Il grande equivoco del capitale umano che “non serve”

Il fattore umano nel lavoro: l'elemento umano della macchina. Sono stati loro a salvare buona parte dell'industria su questo territorio. Cosa si stanno perdendo le nuove generazioni. La genialità di concepire il lavoro come ingrediente e non come frutto di un "algoritmo"

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I segnali c’erano tutti ma non tutti li hanno visti, perciò con quello che i segnali hanno portato ci stiamo facendo i conti oggi. Conti limbici ma già a volume altissimo. E lo stiamo facendo a livello dubitativo, con la formula della domanda alla “ma non sarà che?”. E sono segnali tutti condensabili in una immagine secca e a suo modo durissima. E’ quella del computer che gira e gira con l’incedere assurdamente veloce delle faccende inimmaginabili all’uomo e alla fine ti sforna… una clava.

C’entra il lavoro, e con esso quel che dal lavoro il mondo di oggi si aspetta. Mettiamo in fila i risultati: produzione, poi produzione e infine produzione. Ma attenzione, non è finita: nella lista delle aspettative da mettere a terra c’è anche il modo con cui la produzione va ad epifania. E quel modo è la velocità omologata che ti permette di fare una cosa secondo criteri di perfetta attinenza con il target per cui lavori.

C’è una parola che mette a crasi il tutto ed è risultato.

In morte dell’esperienza: oggi non ha più valore

Se potessimo immaginare un segmento che dalla materia prima possa condurre direttamente al prodotto ecco, quel segmento sarebbe un insieme di piccoli punti. E ognuno di quei puntini una volta era una uomo, cioè una minuscola e gigantesca morula del principio di indeterminazione di Heisenberg. Il sunto in letteratura spicciola è questo: “Se fai una cosa, nel momento in cui la fai la cambi, perché ci metti dentro qualcosa di tuo anche non volendo.

Di tuo, del tuo vissuto, della tua esperienza e della baldanza spaccona di chi può anche derogare dalla regola. Questo era il lavoro una volta, una cosa per cui se dovevi produrre una cosa in quella cosa c’era un pezzo della tua capacità di farla “a mestiere”.

I lavoratori prima del lavoro: la ricetta di Borgomeo

Saltiamo e pie’ pari e prendiamo qualche esempio. Francesco Borgomeo, uno che nell’imprenditoria del Terzo Millennio ci sta per trasformarla dal vecchio modello lineare: prendo materia prima, la trasformo in prodotto, una volta sfruttato il prodotto si butta e se ne compra uno nuovo e più moderno. Per lui l’imprenditoria deve essere circolare: prendo il prodotto usato, riciclo tutte le componenti che possono avere una nuova vita, le rigenero rendendole nuova materia prima che servirà per fabbricarci altre cose.

In questa evoluzione ha sempre messo il capitale umano nel punto focale del processo di produzione.

Lo aveva spiegato bene, anche se usando il contrappasso di uno scenario non più tersissimo. “I lavoratori sono stati una componente fondamentale in ogni progetto realizzato dal mio gruppo. C’è la loro esperienza e la loro capacità di fare produzione alla base di ogni progetto”. (Leggi qui: La “Zes” con cui Borgomeo vuole far ripartire il Cassinate, ed il suo sogno).

E lo stesso presidente della Banca Popolare del Cassinate Vincenzo Formisano, che della “humanitas creditizia” (no, non è sempre un ossimoro) è un guru, ha in più occasioni sottolineato che il segreto delle banche territoriali è sta proprio in quell’aggettivo. In una attribuzione cioè che non è solo lessicale ma che significa in modo tondo e tridimensionalmente il rapporto diretto con il tessuto sociale di riferimento. Con quello e con l’individuo. (Leggi qui: Assopopolari conferma Formisano a guardia della tradizione).

La genialità in agonia e la serialità in spolvero

Il professor Vincenzo Formisano, alle sue spalle la foto di Donato (Foto © Roberto Vettese)

Ecco il core della faccenda: dove sta l’individuo nel lavoro così come lo si concepisce oggi? Che fine ha fatto quel capitale umano che aggiungeva sale e sugo alle cose ben fatte senza togliere nulla alle esigenze di serialità del capitalismo?

Dove se ne sta nascosto l’uomo, quel meraviglioso sabotatore dell’alienazione figlia della catena di Ford che bloccava il meccanismo? Non ce ne siamo accorti ma siamo passati direttamente dal godere del valore della cose a subirne il prezzo. Lo abbiamo fatto seguendo l’usta di un lavoro le cui regole sono figlie di algoritmi, di regole Seo, di parametri decisi dall’Intelligenza Artificiale.

E di necessità di equilibri in organico in cui ad essere head-hunter è un chip. E tuttavia il problema non è di ordine etico-nostalgico ma ha tre dimensioni, tutte e tre pratiche. Le nuove generazioni di lavoratori sono chiamate a surrogare le vecchie nel nome di un efficientismo isterico che non mette in equazione il fattore umano. Lo ha scalzato la macchina e quand’anche la macchina non fosse così invasiva quel che essa detta in ordine ai protocolli fa regola nelle azioni dei nuovi umani al lavoro.

La manutenzione attesa e i manutentori pronti

Il controllo qualità sulla linea

E fa regola in cose che poi si rivelano ancora bisognose di quella “manualità geniale” che del lavoro è presupposto imprescindibile.

In aneddotica gli esempi si sprecano, come quando lo stesso Borgomeo stava per lanciare Saxa Gres ed era in attesa dei manutentori che dal nord gli avrebbero dovuto supervisionare il forno nello stabilimento di Anagni. Era fermo da oltre un anno. Chiari i preventivi fatti a spanne: un milione nella migliore delle ipotesi per riavviarlo, due se ci fossero stati troppi pezzi da sostituire, sette milioni per ricomprarlo nuovo.

Invece a rimetterlo in piedi ci pensarono i lavoratori di Anagni e senza che nessuno glielo comandasse: in deroga all’avvio ufficiale del lavori e con la scusa di un semplice sopralluogo, i manutentori appena richiamati a lavorare nell’ex Marazzi Sud appena diventata Saxa Gres misero tutto a regime in poche ore, ore notturne.

Lo stesso accadde quando comprò il Centro Impasti Ceramici. Preventivi stellari per rimettere in funzione la smaltatrice. Invece bastò riattaccare la corrente e tutto andò a meraviglia. Perché? In segreto, uno dei lavoratori in cassa integrazione, ogni giorno entrava per un’ora nello stabilimento e faceva camminare l’impianto evitando che tutto andasse in malore. Nessuno ha mai capito se lo avesse fatto da solo o con l’aiuto di tutta una fabbrica che aveva la chiara consapevolezza che quei macchinari e la loro salvaguardia erano il lasciapassare sul futuro.

La differenza tra un water closet ed un cesso

Foto Ceramica Flaminia / Imagoeconomica

Che significa? Che l’artigianalità di un gesto, la sapienza di un vissuto e la bellezza di una soluzione pensata battono ancora 3 a 0 la puntigliosa ottimizzazione di un range produttivo algido, impersonale e robottizzato.

E che la differenza tra un wc ed un cesso proclamata da Giovannino Guareschi è ancora regola aurea per un’umanità che voglia andare avanti. Il primo è simbolo di progresso perché sta in casa ed è comodo, il secondo è totem di civiltà perché sta nell’aia e raggiungerlo è scomodo. Ma assolve la sua funzione con maggior decoro e puntualità.

Ecco, non siamo del tutto sicuri che le nuove generazioni quel particolare tipo di artigianalità la conoscano? Che siano pronte a raccogliere la sfida di un futuro che deve correre ma che non alla velocità della luce perché a quelle velocità ti perdi esattamente il risultato che cercavi?

Non lo sappiamo davvero, se un algoritmo possa sostituire un’ispezione praticona da parte di una persona di esperienza. Ed abbiamo il dubbio non solo che sia una partita persa per il primo fattore, ma anche che per il secondo non ci siano più speranze.

Il sapere della trivella

Un momento della trasmissione Atlantide

Perché il mondo va avanti, troppo avanti, e il sapere verticale e “di trivella”, quello che fece grande Andrea Purgatori ad esempio, non va più di moda. Oggi basta un titolo click-bait e qualche migliaio di view per fare di una testata un successo o un baratro. E quando le cose non vanno più di moda considerarle un’eredità da lasciare appare quasi stupido.

Stupido come noi che abbiamo il rimpianto di un passato che credevamo, e crediamo ancora, possa essere parte del futuro. Futuro in cui magari fare una bella foto e non chiedere all’AI di abbellirla dia a quello scatto il valore che gli tocca. E il prezzo che gli compete. Alla foto ed al fotografo che l’ha scattata.

Sarà la nostra capacità di lavorare e di essere più originali delle macchine a salvare questo territorio. Ed a farlo scegliere da chi intende venire ad investirci qualche milione di euro. Come ha fatto Power 4 Future di Finmeccanica che a Cassino ha messo la sua Giga factory scommettendo sulla genialità degli ingegneri sfornati a Cassino. Su loro. Non su un algoritmo.

(Foto di copertina © DepositPhotos.com).