi e non un’opera d’arte» (Giuseppe Russo). I beni contenuti nelle 15 casse giunte a Berlino furono ritrovati nascosti in una miniera di sale ad Altausee, nei pressi di Salisburgo, in Austria assieme a migliaia di opere d’arte razziate in tutta Europa. Portate a Monaco, da lì vennero restituite al governo italiano il 7 agosto 1947. Fu poi per merito di Rodolfo Siviero (capo dell’Ufficio Interministeriale per il Recupero delle Opere d’Arte) se quelle opere e altri capolavori poterono far ritorno in Italia. 

Un gruppo di probi a cui dire grazie

Il generale Fridolin von Senger und Etterlin apre la porta dell’auto che accompagnerà a Roma l’abate Gregorio Diamare due giorni dopo il bombardamento di Montecassino

A monsignor Gregorio Diamare, a dom Tommaso Leccisotti, a Rodolfo Siviero, a Pasquale Rotondi di Arpino ad Amedeo Maiuri di Ceprano, solo per fare qualche esempio, deve andare la gratitudine delle generazioni successive. Per aver salvato dalla distruzione o dalla sottrazione migliaia di beni, materiali, capolavori artistici, storici, culturali, religiosi di cui possono fruire. (Leggi qui: Frido, l’eroe silenzioso che la Storia non riesce a liberare).

In merito ai due ufficiali germanici, Schlegel e Becker, è stato il primo che ha attribuito a sé tutta l’iniziativa dello sgombero. Rivendicando la totale paternità del piano di salvataggio dei tesori dell’abbazia di tutte le fasi, dall’ideazione alla realizzazione.

Dieci giorni dopo la sua morte avvenuta l’8 agosto 1958, Schlegel fu ricordato con una messa celebrata a Montecassino. Così come nel 2008 per il cinquantenario. A Vienna, sua città d’origine, Julius Schlegel è stato ricordato con una lapide affissa nel 1969 su una parete della sua casa. E con un’altra lapide posta in una cripta dell’abbazia benedettina degli Scozzesi (Schottenstift). Con l’inclusione, dal 1977, nella toponomastica della capitale austriaca. E con l’erezione, nel 1968, di un primo busto di bronzo nel parco Döbling e di secondo nel 1996 nel Parco di Wertheimstein.

Recentemente un busto del colonnello è stato sistemato nei locali adiacenti al Cimitero militare germanico di Colle Marino a Caira.

Il vero salvatore: il capitano Becker

Tuttavia l’idea del salvataggio dell’archivio e della biblioteca di Montecassino era sorta nella mente del capitano Maximilian Becker cui va assegnata la paternità dell’operazione. Mentre invece Julius Schlegel ebbe un ruolo molto importante nell’organizzazione.

Becker che si adoperò per la salvaguardia dei beni spinto solo da motivi culturali e non per fare incetta dei beni, è rimasto più in ombra. Nessuna lapide è stata collocata, nessun monumento è stato eretto per ricordare quanto fatto da Becker. 

Al Vaticano si ritrovarono San Benedetto che tutelò i beni, San Gennaro titolare del Tesoro napoletano del Duomo portato a Montecassino e poi a Roma. San Marco titolare del Tesoro della Basilica patriarcale di Venezia portato a Urbino e poi Roma, protetti da San Pietro. Che conservò quei beni preziosi appartenenti alla devozione popolare, tornati poi a essere venerati nei cuori dell’ignara popolazione.