Non sono i 'se' a cambiare le cose in politica. ma le scelte precise. Ce n'era di diverse che potevano fare il centrodestra o il centrosinistra? Oppure la caduta di Latina era inevitabile?
Una firma e tutti a casa. Ma a Latina poteva essere diverso? Con il senno di poi, no. Il centrodestra da un lato aveva già deciso di voler ritentare il tutto per tutto, dopo la sconfitta di Vincenzo Zaccheo il 4 settembre. Dall’altro lato il risultato del voto politico del 25 settembre aveva ulteriormente ricompattato FdI, Lega e FI, con l’aggiunta dell’Udc che poche sere prima del Consiglio del 28 settembre era intervenuto all’assemblea di Fare Latina per dire che no, si sarebbe dovuti restare in aula, quantomeno a dibattere. (Leggi qui: Latina, il centrodestra si dimette in massa. Coletta: «Lascio a testa alta»).
E a nulla sono valse anche le constatazioni di una Forza Italia che governa la Provincia insieme a Pd e civici. La Provincia, si fa notare, è infatti ormai un ente di secondo livello, deputato solo ed esclusivamente ad atti amministrativi. Non fa politica, insomma. E, soprattutto, è un Consiglio composto da consiglieri comunali e da sindaci, che in sostanza trovano intese in nome del territorio sui pochi temi rimasti: strade, edilizia scolastica, ambiente.
Ognuno per se
Ognuno, quindi, ha guardato alle proprie ambizioni, in particolare quelle relative alla futura candidatura a sindaco, per la quale FdI farà pesare il proprio risultato a Latina, dove è il primo Partito di coalizione, distanziando inoltre di parecchio gli altri.
Quindi la cosa non ha avuto alcuna influenza sulla decisione di FI. Anzi, in realtà, Forza Italia ha preso due piccioni con una fava: ha eliminato in un colpo Damiano Coletta e anche Vincenzo Zaccheo, che quasi certamente il centrodestra non ricandiderà. Ha avuto la sua occasione, anzi, tre, calcolando primo turno, ballottaggio e rinnovazione in 22 sezioni, e quindi…
Sul fronte Prog
Per la ricandidatura di Coletta, si vedrà nei prossimi mesi. Ma Damiano Coletta, invece, avrebbe potuto fare qualcosa? In conferenza stampa ha detto: “Ho chiamato i leader di centrodestra, non mi hanno risposto“. Quasi ovvio, verrebbe da dire, visto che sicuramente avevano già deciso, ed erano solo in attesa di una conferma, dal voto del 25 settembre, della posizione di forza del centrodestra ormai suggerita dai sondaggi.
Una sola mossa, quindi, sarebbe rimasta al sindaco: dimettersi prima che lo facessero gli altri, quantomeno per uno scatto d’orgoglio o per non restare in balia di altrui decisioni.
Fermo restando che questa eventuale azione non ferma dimissioni dei consiglieri, le norme concedono venti giorni di tempo a un sindaco dimissionario per ripensarci, dopodiché diventano definitive. Venti giorni in cui forse il sindaco qualche consigliere sarebbe riuscito a convincerlo.
Forse l’Udc, forte di un solo consigliere comunale fortuitamente guadagnato rispetto al risultato di un anno fa. O forse Patrizia Fanti, di cui si vociferava non fosse favorevole alle dimissioni.
Nel nome di Annalisa, forse
Difficile invece pensarlo di Annalisa Muzio, che da Mauro Anzalone di Forza Italia ha già ricevuto una mezza candidatura a sindaco alla prossima tornata elettorale. Una mezza promessa, in cui lei crede molto, come ci credeva un anno fa, quando poi il centrodestra scelse Zaccheo. Promessa che dovrà però superare, nei prossimi mesi, gli scogli dei personalismi delle diverse anime del centrodestra.
Ma sarebbero stati due o tre consiglieri sparsi, una situazione differente rispetto a un anno fa, quando comunque Coletta aveva con sé l’intero gruppo consiliare di FI. E anche chi è dalla sua parte ammette oggi a denti stretti che no, quattro anni così non si sarebbe potuti andare avanti.
Coletta non ha voluto sentir parlare di sue dimissioni, con il principio “io non ho nulla da rimproverarmi, esco a testa alta, se il centrodestra vuole dimettersi, lo faccia assumendosi la responsabilità di fronte alla città e alla storia“.
I limiti della norma
Quanto avvenuto a Latina è la dimostrazione che qualcosa che non funziona più di tanto, nella legge elettorale per i Comuni, c’è.
Disastrate le Province con la riforma Delrio, i Comuni sono rimasti con le Regioni unici enti a elezione diretta del vertice (in Italia non sono i cittadini a eleggere direttamente né i deputati né i sentori, il presidente del Consiglio e tantomeno il presidente della Repubblica.
Ma in caso di elezione diretta del sindaco, è quantomeno anomalo che la legge preveda un caso come quello dell’anatra zoppa: si comprende il principio democratico, di voler lasciare al cittadino la più ampia facoltà di scegliere una coalizione di un colore e un sindaco di un altro; e anche la possibilità del voto disgiunto (di cui è rimasto vittima Zaccheo) perché – a livello amministrativo locale – conta più la persona. Ma in questo caso, arrivati a una vittoria al ballottaggio, il primo cittadino scelto ed eletto, deve poter contare sulla governabilità.
In Italia però, le leggi elettorali per il Parlamento si cambiano ogni tre per due (da quella originale del 1946, nel 1953, 1993, 2005, 2015, 2017, per parlare solo di quelle dell’Italia repubblicana. E verrebbe da dire, si cambiano affinché nulla cambi. Quella dei Comuni, invece, ha avuto un’unica vera rivoluzione storica, nel 1993, con l’elezione diretta del sindaco. Quando funziona…