Pesca batte Nadef, e stavolta la politica c’entra davvero molto poco

Un "non caso" che come al solito ha diviso gli italiani che a dividersi sui social ormai ci hanno preso gusto. Purtroppo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

La settimana che si è appena conclusa è stata quella della Nadef, la nota di aggiornamento ai conti che il Governo mette in agenda. E quella nota porta scritto a chiare lettere che per la manovra economica si partirà da un deficit di 14 miliardi di euro. Tradotto? Non saranno le canoniche e logorroiche “lacrime e sangue” ma sarà dura far quadrare i conti dell’Italia. Preambolo: i conti dell’Italia sono di fatto i conti degli italiani.

Vale a dire la possibilità che il denaro pubblico vada a risolvere i problemi concreti di un Paese con la testa piena di slogan e con la pancia a corto di misure concrete a lungo termine. Tutti questo per disegnare un quadro generale in cui l’esercizio della facoltà di opinione degli italiani sarebbe dovuto andare a traino diretto di una situazione concreta ed immanente. E direttamente collegata all’esistenza di ognuno di essi.

L’Italia dei conti e la provincia della fuga industriale

Sono giorni amari per il paese, giorni in cui l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni fa la capriole arditissime per equalizzare il diritto allo spot con il dovere dell’azione. Giorni in cui la Provincia di Frosinone paga pegno ad una burocrazia talmente greve e cervellotica che le imprese scappano e le famiglie hanno basso potere di spesa. Giorni in cui si cerca di correre a ripari sistemici con la convocazione degli Stati generali della Provincia di Frosinone da parte del presidente Luca Di Stefano. (Leggi qui: Stati Generali, Rocca ci sarà ma cambia la data).

Non è una situazione tragica ma è di certo situazione delicata, nella quale quindi il pensiero collettivo dovrebbe seguire l’usta pratica degli step economici cruciali per una nazione che sta a metà strada esatta fra grandezza proclamata e baratro imminente. Ma cos’è la libertà di parola senza la facoltà di intelletto? Il nulla assoluto, un nulla che ha comunque pieno di diritto di esistere ma che nel momento in cui lo fa significa al meglio l’atavica propensione degli italiani a sperdersi dietro polemiche inesistenti, cretine ed orpellate.

Il “pezzotto etico” di uno spot

Robe tarocche e fuori ambito dove la storica propensione al melodramma manicheo di questo strano popolo che siamo dà il meglio di sé, così, per il gusto di salire sul ring dei social e giocare a chi la dice “più figa”. Stavolta il meteorite che ha fatto irruzione nei cieli del pensiero mainstream italiano non ha avuto le sembianze rupestri ed aliene di un corpo celeste. No, sono state quelle vellutate e polpose di una pesca, la maledetta pesca di Esselunga.

E’ accaduto che un’agenzia pubblicitaria di New York che annovera tra i suoi operatori dei geni, ha tirato fuori il famoso spot della bambina. Quella che usa quel frutto sugoso come “leva” per provare a rimetter pace tra i suoi genitori separati. E siccome da noi ragionare per categorie etiche sembra essere il solo modo per far vedere che si è contro le categorie l’Italia si è polarizzata attorno ad una pubblicità.

E uno spot semplicemente ben riuscito è diventato un trend topic talmente magnetico da attirare tutta l’attenzione dei maitre a penser tricolore. Quelli da tastiera, ovvio.

Stavolta la politica c’entra poco

Di solito quando accadono cose simili il canovaccio è fisso e prevede il pistolotto d’ordinanza ad una politica capace di discutere solo di questioni concettuali ma inabile a “quagliare”. Anche questo è un luogo comune, perché sulla vicenda della pesca la politica è arrivata dopo. Qui il problema siamo noi e i media, una combo micidiale. Accoppiata che da un lato vede gli italiani a mollo nella broda sterile di cose epidermiche, dall’altro vede l’informazione scattare in arcione a qualunque boiata sia capace di dare birra alla nostra propensione al dibattito.

Non il dibattito vero, ma quello pezzotto, parente stretto del vaniloquio da Tso. Su cosa ci si è polarizzati stavolta? Sul fatto che ci sarebbe chi in quello spot ci ha visto la tonda rappresentazione delle sofferenze dei figli di fronte ad una cosa traumatica come un divorzio. Poi gli altri. Chi? Quelli che nello spot ci hanno visto una chiara agiografia della famiglia tradizionale. E questo secondo due direttrici interpretative. La prima perché lo storyboard traboccherebbe di luoghi comuni, la seconda perché il narrato sembra occhieggiare all’inopportunità di divorziare, pena le sofferenze dei figli. Roba papalina insomma.

Attenzione: quando un divorzio lo hai vissuto davvero non è difficile impalcare emozioni ed opinioni su un frame che ti rimanda l’eco amara di quel che hai vissuto. Ma c’è un limite. E il limite è quello per cui magari dopo una incursione in ciò che quello spot ha suscitato sarebbe stato opportuno lasciarlo cadere nel dimenticatoio delle cose ben fatte ma di settore.

Nessuna grande radiografia sociale

E’ uno spot, “benedetto Iddio” come diceva Tonino Di Pietro. Cioè una cosa che nella civiltà occidentale allama i gonzi per spingerli verso un fine commerciale. Non ha la presunzione di innescare grandi contese etiche, ma solo di fare una radiografia alla società per accalappiarne un pezzetto passando per le sue tasche. Magari con una riflessione tiepida, per induzione e attrito radente.

Non c’è mai stata la pretesa che quei due minuti andassero a sostituirsi a ciò che la politica ha o dovrebbe avere in arcione morale o all’evoluzione dei sistemi complessi di società. Eppure ci siamo caduti a “piombo” e per giorni interi ci si è divisi. A Giorgia Meloni e Matteo Salvini quello spot è piaciuto, a qualcun altro no, e qui arriva il secondo trucco che non è imputabile né alla politica né alle controparti politiche di chi sta di casa a Palazzo Chigi.

E’ vero, Nicola Fratoianni e Pierluigi Bersani (anche loro, sic!) hanno speso parole sul tema. Ma erano parole morbide o benaltriste, in mood “non strumentalizziamo il dolore dei piccoli” o “pensiamo piuttosto ad abbassare il costo del carrello della spesa”. Insomma, o piacionismo etico o benaltrismo un tanto al chilo, ma nulla più. Ma allora su cosa i media hanno impalcato l’epifania della polemica, a contare che la polemica presuppone una contrapposizione di opinioni in ambito unico?

Effetto domino e chi ha preso d’aceto

Giorgia Meloni con Matteo Salvini

Leggiamo sereni: contro lo spot della pesca e della bambina dolorante ed ingegnosa hanno preso d’aceto quelli dell’account “Aestetica sovietica”. Poi di quello “MammaDiMerda”. Secondo quest’ultimo la pubblicità in questione “in un solo colpo rinforza sensi di colpa e stigmatizza divorzio e figli di divorziarti. Mentre – come insinua saggio Sky Tg24 citando quella autorevolissima opposizione- “i tempi sono maturi per ‘scindere il concetto di coppia da quello di famiglia e quello di famiglia dalla genitorialità’“.

Capito? Non c’era alcuna polemica politica ma si è fatto in modo che polemica ci fosse andando ad intercettare tutte le posizioni social che potessero dare birra alla metamorfosi da storiella figa in Grande Snodo Etico. Il resto poi è venuto da sé, perché i social questo sono: bacini di pescaggio ed al contempo acceleratori di massa. Quindi una cosa che avrebbe dovuto tener banco magari per qualche ora di pigra digitazione fancazzista è diventata un Leviatano.

Un mostro capace di oscurare la Nadef, i conti dello Stato e i guai, guai grossi, delle famiglie della Magneti Marelli. Senza contare il benaltrismo di ritorno tra citazioni di spot simili, ossimori con lo stereotipo della Famiglia del Mulino Bianco.

Magneti Marelli ma chi ti pensa

Foto: Marco Cremonesi © Imagoeconomica

Quelli e paragoni con quello Barilla, sempre con bimba ma con famiglia coesa e un po’ stoico-lisergica. Famiglia che senza scomporsi la attende a casa dopo che ha perso lo scuolabus ed ha raccattato un gattino in strada sotto la pioggia. Probabilmente se quello spot fosse andato in onda oggi, con i social sciolti come segugi cretini, quei genitori sarebbero stati accusati di abbandono di minore. E la Tabù che pubblicizzava i suoi confetti con lo stereotipo del “nero” canterino e jazzista sarebbe finita alla Cayenna.

Non capita molto spesso a chi scrive di dare ragione a Carlo Calenda, ma quel suo “meritiamo l’estinzione” ha il tono di un’iperbole su cui essere d’accordo. Solo per un attimo magari, ma in quell’attimo con convinzione assoluta.