Top e Flop, i protagonisti del giorno: giovedì 9 febbraio 2023

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 9 febbraio 2023.

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 9 febbraio 2023.

TOP

LA CORTE DEI CONTI

Il presidente Tommaso Miele

Facciamo come La Russa e diciamocelo: la Delrio non è stata poi tutta sta’ gran pialla dei costi e degli orpelli delle vecchie province. Anzi, è parso un mezzo flop il tentativo di riordino che a suo tempo aveva portato gli enti amministrativi più vicini alla gente a diventare materia solo per chi dalla gente è stato delegato.

E se al giudizio politico e “generalista” si possono obiettare decine di argomenti, a quello di gente che alle province 2.0 ha fatto le pulci obiettare è più difficile. Molto più difficile. E chi più della Corte dei Conti sa fare le pulci ad un ente di governo? Ecco, dato che in tema di autonomia siamo quasi in dirittura di arrivo a livello di esecutivo centrale, diamo un’occhiata a ciò che i giudici contabili hanno detto in una relazione-memoria depositata a Palazzo Madama.

Il sunto è che se da un punto di vista della “voluntas” politica di maggioranza si procede a grandi e spediti passi verso il ritorno al voto popolare per le Province serviva che questa “voluntas” trovasse un appiglio normativo. Ecco, la Corte dei Conti quell’appiglio lo ha dato in pieno. La memoria depositata è del tutto favorevole. E lo è perché non solo disegna un complessivo e sostanziale vantaggio socio economico con le Province autenticamente legittimate dal voto, ma va alla polpa.

Come? Così: nel merito è da considerarsi “irrisorio il risparmio delle indennità (una trentina di milioni) rispetto agli effetti positivi di un riordino delle funzioni”. E le spese per fare retromarcia, quelle non consterebbero? La Corte ha detto che un ritorno a Canossa avrebbe costi “di non particolare significatività”.

Insomma, per i magistrati contabili le spese per tornare al passato sono inferiori al beneficio delle Province che tornassero al pieno e legittimo governo del territorio di loro pertinenza. E come sempre per capire che avevamo sbagliato abbiamo dovuto prima sbagliare, cosa bellissima in filosofia, un po’ meno in politica.

Addio Delrio.

RICCARDO MASTRANGELI

Riccardo Mastrangeli

Ci sono decisioni che vanno al di là della sostanza. E rappresentano ben più di quanto vanno a realizzare nel concreto per la vita dei cittadini. Perché sono dei simboli: di una visione delle cose, di una interpretazione della politica, rappresentano il legame che ci unisce con il recente passato. Ecco perché è stato importante per il sindaco di Frosinone Riccardo Mastrangeli, approvare ieri sera in Giunta la prosecuzione del Progetto Solidiamo.

È il progetto messo a punto dal suo predecessore Nicola Ottaviani. Ha caratterizzato dieci anni di governo cittadino, profumando di populismo spinto ma sostanziando invece in una concretezza oggettiva che trabocca di buoni principi. In pratica: Solidiamo è il progetto finanziato con la rinuncia volontaria fatta da sindaco, assessori e consiglieri Comunali ad una sostanziosa parte della già misera indennità che compete per il ruolo di amministratori. Va a realizzare borse di studio per gli studenti che frequentano le scuole di Frosinone, iniziative culturali per gli anziani.

Fino ad oggi gli amministratori del Comune di Frosinone hanno finanziato così oltre 1,6 milioni di euro, coinvolto oltre 5mila ragazzi, mandando a tutti un forte segnale pedagogico: viene premiato il merito, fornendo così uni stimolo in più per studiare.

Mettere in discussione il progetto Solidiamo avrebbe significato tagliare una delle radici più nobili tra il nuovo corso di Riccardo Mastrangeli ed i dieci anni di Nicola Ottaviani. E diluire quel legame che in dieci anni ha saldato la città ed i suoi amministratori. Non è un caso che tra i primi bersagli elettorali dell’avversario del sindaco Mastrangeli nella scorsa campagna elettorale ci sia stato proprio Solidiamo.

Difendere quel progetto era un obbligo morale ed un dovere politico: per la città e per la continuità. Riuscirci non era scontato. Il voto di giunta ottenuto ieri sera traccia un solco. Di continuità.

Riccardo Ottaviani (o Nicola Mastrangeli).

FLOP

BLANCO

Blanco (Screenshot da Rai Uno)

Tolto un improprio quanto provvidenziale utilizzo come decespugliatore al ragazzino non troveremmo altro da fare. Ma qui ci scatta l’anima rock e rischieremmo di essere di parte al di là di quel che ‘sto tal Blanco ha fatto. Insomma, fuori da questi blocchi potremmo anche avere da dire su ciò che Blanco è, ma qui interessa come si è portato il giovanotto sul palco dell’Ariston, anche a contare che abbia un po’ seguito un copione concordato ed un po’ ruzzolato libero nel pantano delle sparate “ribelli”.

Tutto è nato dalla difficoltà che il cantante, all’anagrafe del grigiume che meriterebbe Riccardo Fabbriconi, avrebbe avuto nel presentare una canzone che in punto di scenografia gli avevano acchittato a dovere, visto che si intitola L’Isola delle Rose. La grana era quella che, per carità, in un contesto come quello di Sanremo manderebbe in pappa anche il sistema nervoso di un bonzo. Però e come sempre est modus in rebus. E poi c’è la “cazzimma” dell’artista scafato che di solito queste cose le sana.

Un esempio fra un triliardo scomodando un titano? Leggenda narra che ad un certo Iggy Pop, uno che potrebbe usare Blanco come pavesino nel caffellatte la mattina, una sera capitasse una noia simile. Iggy era in concerto a Londra negli anni ‘90, non a Sanremo in un’epoca in cui considerano rock gli Spandau Ballet. Tutto questo per far capire che in certi contesti o te la cavi o te la fanno, la ghirba.

Il cantante britannico andò a memoria perché il gobbo coi led in modalità “dos” fuse e a concerto finito semplicemente sfasciò anche le cucce dei cani dei roadies. Ma la parola chiave di questa paraboletta non è che “sfasciò”, ma che lo fece “a fine concerto”, cioè dietro le quinte. Blanco invece ha pensato bene di scavarsi una nicchietta mainstream. Surfando la sua rabbia mezza furba e mezza genuina e lo ha fatto scalciando come un mulo sardo tutte le rose del palco, lasciando poi che a ramazzare fosse un contrito Gianni Morandi, Gianni Morandi please.

E mentre un Amadeus basito da quell’iperbole e con le vene del collo grosse come i pali di roverella gli sbagliava perfino il nome, da quante glie ne avrebbe voluto dare, il giovanotto ha chiosato: “Mi sono divertito lo stesso”. E non ha pulito. Non ha chiesto scusa. E neanche si è fermato chiedendo di ripetere il brano.

E se mentre canti l’Isola delle Rose le rose le mandi a fare pappa sul pavimento allora vuole dire che sarai anche bravo, ma non sei pronto. Perché questo non è un concerto rock. Piaccia o meno questo è Sanremo.

Lo hanno pagato i Jalisse.

FEDEZ

L’approccio è stato meno becero nella forma usata da Blanco. Altrettanto scorretto nella sostanza. Fedez intenerisce per la sua storia, il suo successo nella musica e nella vita. Indispone per il modo in cui intende proporlo. A partire da una vita esposta interamente ed in modo volontario sotto le telecamere: perché rischia di ridurre l’intera esistenza ad un reel, ad uno spettacolo in breve, nel quale non sai più quanto ci sia di spontaneità e quanto invece di scientificamente costruito ad uso degli obiettivi.

Il rap non è, per sua definizione, contro. Nasce contro per denunciare l’abbandono di un mondo nascosto nella giunga urbana. Ma se i bersagli sui quali vai a puntare le tue rime sono studiati, rischi di cadere in quella mancanza di spontaneità di cui sopra. Perché una cosa è se la rima ce l’hai sullo stomaco, altro è se ce l’hai nel cervello e l’hai dovuta pensare.

È tutto qui il limite dell’esibizione fatta ieri sera al festival di Sanremo, nella quale ha attaccato il Governo ed il Codacons. Il che ci sta. Quanto ci stia, dipende da quale curva politica si sta assistendo allo spettacolo.

Prima di cantare la sua Problemi con tutti Fedez ha tenuto un dissing di introduzione «Se va a Sanremo Rosa Chemical scoppia la lite, forse è meglio il viceministro vestito da Hitler. Purtroppo l’aborto è un diritto sì, ma non l’ho detto io l’ha detto un ministro. A volte anche io sparo cazzate ai quattro venti, ma non lo faccio a spese dei contribuenti, perché a pestarne di merde sono un esperto. Ciao Codacons, guardo come mi diverto».

Fin qui tutto bene (o male, dipende dalla curva di cui sopra). Ma nel momento in cui il cantante aggiunge «Mi assumo le responsabilità di quello che ho fatto e mi appello all’Art. 21 della Costituzione. Il testo non era concordato con lo staff Rai» il sospetto è che ci sia ben poco di provocazione artistica. E tanto di provocazione ruffiana costruita a mezzo tra furbizia e genuinità solo per far parlare. Il che fa la differenza tra un testo che canta la rabbia ed un testo che vuole solo i clic. Non sono la stessa cosa anche se le parole del brano rimangono le stesse.

Di testa e non di pancia.

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