Stop alla riforma delle Province. Ed al loro ritorno alle vecchie funzioni. Per il motivo che si conosceva dal principio: non ci sono i soldi. Salta la seduta in Senato: sine die.
Le Province italiane restano al loro posto. E ci rimangono esattamente come sono. Nessun cambio di legge elettorale, nessun ritorno alle vecchie mansioni, nessuna ondata di assunzioni per tornare a riempire gli uffici decimati con la riforma Renzi – Delrio che intendeva sopprimerle. Se ne fa nulla esattamente per il motivo che si sapeva dal primo istante: non ci sono i soldi.
Cancellare la riforma e restituire alle Province il loro vecchio ruolo costerebbe fino ad un miliardo di euro. Che in questo momento il Paese non ha. E nemmeno può pensare di andare a trovare da qualche parte in un momento nel quale si preparara a varare una Finanziaria piena di rinunce e sacrifici.
Il rinvio dell’argomento è dato per certo dopo che martedì al Senato è saltata la seduta della Commissione Affari Costituzionali. Doveva accendere il semaforo verde verso la riforma della riforma, s’è fermata di fronte ad un binario morto: quello del realismo. Perché in qualunque testo sarebbe stato obbligatorio indicare da dove si andavano a prendere i soldi per realizzarlo. E non c’è un posto dove prenderli. Quindi, la seduta è stata rinviata: sine die, senza data. Significa che se ne fa niente.
Un disastro annunciato
«Servono da 300mila fino ad un milione di euro» squaderna le cifre l’ultimo presidente della Provincia di Frosinone pre riforma, Giuseppe Patrizi. Il notes sul quale ha appuntato i numeri è lo stesso che usò prima della Delrio: all’epoca fu tra i pochi a dire con chiarezza che si sarebbe trattato di una riforma inutile e senza risparmi veri.
«Ricordo che ci affidammo ad un team composto da docenti di tre atenei, lo coordinava il professor Pica, uno dei più grossi economisti a livello europeo. Le loro equazioni misero in chiaro che con la riforma Delrio non ci sarebbero stati risparmi. E comunque i disagi creati ai territori sarebbero stati ben superiori ai risparmi del tutto teorici che si sarebbero ottenuti».
Tornare indietro significa assumere centinaia di dipendenti in tutta l’Italia. Perché quelli precedentemente in organico hanno seguito le competenze andando a lavorare nelle Regioni, dove i contratti sono ben più soddisfacenti. Riportando indietro alle Province le loro vecchie competenze, nessun impiegato tornerebbe perché perderebbe lo stipendio da Regionale.
Giuseppe Patrizi mostra tutti i costi che bisogna affrontare per riportare le Province allo status precedente: il ripristino delle indennità per Presidente della Provincia, Assessori provinciali, Consiglieri. Senza contare poi le spese necessarie al funzionamento degli uffici: computer, stampanti, toner, fotocopiatrici, energia elettrica, fibra. Ma prima ancora ci sarebbero i concorsi per selezionare il personale. Tempi infiniti.
Il problema politico
Sul piano politico, il ritorno delle Province è un cavallo di battaglia della Lega. Il rinvio sine die sarebbe una brutta mossa da spiegare agli elettori. C’è la possibilità che Fratelli d’Italia allarghi la strada che porta all’autonomia, altro cavallo del Carroccio e di dimensione ben maggiore delle Province. Il testo quasi secessionista proposto dalla Lega è stato emendato e melonizzato dal senatore Andrea De Priamo che ha sfrondato molti punti della bozza Calderoli.
Un dato viene fornito per certo a Palazzo Madama: con le prossime Comunali ed Europee a giugno 2024 non ci sarà anche il voto per le Province ri-riformate. Insostenibile la graticola di un’opposizione che avrebbe gioco facilissimo nel dire che il Governo riapre le Province con i soldi tolti al reddito di Cittadinanza.
In Senato non tutti danno tutto per ormai sepolto. C’è chi spera in una sintesi con il Pd. Che riaprirebbe qualche spiraglio. ma prima bisogna vedere quale sarà la reazione di Calderoli e del carroccio.