Walter, l’australiano coi baffi che andò a morire a Palermo: con Borsellino

La scelta di un poliziotto di andare con le scorte e il sacrificio di uno degli angeli che stavano con Paolo Borsellino. Ammazzato oggi 31 anni fa

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Nei primi anni ‘90 quella moda un po’ insensata dei baffi stava per lasciare il campo ai visi glabri ed alle mascellone squadrate dei primi 2000. Molti li portavano ancora e Walter non faceva eccezione. Anzi, la sua era la mezza eccezione che gli derivava anche un po’ dalle sue origini. Il giovanotto era nato e mezzo cresciuto a Norwood, in Australia. Una terra non solo di canguri, ma di uomini onestamente baffuti in genuflessione ad un’iperbole di virilità che all’epoca faceva più sorridere che inquietare eticamente.

Walter era italianissimo, di origini triestine, ed era figlio di un poliziotto che gli aveva attaccato la malattia della divisa e della legalità che ad essa dà colore. Perciò, quando la sua famiglia era tornata in Italia, il giovanotto aveva scelto di seguire le orme paterne con la stessa naturalità con cui si entra in casella di un destino segnato. Non c’è niente di più utile di uno sbirro in casa per farti decidere di diventare uno sbirro. O, a volte, per farti dire no anche al solo pensiero di provarci.

Il sale della terra e il sogno di entrare in Pg

Carabinieri in un’operazione antimafia. Foto © Imagoeconomica

In Italia la divisa non ha mai portato soldi, men che mai successo sociale, perciò Walter assaggiò il sale della terra in una terra che di sale per i poliziotti ne aveva sparso molto in giro. Suo padre morì e il sogno-progetto di entrare nella Polizia Giudiziaria dopo un corso se ne andò in vacca. Servivano più soldi e per farli serviva un upgrade di pericolo terragno. La trimurti della Polizia per fare cose più pazzoidi era definita già allora: Digos, Catturandi e Anticrimine. Tutti posti dove avere un bel paio di baffi tornava utile.

Almeno per esorcizzare la paura quando ti appostavi dietro una porta senza sapere se chi stava dall’altra parte aveva imbracciata la doppietta del nonno o un mitra Skorpion. Perciò Walter si tenne i suoi baffi e si tenne la paura, ma i primi li faceva vedere con orgoglio, la seconda no. Quella la provava dentro ma non la spargeva intorno.

Arrivarono gli anni ‘90 e con essi arrivò l’eco di una nuova lotta da condurre.

Indietro i terroristi, avanti il terrore mafioso

In giro non c’erano più caprai sequestratori o terroristi invasati che combattevano lo Stato, ma fredde e gutturali coppole storte che lo Stato lo volevano a servaggio. E che per farlo ne ammazzavano pezzi fedeli o frattaglie di infedeltà.

Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica

In Sicilia Salvo Lima divenne un esempio. Esempio sforacchiato a Mondello da tre colpi di pistola al torso voltato a correre e poi alla faccia. Non aveva garantito condanne morbide a “U’ Maxi” e doveva pagare.

Walter lesse. E fece una cosa che di solito fanno o gli eroi o i matti, gente che a volte va ad abitare dentro alla stessa persona. Perciò, appena in Questura a Trieste arrivarono le richieste per far entrare poliziotti in Antimafia, Walter prese una penna e firmò, gongolando in cuor suo e sotto i baffi. Lo fece perché in giro ci sono uomini che per fare quello che sentono giusto scelgono esattamente i posti ed i momenti in cui il giusto è sotto sfratto. Ed in quei posti ci vanno impauriti, ma mai al punto da mettere la paura in podio più alto della testardaggine con cui la paura sta legata al palo del dovere.

Aveva un progetto, Walter, ma non sapeva che se vuoi far ridere Dio sotto i suoi, di baffi, basta raccontargli i tuoi programmi.

Un collega padre: “Ci vado io al posto tuo”

Ci sono cose che semplicemente vanno fatte e Walter le fece. Lo aiutò la circostanza che un collega in pole rispetto a lui era diventato padre da poco. Perciò quel matto australiano con grossi baffi spioventi colse l’occasione e si offrì lui senza sapere che si stava offrendo al Martirio.

E andò a fare la guardia ad un altro paio di baffi, più discreti e laccati di nicotina aspirata mentre il proprietario dei medesimi si rompeva la testa su cento faldoni. A Palermo vigeva una sorta di canale bouquet tra la Questura di Trieste e quella locale.

La Scuola Allievi di Polizia del capoluogo friulano era un serbatoio fornitissimo. E proprio nei giorni in cui Walter arrivava a Palermo, nella città siciliana era già arrivata un’altra poliziotta che aveva fato il suo stesso tragitto: una rossa peperina rispondente al nome di Emanuela Loi.

Il destino dentro una 126 color amaranto

EMANUELA LOI

La Sicilia era sotto la cappa dell’orrore e sotto scacco di chi quell’orrore lo governava. I Viddani di Zu’ Totò avevano appena fatto “l’attentatuni” a Capaci e c’era poco da girarci intorno: se era morto Falcone e se Falcone era una delle due briscole contro la mafia, allora anche l’altra briscola era in pericolo, lei e chi le faceva bordone di piombo. Il 19 luglio del 1992 tutto questo però Walter non lo sapeva, al limite lo intuiva a livello limbico, ma non ne aveva contezza cronologica.

Chi ne avrebbe mai potuta avere d’altronde? Chi cacchio ce l’aveva la palla di vetro per sapere che quel giorno una Fiat 126 color amaranto se ne stava gravida di follia detonante al civico 21 di via Mariano D’Amelio come una scrofa satanica?

Walter Eddie Cosina per quel giorno prese il posto di un collega appena arrivato da Trieste e si accomodò, lui e i suoi baffi, in una delle auto di scorta. Erano le auto del giudice Paolo Borsellino che andava a trovare sua madre Maria Pia Lepanto. Con lui c’erano Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Antonino Vullo. Sette persone di cui solo una non si fece sudario. (Leggi anche Le mani sull’agenda rossa di Paolo Borsellino non erano “punciute”).

La telefonata di Ferrante che sudava e bestemmiava

Salvatore Biondino, i quasi omonimi Salvatore Biondo, detti “il corto” e “il lungo”, Raffaele Ganci e Giuseppe Graviano avevano pedinato il giudice per giorni. E alle 16.52 Gian Battista Ferrante corse trafelato fino ad una cabina telefonica di Viale della Regine Siciliana.

Ci arrivò sputando fiato, bestemmie e saliva torrida chiamò un numero di telefono segnato su un foglietto stropicciato ed unto di sudore che teneva in tasca da due giorni. Glielo avevano dato spiegandogli che doveva correre come un forsennato appena gli venisse ingiunto di usarlo. Senza fermarsi mai, letteralmente mai. A costo di spaccarsi il cuore che non aveva.

LA STRAGE DI VIA D’AMELIO

Alle 16.58 del 19 luglio 1992 i 90 chili di Semtex di brevetto cecoslovacco stipati nella 126 parcheggiata in via Mariano d’Amelio brillarono dietro input di un telecomando. E con loro brillò il mondo per duecento metri. Brillò della luce cieca di un’onda d’urto talmente forte che i muscoli si staccarono dalle ossa. Le lasciarono di botto, mezzi integri prima ancora di prendere fuoco volando addosso ai parabrezza delle auto parcheggiate.

Da corso Calatafini qualcuno vide due soli all’orizzonte, quello sano e quello guasto. Poi il fumo nero, e gli allarmi, preludio al silenzio che precedeva il doppler delle sirene. Pezzi di gente che fino a pochi secondi prima brandeggiava l’arma, pregustava un caffè o le chiacchiere di una madre, oppure pensava a quanto facesse caldo arrivarono dove stava Antonino Vullo.

Morire senza saperlo, anzi, sapendolo benissimo

Il solo agente scampato a quella macelleria avrebbe detto che al botto la blindata che stava parcheggiando a margine di maglia sobbalzò. Fu scossa così tanto che lui venne sbattuto in avanti contro il vetro marezzato di sangue, stordito. Una blindata, cioè un’auto con 9/10mm di ferraglia aggiuntiva, che pesa quasi il doppio ed è stabile sulle ruote il triplo, ma che divenne fuscello nel vento di quell’orrore.

Walter Eddie Cosina era il brandeggiatore da sinistra in alto, copriva l’angolo mancino dei caseggiati di fronte. E il Pm12 – 3,7 chili carico – gli venne strappato di mano come una matita assieme a parti di lui che lo impugnava.

Morì senza saperlo, Walter, morì assieme a quelli che facevano la guardia a Paolo Borsellino che aveva i suoi stessi baffi spacconi. Ma in realtà lo sapevano tutti, che quello che stavano facendo chiamava morte. Ma non si fecero spaventare e non arretrarono. E insegnarono a non arretrare a chi, ancora oggi, 31 anni dopo, per loro chiede giustizia. In un’Italia memore ma ipocrita dove non c’è mai santità se prima non c’è stata morte.

(Leggi anche: Emanuela, l’ultimo angelo di Paolo Borsellino).